Perché Garibaldi accettò l’invito rivoltogli da alcuni patrioti francesi di intervenire in soccorso della pericolante repubblica francese sotto attacco dei prussiani dopo la sconfitta di Napoleone III a Sedan dell’1 settembre 1870?.
Cosa può aver indotto un uomo ormai anziano, reduce da mille battaglie, ridotto dall’artrite in condizioni deplorevoli, a gettarsi in un’altra avventura con prospettive incerte, senza idee ben precise di quale sarebbe stata la sua utilizzazione militare nell’ambito del grande conflitto in atto?
Il suo intervento, infatti, non era stato richiesto ufficialmente dalla Francia, sibbene suggerito da generosi patrioti francesi che ritennero di contribuire alla sua difesa inducendolo ad accettare ed offrendolo come alleato volontario all’esercito francese.
Cosicchè Garibaldi partì, si potrebbe dire, al buio, e non tutti i comandanti francesi che se lo videro capitare fra i piedi ne furono poi troppo lieti.
Cosa, dunque? Si è detto, il grande ideale della libertà dei popoli, sempre da lui perseguito, e dunque anche quella dei francesi aggrediti dai Prussiani ed in pericolo: dimentico, in nome di quell’ideale, di aver fatto a schioppettate con loro a Mentana nel 1867 nella “Campagna dell’Agro Romano” allorchè erano accorsi a difendere quel Papa che Garibaldi voleva abbattere per liberare Roma e farne la capitale d’Italia.
Ma, accanto ad essa, un’altra ipotesi si fa strada per comprendere la sua azzardata decisione: la grande disillusione per non essere stato coinvolto in qualche modo dal governo italiano nell’azione del 20 settembre 1870 che attraverso la breccia di Porta Pia portò alla liberazione di Roma.
Era stato questo, il principale impegno per tutta la sua vita, e vani erano stati i suoi ripetuti tentativi: nel 1860 allorchè mentre risaliva la penisola dopo la vittoriosa campagna dei Mille in Sicilia vide stoppato dal Re a Teano il suo intento di proseguire, finalmente, per Roma; una seconda volta quando, partito di nuovo dalla Sicilia nel 1862 al grido di “Roma o morte”, venne fermato da una fucilata degli stessi fratelli italiani sull’Aspromonte; infine, nel 1867 allorchè il suo tentativo di liberare Roma fu infranto dai Francesi che accorsi in difesa del Papa, lo sconfissero a Mentana.
Nessuno del governo italiano si era ricordato di lui per riconoscere il grande contributo da lui dato alla realizzazione di un sogno che stava diventando realtà, e per coinvolgerlo, in qualche modo, nell’azione e nelle celebrazioni.
Eppure egli attendeva quel momento, ed era pronto: nelle sue “Memorie” scrive che “se l’Italia dovesse un giorno essere retta da un uomo e quell’uomo dicesse di mandare i tamburi dell’esercito a scacciare quella brodaglia che infesta Roma, noi dovremmo coadiuvare con l’esercito”.
Di qui la sua reazione: gettarsi in una nuova impresa per dimostrare la sua forza, il suo valore ed il suo coraggio che non erano stati utilizzati per concorrere alla liberazione di Roma.
Forse che, alla notizia, egli scriva, lanci proclami, tenga discorsi, lodi i valorosi bersaglieri, infierisca sull’odiato Papa finalmente scacciato dalla città eterna?
Da un esame compiuto sulle sue “Memorie”, su documenti dell’epoca e su molti testi dell’epopea garibaldina (esame che non esclude, ovviamente, che altri possano smentirmi), nulla ho trovato di tutto ciò: egli tace.
Nella corrispondenza originale del garibaldino Adamo Ferraris utilizzata per pubblicare il mio “Adamo Ferraris – Il medico di Garibaldi” notai, con sorpresa, l’assenza di qualsivoglia riferimento all’avvenimento che avrebbe dovuto sconvolgere ed esaltare sia Garibaldi che lo stesso Ferraris partecipe con lui nel 1867 alla “Campagna dell’Agro Romano” e che a Mentana aveva corso il rischio di rimetterci la pelle: ma della liberazione di Roma non si parla proprio.
Eppure il fatto clamoroso era ancora fresco, perché dal giorno dell’entrata in Roma (20 settembre 1870) a quello dell’arrivo di Garibaldi in terra francese, non era passato neppure un mese.
Questo potrebbe dunque essere un motivo che indusse Garibaldi a lasciare la vita tranquilla di Caprera per sbarcare in Francia: la disillusione di chi, dopo aver a lungo inseguita la preda, se la vede improvvisamente carpire.
Tra i tamburi che entrarono rullando in Roma non c’erano, infatti, i suoi.
Roma era qualcosa di suo: se ne sentì scippato, se ne offese e se ne andò, in silenzio, senza sbattere la porta.
Giovanni Zannini
Nessun commento:
Posta un commento