Tra gli altri, a conferma di questa
tendenziale “apatia” del loro carattere, esistono due episodi
che, oltretutto, manifestano singolari analogie.
Il primo riguarda il tentativo di
Garibaldi che nel 1867 capeggiò una spedizione di volontari con
l'intento di liberare Roma sostituendosi all'inerzia del re Vittorio
Emanuele II che, temendo di entrare in collisione con la Francia -
con la quale si era impegnata, con la Convenzione del 15 Settembre
1964 a difendere lo Stato Pontificio da ogni aggressione - non
osava farlo.
Tentativo all'inizio segretamente
appoggiato dal governo che avrebbe certamente gradito
se l'impresa fosse andata a buon fine,
ma che poi, di fronte all'accorrere dei francesi in difesa del
Papato, per motivi di politica estera non esitò a condannarla.
Ciononostante Garibaldi insistette nel
suo tentativo che fu stroncato il 3 novembre 1867 dalla sconfitta
subita nella drammatica battaglia di Mentana.
Fra i tanti commenti dedicati a questa
impresa spicca la testimonianza del garibaldino Adamo Ferraris
(fratello del più noto Galileo, famoso scienziato, e poi medico
personale di Garibaldi nella spedizione in Francia del 1870/1871) che
partecipò all'impresa.
Dunque, Garibaldi è giunto nei pressi
di Roma e, scrive il Ferraris nella sua lettera 1 novembre 1867 al
padre, “il Generale ci fece bivaccare tre giorni a due miglia da
Roma, nella notte fece accendere dei gran fuochi. Ci fece percorrere
due volte tutto il lato nord est della città stessa con tutto
l'intero corpo dei volontari di Menotti (figlio di Garibaldi - ndr)
forte di circa 8000
uomini, e tutto ciò con l'evidente
scopo di invitare i romani ad insorgere, ovvero anche i papalini a
venire a battaglia, ma tutto inutilmente. I DEGENERI ROMANI NON
FECERO UN MOTO (il maiuscolo è di chi scrive) ed i papalini, dopo
una ricognizione offensiva in cui spararono 25 cannonate, si
ritirarono nella città facendo saltare dietro di loro i ponti...”.
Per la verità, vi furono romani che,
in occasione di quella che fu chiamata la “Campagna dell'Agro
Romano”, collaborarono con i liberatori, ma furono due soli con
altri pochi compagni: Gaetano Tognetti e Giuseppe Monti, muratori,
che, avuta notizia dell'avanzare di Garibaldi alla volta della
capitale, il 22 ottobre 1867 fecero saltare in aria con una mina
parte della Caserma Serristori in Roma causando la morte di alcuni
zuavi pontifici, e che, processati e condannati a morte, furono
decapitati.
Nè miglior sorte ebbe il generoso
tentativo dei fratelli Cairoli Enrico e Giovanni e dei loro eroici 68
compagni .
Rotti gli indugi degli altri comandanti
garibaldini costituitisi a Terni in Comitato d'insurrezione per la
liberazione di Roma, che attendevano, prima di muoversi, l'arrivo di
Garibaldi - rocambolescamente evaso da Caprera ove il governo
italiano l'aveva confinato per evitare che combinasse guai - il
gruppo di ardimentosi si mise in marcia
Partiti da Terni la notte del 22
ottobre, l'indomani attraversarono il confine dello stato pontificio
e quindi, disceso il Tevere con alcune imbarcazioni, sbarcarono alle
porte di Roma nei pressi del Ponte Molle occupando poi sul Monte
Parioli la vigna e la villa di proprietà dell'ing. Vincenzo Glori
ove attesero il verificarsi dell'annunciata insurrezione dei
cittadini romani che invece mancò.
Dopo questa vana attesa, mentre
meditavano sul da farsi, furono intercettati e attaccati da gran
numero di zuavi, pur dopo un feroce impari combattimento in cui
rifulse il valore dei giovani garibaldini e che vide la morte del
loro comandante Enrico Cairoli – e, l'anno dopo, del fratello
Giovanni (“Giovannino”) a seguito delle gravi ferite riportate -
essi furono costretti alla resa e fatti prigionieri.
Il secondo episodio accaduto qualche
anno dopo confermò l'apatia dei romani per le vicende
risorgimentali italiane.
Approfittando dell'esito della guerra
franco-prussiana risoltasi con il dissolvimento dell'impero francese
dopo la sconfitta subita a Sedan l'1 settembre 1870, il governo
italiano - sciolto dagli impegni assunti con la Francia con la
Convenzione di Settembre 1864 che lo obbligava
a difendere l'indipendenza del Papato -
colse al volo la fortunata combinazione offertagli dalla sconfitta
francese e affrontò immediatamente e senza preoccupazioni il
problema della liberazione di Roma per farne la capitale del Regno.
E solo 10 giorni dopo Sedan, l'11
settembre, il generale Cadorna, alla testa di 5 divisioni invade il
territorio pontificio e, giunto alle porte di Roma, ancora un volta
si arresta in attesa di una insurrezione popolare che offra il
pretesto di entrare pacificamente nella città per ristabilire
l'ordine pubblico.
Ma, ancora una volta, come scrive lo
storico inglese Denis Mack Smith, “...l'indifferenza o,
addirittura, l'ostilità della cittadinanza romana, e la fede e
l'interesse che la spingevano a restare fedele a Pio IX...” impedì
che ciò accadesse.
Fu allora necessario ricorrere
alla forza dei cannoni che il 20 settembre 1870 aprirono la breccia
di Porta Pia attraverso la quale i bersaglieri italiani dilagarono
in Roma.
E il fatto che la città fu conquistata
dopo soli venti giorni dalla provvidenziale sconfitta di Napoleone a
Sedan, fa dire a molti storici (e fra questi il Mack Smith) che ciò
“avvenne in maniera del tutto casuale come effetto secondario della
vittoria prussiana”, in tal modo ridimensionando la gloria italiana
della battaglia di Porta Pia.
Padova 21-2-2019
Giovanni Zannini