La “Storia della Seconda Guerra Mondiale” di Winston Churchill, in 12 volumi, Premio Nobel 1953 per la Letteratura non è solo il resoconto completo del tragico secondo conflitto mondiale, ma pure una miniera di accenni, di spunti, d’interrogativi che emergono talora in tono ironico dalle sue pagine e che da sole potrebbero costituire interessanti argomenti per chi desideri approfondirle.
Un esempio? L’incontro a Mosca fra Churchill e Stalin del 12/16 agosto 1942.
I tedeschi sono all’offensiva su tutti i fronti e sembrano inarrestabili: in Africa settentrionale impegnano duramente gli inglesi e sembrano prossimi alla conquista del Cairo, in Russia sono giunti a 90 chilometri da Mosca.
Stalin, furente, esige dagli alleati la costituzione di un secondo fronte che consenta l’ alleggerimento dall’incontenibile pressione tedesca e muove agli inglesi la dura accusa di non aver ottemperato agli
Impegni presi con il “Piano Sledgehammer”.
In effetti, all’inizio del 1942 gli inglesi per placare le ripetute richieste d’aiuto di Stalin, avevano messo allo studio un piano d’invasione - così denominato - delle coste francesi, del quale avevano informato Molotov, ma il piano era stato poi accantonato perché ritenuto all’epoca irrealizzabile, e sostituito con il “Piano Torch” che prevedeva lo sbarco americano nell’africa settentrionale, costituendo in tal modo l’invocato secondo fronte richiesto a gran voce da Stalin, ciò che poi , in effetti, avvenne nel 1943.
ll dittatore russo affermava, invece, che l’apertura del secondo fronte era stato dagli inglesi formalmente promessa per l'anno 1942 e quindi, non avendola realizzata, avavano mancato di parola: per questo Stalin era furibondo.
Gli inglesi, anche per il timore che la situazione disperata in cui si trovava, potesse indurre Stalin alla pace separata con i tedeschi, chiedono ed ottengono da lui il benestare per una visita a Mosca onde chiarire la situazione e por fine agli equivoci.
Ma prima di partire Churchill, che nella corrispondenza con Roosvelt si firma sempre “l’ex-Marinaio”, gli scrive chiedendogli di autorizzare Everett Harriman, suo consigliere, ad accompagnarlo a Mosca per dare a “Joe” (ossia a Stalin) l’impressione d’andare perfettamente d’accordo.
Il Presidente, ovviamente, acconsente e così il 12 agosto 1942 il Primo Ministro inglese “sbarca” a Mosca per iniziare i colloqui che si prevedono assai difficili.
L’inizio, in effetti, è burrascoso, con Stalin che duramente insiste sulla mancata parola inglese a proposito del “Piano Sledgehammer” cui Churchill replica che non di una promessa si era trattato, ma solo dell’informazione all’alleato che era in corso lo studio di un’operazione alla fine considerata irrealizzabile e quindi accantonata.
Successivamente, nel giro di sette ore di colloquio, grazie alla pacatezza di Churchill che si sforza di non rispondere alle provocazioni, e che placa Stalin con la promessa di effettuare nel 1943 l’”Operazione Torch”, il clima si fa meno teso ed il colloquio prosegue in maniera accettabile.
Salvo un ritorno di fiamma del dittatore russo che, durante la cena da lui offerta dopo la chiusura dei colloqui ufficiali, chiede brutalmente all’ospite “se la marina britannica è assolutamente priva del senso dell’onore”, con riferimento al fatto che un convoglio inglese che per la via del mare Artico trasportava aiuti ai russi era stato intercettato dai tedeschi e in gran parte affondato.
Ne segue un battibecco“Voi dovete credermi” risponde Churchill “se vi dico che tutto fu compiuto nel modo migliore ; ed io ho una lunga esperienza in fatto di marina e di guerra sul mare”. “Con ciò” replica il russo, piccato “intendete dire che io non ne capisco nulla”. “La Russia è un animale terrestre” conclude l’altro “gli inglesi, invece, sono animali marini”.
Alla fine il clima migliora e, addirittura, durante la cena suddetta, Churchill assiste ad una scenetta del tutto borghese, la figlia del dittatore, “una ragazza avvenente dai capelli rossi” che “bacia rispettosamente il padre” il quale, ammiccando verso l’ospite, sembra dirgli che “anche i bolscevichi hanno una vita familiare”.
Poi Stalin, che “aveva levato il tappo a numerose bottiglie che cominciarono a formare una schiera imponente” mandò a chiamare Molotov dicendo poi, rivolto a Churchill, una frase che non costituì certamente un elogio per il prestigio del suo ministro degli esteri:”C’è una sola cosa buona in Molotoff: sa bere bene”.
A questo punto il Primo Ministro inglese sente di dover mettere onestamente le cose a posto sull’argomento.
“Su questi pranzi sovietici” scrive, “si sono raccontate molte stupide storielle; in particolare si è detto che si trasformano in solenni sbornie.Non vi è nulla di vero in questo: il Maresciallo ed i suoi colleghi partecipavano invariabilmente ai brindisi, bevendo appena un sorso da bicchieri molto piccoli”. E conclude, fieramente, sottolineando la sua superiorità in materia:”Quanto a me, ero ben allenato”.
Molti altri gli spunti che si potrebbero trarre dallo storico incontro di Churchill e di Stalin a Mosca del 12/16 agosto 1942.
Concludiamo con questo, piuttosto leggero.
In occasione della cena di cui sopra , vi furono delle battute chiaramente non protocollari che misero in difficoltà il povero Vjaceslav Michajlovic Skrjabin, noto con il nome di battaglia Molotov, che evidentemente a Churchill non stava proprio simpatico e che neppure il dittatore, come si è sopra visto, stimava un gran che.
Sa , chiede Churchill, insinuante e spregiudicato, a Stalin, che il suo ministro degli esteri, durante la recente visita a Washington, aveva detto che intendeva recarsi a New York di sua iniziativa, e che il ritardo nel tornare non era dovuto a un guasto dell’aereo, ma soltanto al fatto che aveva compiuto una scappatina esclusivamente personale?
A questo punto la situazione si fa ancor più ingarbugliata per colpa di Stalin che, invece di difendere il suo uomo, dice, con una risata:”Non si è recato a New York, ma a Chicago dove vivono gli altri gangsters”.
“Sebbene” scrive Churchill “durante un pranzo russo si possa dire celiando qualsiasi cosa, Molotov sembrò accigliarsi a questa domanda".
E allora, cosa c’era sotto?
Diamo spazio alle fantasie più estreme: Molotov va a puntar soldi in una casa da gioco, oppure
s’incontra con i gangsters per affari privati poco puliti, forse la gestione di denaro proveniente da azioni delittuose compiute in Usa.
Ovvero si è trattato semplicemente di una (o più) gonnelle.
Comunque sia, per i cacciatori di misteri e per gli amanti del “gossip”, le porte sono aperte.
Giovanni Zannini
Questo Blog raccoglie molti miei scritti alcuni dei quali pubblicati su giornali e riviste. Non sono uno storico ma è mio desiderio informare su fatti ed episodi poco noti che spesso non sono conosciuti dai più. Oltre a ciò il Blog contiene mie considerazioni e commenti su argomenti vari nonché racconti e novelle frutto della mia attività letteraria.
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domenica 23 ottobre 2011
martedì 18 ottobre 2011
ULTRAVIRES100
Situata sopra un colle isolato ed alberato per far godere agli ospiti aria buona, e lontana dal rumore dei centri abitati, con un accesso stradale tutto curve assai malagevole, e sterrato, ad una ventina di chilometri dalla grande città, la Casa di riposo “Quietas” era considerata l’oasi ideale, serena e protetta per i vecchi che vi erano accolti.
La vecchia villa di campagna ancora ben conservata e circondata da un parco accoglieva una cinquantina di ospiti che vivevano in un ambiente semplice ma ordinato e funzionale che consentiva ai vecchi una vita sufficientemente serena.
Tre cameroni (i reparti A,B e C) arredati con letti in ferro vecchi ma sempre tenuti in ordine, ed i relativi servizi, costituivano il reparto notte; un soggiorno ampio e luminoso era il luogo ove i ricoverati che non erano costretti a tenere il letto passavano la maggior parte del loro tempo i più sonnecchiando, gli altri, ancora in grado di farlo, leggiucchiando, giocando a carte o guardando la tv anche se trasmetteva programmi per i ragazzi.
Infine, la sala da pranzo, meta agognata del pasto di mezzogiorno e della sera.
Un Primario era responsabile della salute degli ospiti ma, tutto preso dal suo studio privato, dedicava all’istituto rare visite e veloci telefonate per cui l’assistenza medica era affidata a giovani medici che avrebbero dovuto sostituirlo ma che in realtà si limitavano a far passare il tempo per ottenere la specializzazione in geriatria, e che, terminato il periodo di apprendistato, si affrettavano a tagliare la corda verso lidi ed incarichi più appetibili.
Per cui, nella realtà, la “Quietas” era affidata ad una giovane donna assai intelligente e volonterosa, Benedetta - che tutti chiamavano “suora” perché vestiva come una monaca - dotata di grande senso di responsabilità e di eccezionali capacità organizzative.
Figlia (un tempo si diceva così) di “NN”, dopo essere stata allevata in un istituto di suore era entrata giovanissima alla ”Quietas” come servente ma con il passare del tempo, per la sua affidabilità, ne era divenuta la direttrice responsabile
Aveva una parola affettuosa per tutti, non faceva sentire agli ospiti la lontananza di parenti ed amici spesso dimentichi, assisteva i malati e gli infermi, pregava con loro Gesù e la Sua celeste madre affinchè vigilassero dal cielo sulle loro vite: insomma, si prodigava senza risparmio per rendere quanto più gradevole il soggiorno alla “Quietas”.
Un assistente intraprendente.
Il ricambio dei giovani medici specializzandi era molto frequente e venne la volta del dott.Giovanni Diurno, fresco di laurea, ad arrampicarsi sul colle ove sorgeva la casa di riposo: un giovane dotato di ingegno vivace e di volontà ferrea, studioso e desideroso di affermarsi ad ogni costo per dimenticare un passato di povertà e di sacrificio vissuto in una famiglia povera e disastrata dalla separazione dei genitori il cui affetto gli era dolorosamente mancato.
Aveva dunque colta al volo l’offerta di effettuare il praticantato alla “Quietas” subito individuata come sede ideale per i suoi studi sulla geriatria miranti ad un traguardo che l’aveva sempre appassionato, il benessere ed il prolungamento della vita dei vecchi che, se realizzato, gli avrebbe procurato fama e ricchezza.
Soprattutto, pensava piuttosto cinicamente, avendo a sua completa disposizione un prezioso materiale umano sul quale effettuare, praticamente senza rischio alcuno, eventuali sperimentazioni. Infatti, pensava, in caso di “incidenti” nessuno si sarebbe sognato di guardarci dentro (dato il completo disinteresse di chi avrebbe dovuto provvedervi), con la possibilità, dunque, di attribuirli al fatale decorrere del tempo che ad un certo punto pone inesorabilmente fine alla vita umana.
Aggiornatissimo sulle più recenti acquisizioni scientifiche, attento lettore delle più autorevoli riviste in materia geriatrica, alieno da ogni distrazione che pur alla sua età sarebbe stata comprensibile, il giovane assistente conduceva una vita al limite dell’ascetismo dedicandosi allo studio ed all’approfondimento dello stato di salute di ciascuno dei ricoverati.
Benedetta, ammirata dal suo comportamento ben diverso da quello degli altri assistenti che l’avevano preceduto, dopo un prudente periodo di osservazione finì per accordargli la sua fiducia.
E dunque, allorché egli Le disse che, per favorire gli studi miranti alla salute dei suoi vecchietti, occorreva rimodernare il laboratorio fino ad allora poco o nulla utilizzato, la buona donna si diede da fare e alla fine le riuscì di mettere a disposizione del giovane medico le necessarie attrezzature grazie all’ interessamento del Primario il quale pensò che, in caso di successo, l’attività del suo volonteroso assistente avrebbe giovato, pur senza alcun merito, anche alla sua carriera.
Chiuso in quel laboratorio tutto il giorno ed anche, talora, di notte, studiando e sperimentando sulle cavie, le ricerche del dott.Diurno approdarono finalmente ad un medicinale destinato, secondo i suoi studi, non solo ad arrecar benessere alla salute dei vecchi ma, addirittura, ad allungarne la vita.
Lo battezzò “Ultravires 100” (“Oltre i 100 anni”) e con grande trepidazione, si accinse alla sperimentazione d’accordo con suor Benedetta da lui convinta sulla necessità di agire nella massima segretezza per evitare fughe di notizie a favore di case farmaceutiche che avrebbero potuto impadronirsi della scoperta per ottenerne propri enormi benefici economici, mentre, a suo avviso, in caso di successo, il nuovo prodotto avrebbero dovuto essere brevettato da un ente benefico per scopi umanitari.
Fu dunque distribuito inizialmente solo agli ospiti della camerata B un flaconcino contenente un liquido arancione – da assumere per un mese al mattino - che i vecchi, ai quali era stato detto che era aranciata, trincavano golosamente grazie al suo gradevole sapore.
Al Primario che, in occasione di una delle sue rare visite, aveva chiesto informazioni in proposito, fu risposto che si trattava di un ricostituente, e ciò fu più che sufficiente ad appagare la sua curiosità ed a tranquillizzarlo pienamente.
In assenza di effetti negativi sul primo campione, il dott. Diurno si rinfrancò ed estese la cura a tutti i ricoverati. L’effetto fu sconvolgente.
Menti intorpidite ripresero vivacità, muscoli ormai rattrappiti rinvigorirono, chi in passato soffriva di inappetenza riscoprì il piacere della mensa, vistose zoppie scomparvero, uditi fuori uso si rimisero in funzione, occhi pressoché spenti rividero la luce, e, perfino, infermiere e portantine, e la stessa suor Benedetta (con suo comprensibile disagio), furono oggetto di attenzioni fino ad allora impensabili.
I parenti degli ospiti, increduli; il Primario stupito, gongolante, ad attribuirsi meriti che non gli spettavano; i pubblici amministratori, avidi di voti elettorali, a vantarsi degli straordinari risultati ottenuti alla “Quietas”.
Ma la cura prodigiosa, oltre a migliorare sensibilmente il benessere degli anziani, ottenne anche l’effetto straordinario, sperato dal dott.Diurno, di allungare la loro vita.
Tutti i ricoverati dopo la cura, superarono abbondantemente il secolo, e la morte sopravvenne sempre serenamente, senza sofferenze e priva di quella drammaticità fisica e psichica ad essa assai spesso connessa.
Purtroppo, dal punto di vista economico, l’”Ultravires 100” fu per il suo scopritore un vero fiasco.
L’autorità sanitaria competente per la brevettazione, dopo attenti studi e verifiche constatò infatti che una componente del farmaco era altamente cancerogena, e ne vietò la produzione e la messa in commercio.
Vane furono le proteste del Diurno e di molti altri studiosi i quali mettevano in rilievo che, anche ammessa la pericolosità del farmaco – che pur veniva contestata - esso, agendo su di un organismo oramai vecchio non avrebbe avuto il tempo di sviluppare i suoi effetti malefici prima della sua morte.
I supremi responsabili della sanità nazionale, di fronte alla considerazione che non era comunque pensabile il mettere in commercio un medicinale che avrebbe potuto provocare il cancro, furono irremovibili e confermarono senza appello il divieto di produrre e vendere il contestato medicamento.
Il provvedimento continuò a suscitare polemiche ed accese discussioni negli ambienti medici scientifici di tutto il mondo fra propugnatori del farmaco, convinti della sua straordinaria efficacia, e gli oppositori: ma alla fine, cessati i clamori, dell’”Ultravires 100” non si parlò più.
Un effetto inatteso
Intanto, la fascia dei vecchi della “Quietas” che l’avevano assunto, pur dopo aver fruito dei benefici effetti del farmaco – che aveva condotto alcuni addirittura sulla soglia dei 110 anni - si era esaurita ed i nuovi ricoverati tornarono ai consueti acciacchi ed alle tribolate dipartite.
Ma all’occhio attento di suor Benedetta, che aveva intensamente vissuto l’avventura dell’”Ultravires 100” il cui esito l’aveva dolorosamente colpita, non sfuggì un fatto singolare cui neppure il dott.Diurno - partito nel frattempo per salire, grazie alla notorietà mondiale derivatagli dalla sua pur controversa scoperta, sulla cattedra di geriatria di un’importante università americana - aveva fatto caso.
Il ricoverato Carletto Ripamonti, letto n.26 del padiglione C, 91 anni alla data della somministrazione della nuova medicina, era deceduto l’anno dopo all’età di “soli” (in confronto alle “performances” dei suoi colleghi) 92 anni. Come mai?
Contemporaneamente, si era accorta dello strano effetto che l’”Ultravires 100” stava ottenendo su Antonio Bricolo - detto Toni Menolo - di anni 80 al momento della sperimentazione, il quale non solo stava benissimo di salute, ma pareva essersi fermato a quell’età e, col passare del tempo, anziché invecchiare, ringiovaniva.
Sapete come si dice quando si vuol fare un complimento a qualcuno molto avanti con gli anni:”Ti trovo benone! Sei ringiovanito!”
Nella maggior parte dei casi non è vero, lo si fa per tener su di morale il vegliardo, insomma, è una bugia, però di quelle che i teologi definiscono “aporie morali”, ossia bugie con le quali non si fa peccato perché dette a fin di bene.
Ma nel caso di Toni Menolo non era una bugia, era proprio vero.
Suor Benedetta, cominciò ad entrare in agitazione perché si rese conto che si stava verificando qualcosa di straordinario.
Passati cinque anni, allorché anagraficamente toccò gli 85, Toni denotava l’età di un arzillo settantenne e dopo altri 5, quando avrebbe dovuto, conti alla mano, averne 90, aveva l’aspetto di uno che di anni ne ha solo una cinquantina.
La suora, a quel punto, pregò Iddio che l’ aiutasse a chiarire il mistero, ed il Signore accolse le sue preghiere perché, in un lampo, le venne in mente che Toni Menolo aveva sempre occupato il letto n.25 della camerata C, accanto a quello n. 26 del povero Carletto Ripamonti, quello morto all’età di “soli” anni 93, l’unico al quale la cura del dott. Diurno non aveva fatto effetto.
A seguito di questa constatazione s’impadronì di lei il pensiero atroce che la chiave del mistero potesse stare proprio lì.
Mandò a chiamare allora il Menolo e, pur dubitando di ottenerne una qualche risposta dato il gran tempo trascorso, gli chiese se si ricordava di quando era stata distribuita, tanti anni prima, per un mese di seguito, quella buona aranciata.
Ma la sua memoria funzionava, invece, ottimamente perché “ E come se me lo ricordo! – rispose Toni ridendo - Era talmente buona che l’ho fregata a quel fesso del Carletto che, pace all’anima sua, è sempre restato a bocca asciutta, e non me l’ha mai perdonata……”.
Poco mancò che alla suora venisse male quando dalla risposta del Menolo ebbe la conferma dei suoi neri presentimenti: che l’”Ultravires 100”, assunta nella dose prevista dal dott.Diurno fosse in grado di produrre effetti benefici consentendo al vecchio non solo ottime condizioni di salute, ma, anche, l’allungamento della vita, mentre l’ “overdose” potesse addirittura provocarne fatalmente la regressione e, quindi, alla morte per dissoluzione.
Era, pensò, come se nell’organismo di quell’uomo si fosse innestata un’ assurda retromarcia che da vecchio l’aveva trasformato in anziano e poi in giovane uomo quale attualmente era: ora, assurdamente, dinanzi a lui stavano l’adolescenza, poi l’infanzia, e poi, mio Dio, e poi……..
Giunta ai limiti dell’impazzimento, subentrò nella povera donna un irrefrenabile senso di colpa - per non essersi opposta alla sperimentazione del dott. Diurno – che venne a turbare la serenità della sua vita ed a sconvolgere la sua esistenza.
Un pensiero fisso ossessionava la sua mente: occorre fermare quell’abnorme, orrendo processo messo in moto dall’”Ultravires 100”, ma come? Chi avrebbe potuto?
Pensò che il dottor Diurno – il quale, sia pure involontariamente, l’aveva messo in moto – sarebbe forse stato in grado di trovare un antidoto onde bloccare quell’allucinante processo e riportare il Toni sui binari di una vita normale rivolta verso il futuro, e non, assurdamente, verso il passato.
Dopo lunghe ricerche riuscì finalmente a trovare l’indirizzo ed il numero telefonico del Diurno negli Stati Uniti e, facendosi coraggio, lo chiamò.
Il medico, inizialmente lieto di risentire la voce della donna, appena messo al corrente della drammatica situazione, mutò registro. Anzitutto mise in dubbio quanto gli era stato riferito attribuendolo ad un’allucinazione; e, se veramente le cose stessero così, non avrebbe saputo che farci perché, dopo tutte le complicazioni che la sua scoperta gli aveva provocato, non intendeva assolutamente andare incontro ad altre.
Ed il colloquio terminò lì.
Allora suor Benedetta sconvolta, atterrita, si rivolse, in cerca di aiuto, al suo confessore, don Luciano, un anziano sacerdote che saliva ogni tanto alla “Quietas” per dare un saluto ai vecchi ricoverati, ascoltare i loro improbabili peccati e, più spesso, per impartir loro l’estrema unzione.
“Figlia mia – le disse dopo aver ascoltato il drammatico racconto – se quanto mi dici è vero, e mi pare impossibile, non resta che pregare il Signore affinché intervenga con la Sua potenza ad eliminare il disordine provocato dal quella infausta scoperta. Prega, prega, figlia mia, intensamente, e la Provvidenza provvederà a rimettere le cose a posto”. La benedisse e, terminate le sue incombenze, riprese la via del ritorno.
Allora, in attesa che l’intervento della Provvidenza si manifestasse, non restò a suor Benedetta che pensare a come organizzarsi nel frattempo.
Fortunatamente, grazie al totale disinteresse di tutti (dal Primario all’assistente di turno, ai pochi infermieri ed allo scarso personale di servizio) nessuno si era accorto di quanto stava accadendo.
Terrorizzata dallo scandalo che si sarebbe verificato qualora il caso fosse divenuto pubblico, preoccupata di un suo possibile coinvolgimento nella vicenda, suor Benedetta prese la decisione.
Arredò alla meglio uno stanzino che si trovava al terzo piano dell’istituto disabitato, adibito ad archivio che in realtà era un mucchio disordinato di carte impolverate e dove nessuno andava mai, e vi relegò il Toni raccomandandogli di stare tranquillo e assicurandolo che si sarebbe presa cura di lui.
Intanto il “ringiovanimento” dell’uomo procedeva inesorabile e la situazione, assurda e tragica, era divenuta per la suora un incubo, ai limiti dell’impazzimento, che neppure la preghiera riusciva a placare.
Al contrario, la vita dell’uomo – che non percepiva, evidentemente, la drammaticità della situazione - trascorreva
tranquilla e serena.
Lo scorrere della sua esistenza in senso contrario - dalla vecchiaia verso la giovinezza – era da lui percepito come naturale e non suscitava in lui alcun turbamento: così come i comuni mortali nascono e divengono via via infanti, bambini, ragazzi, e poi giovani uomini, adulti, quindi anziani e vecchi, così per quell’uomo era naturale l’abolizione del bastone, la ricrescita dei capelli e della peluria, il recupero della vista e dell’udito, la tonicità ed il colorito della pelle, il mutare dell’ alimentazione e dei gusti, la ripresa della funzionalità sessuale, la tonicità della muscolatura…
Fortunatamente, dal punto di vista intellettuale l’ adeguamento alle età che andava gradualmente raggiungendo nel suo allucinante cammino a ritroso non gli provocava trauma alcuno: il suo comportamento non denunciava infatti alcuna problematica esistenziale
Solo, una totale dipendenza da Benedetta che ne divenne madre, confidente, consigliera, consolatrice e protettrice, tutto ciò che in quella drammatica situazione l’amore per il prossimo, lo scopo della sua vita, drammaticamente, e misteriosamente, le imponeva.
Un assistente troppo curioso
L’arrivo del nuovo assistente, il dott. Franco Galluzzo, fu fatale.
Al contrario di quelli che l’avevano preceduto, prese molto sul serio il suo incarico e volle, appena arrivato, conoscere a fondo tutto quanto riguardava il funzionamento della “Quietas” ed i suoi ospiti.
Con sua sorpresa, dall’esame dei registri dell’istituto rilevò che tal Antonio Bricolo, detto Toni Manolo, che avrebbe dovuto avere ben 115 anni, risultava tuttora “in forza” alla “Quietas”.
Di sicuro, pensò, chi di dovere si era dimenticato di depennarlo dopo la sua morte, ma siccome, dopo aver fatto le più approfondite indagini, da nessuna parte emerse che il Toni fosse deceduto, fiutando qualche irregolarità decise di andare a fondo.
Sempre più sospettoso, il dott.Galluzzo sottopose tutti i ricoverati ed il personale addetto a stringenti interrogatori.
Inizialmente non ne cavò nulla, neppur dalla Benedetta che, col cuore in gola, temendo chi sa quale scandalo, se l’era cavata dicendo che quanto accadeva all’ufficio amministrazione non era di sua competenza perché ben altre, diverse ed importanti erano le sue incombenze.
Il Galluzzo già meditava di lasciar perdere e di non pensare più a quel misterioso Toni Manolo, quando da un cuciniere da poco assunto venne a sapere di uno strano tipo (da lui ritenuto un poveraccio cui era consentito per pietà di raccogliere i resti dei pasti) che, quando tutti avevano lasciato la mensa, arrivava quatto quatto, arraffava un po’ di cibo e quindi si allontanava così come era venuto.
Mentre l’Annetta Bonacasa, una delle donne delle pulizie, raccontò che una volta l’anno andava a dare una spazzata al terzo piano e che in tale occasione aveva più volte intravisto aggirarsi fra gli armadi polverosi dell’archivio un uomo che alla sua vista si era rapidamente eclissato.
Allora il Galluzzo, subodorando qualche irregolarità, deciso a battere ogni pista pur di chiarire quel caso che lo insospettiva, e che, anche, cominciava ad interessarlo, diede l’ordine di cercare ovunque quell’uomo misterioso e di portarglielo immediatamente.
Lo trovarono e gli portarono un giovanotto sulla trentina alto e biondo che, richiesto dal Galluzzo delle sue generalità, rispose, senza esitare:” Sono Antonio Bricolo ma qui tutti mi chiamano Toni Manolo”.
Il medico pensò che quello lo volesse prendere in giro e s’arrabbiò:” Senta, giovanotto – gli disse, guardandolo malamente - se ha voglia di scherzare questo non è il momento: mi dica chi è e perché si trova qui”.
A suor Benedetta stava venendo male.
E l’altro a insistere:” Mi chiamo Antonio Bricolo detto Toni Manolo”.
Pur sicuro di trovarsi in presenza di un pazzo, il medico dopo averlo lungamente interrogato, restò interdetto: tutto quadrava con le notizie che Antonio Bricolo aveva rilasciato in segreteria all’atto del suo ingresso alla “Quietas”.
Oltre al suo cognome, nome e soprannome, corrispondevano perfettamente il cognome, nome ed età del padre, della madre e della defunta moglie, oltre all’attività lavorativa svolta come impiegato presso un’impresa di costruzioni e, sul ventre, la cicatrice di un’operazione d’appendicite rilevata a seguito di una visita attenta e scrupolosa al momento del ricovero.
Una cosa sola non ricordava: l’età.
A quel punto, resosi conto di trovarsi di fronte ad un caso misterioso, il dott. Galluzzo decise di informarne il Primario che, a sua volta, dopo aver ascoltato il resoconto delle indagini del suo assistente – e dopo avergli dato una lavata di capo: “Ma chi gliel’ha fatto fare di mettere in piedi sto casino?” - si affrettò, preoccupatissimo, ad informarne i superiori.
I quali, accorsi, e resisi conto del fenomeno, crearono subito una Commissione d’inchiesta composta da luminari e cattedratici illustri, ma privi, nella loro foga scientifica, di tatto ed umanità dimenticando che il caso riguardava un uomo, non una cosa.
Il povero Manolo fu sottoposto ad ogni genere di indagini, girato di sopra e di sotto, pesato, misurato, analizzato, radiografato, immerso nell’acqua calda e poi in quella fredda, fatto roteare su di un sedile simile a quello usato per la preparazione degli astronauti, esaminato con tutti i più moderni mezzi d’indagione medico-specialistica.
Ma non ne cavarono nulla salvo la conferma che la persona che si trovavano dinanzi era la stessa che, entrata alla “Quietas” all’età di 65 anni, ne doveva avere, a conti fatti, più di cento ma, a occhio, ne dimostrava meno della metà.
Circa le cause del fenomeno, buio completo e la commissione pose fine alle sue numerose sedute con un nulla di fatto. Ecco il comunicato conclusivo emesso dai commissari:”In attesa che il caso venga nuovamente sottoposto ad una super commissione, allo scopo di preservare la sua sanità mentale il soggetto de quo sia trattenuto nell’ambiente nel quale ha sin qui vissuto ed affidato alle cure personali della direttrice della Casa di Riposo “Quietas”, signora Benedetta Diotallevi, che sarà responsabile della sua vigilanza”.
Una drammatica rivelazione
Ma i discorsi fatti in sua presenza, senza alcuna discrezione da commissari evidentemente privi di tatto e di umanità di fronte ad una situazione assolutamente anomala e delicatissima, ed i titoli cubitali e le cronache dei giornali che impazzavano sul caso, rivelarono al povero Toni Manolo la tragedia che andava vivendo, e la sua esistenza ne fu sconvolta.
Cominciò a deperire, rifiutava il cibo, ammutolì, divenne insonne e cadde in una grave depressione.
A nulla valsero le cure di Benedetta, le sue parole di conforto, l’accusa ai commissari di essere degli incompetenti, di non capire nulla e di dire solo delle sciocchezze.
“E se invece tutto quello che hanno detto fosse vero? Fin che ci sei tu, Benedetta, non ho paura, ma dopo? Chi si prenderà cura di me quando sarò tornato ragazzo, bambino, infante e poi “ concludeva con un pianto irrefrenabile, rifugiandosi nelle braccia consolatrici della donna “sparire nel nulla?”.
A sua volta la povera donna si trovava in una situazione altrettanto angosciosa, senza poter fare alcunché per fermare l’assurdo destino che incombeva su quel pover’uomo.
Unico conforto, per entrambi, la preghiera che recitavano spesso in comune chiedendo al Signore che mettesse fine alle loro pene.
Ma, purtroppo, la situazione divenne sempre più tragica.
Assurdamente, la prospettiva della giovinezza, che per ogni uomo è fonte di gioia, costituiva per Toni solo una tappa amara nel cammino fatale verso il suo completo dissolvimento.
La Provvidenza
Benedetta quel giorno d’estate decise di andare a salutare il Toni che non vedeva da un paio di giorni.
Giunta dinanzi alla porta della sua cameretta bussò ma, non avendo ricevuta risposta alcuna, aprì piano la porta e vide Toni che in piedi davanti alla finestra aperta, nel trionfo di un tramonto estivo, con il sole che, enorme, calava sempre più all’orizzonte, guardava, fissamente, verso il basso.
L’uomo non si era accorto della presenza di Benedetta, e solo quando la donna, avvicinatasi, lo salutò, si girò di scatto guardandola con occhi allucinati: quindi, con mossa altrettanto fulminea, si girò di nuovo appoggiando le mani sulla soglia della finestra con il chiaro intento di scavalcarla.
Con una prontezza di cui ella stessa si sorprese, con un “Nooo!” urlato disperatamente, Benedetta si lanciò a sua volta sull’uomo riuscendo ad abbrancarlo stretto alle caviglie.
S’ingaggiò allora una lotta disperata fra l’uomo, ormai fuor di senno, e la donna che, avvinghiata a lui, lo chiamava ripetutamente per nome nel vano tentativo di farlo recedere dal suo folle proposito.
Ma la furia dell’uomo che scalciando violentemente cercava di liberarsi dalla stretta di Benedetta che non mollava la presa, il peso del suo corpo ormai quasi completamente penzolante nel vuoto, l’agitarsi scomposto delle sue braccia , quasi un assurdo nuotare nell’aria verso il basso per favorire la caduta, ebbero la meglio ed entrambi precipitarono.
Benedetta si stupì di quante cose le venivano in mente nel breve attimo in cui, prima di schiantarsi a terra, rimase librata nell’aria.
“E’ vero, o se è vero, che c’è la Provvidenza!”, pensava, inconsapevolmente echeggiando le parole del Manzoni nei “Promessi sposi”, il Signore ha ascoltato le nostre preghiere ed ora sta mettendo le cose a posto. Ha avuto pietà di questo pover’uomo ponendo fine alla sua assurda esistenza, e di sicuro perdonerà questo gesto causato dalla sua mente sconvolta. Ed io metterò fine ai miei timori, alle mie paure, al mio tormento per aver allora imprudentemente consentito ad una sperimentazione che avrebbe potuto provocare chi sa quali conseguenze modificando il corso della vita e l’ordine da Te stabilito. Ma tu sai, Signore, che le mie intenzioni erano buone, e sono sicura che mi perdonerai.”
La tragica conclusione della vita di Toni Manolo ebbe una vasta eco occupando pagine e pagine dei giornali, servizi in radio e televisione, convegni e dibattiti.
Ma il mistero dell’uomo che “viveva all’indietro” - come scrisse, coloritamente, un noto giornalista – è rimasto insoluto e nonostante attente e ripetute autopsie il caso è rimasto insoluto e turba tuttora scienziati, filosofi, religiosi.
Non mancò neppure chi lavorò di fantasia, e, commentando il fatto di quella donna e di quell’uomo precipitati abbracciati dalla finestra di una Casa di Riposo, affacciò il dubbio della tresca.
Da allora, però, alla “Quietas” (e, per quanto si sappia, nel mondo) non si verificarono più casi di uomini che campavano all’indietro cosicchè i suoi ospiti continuarono a vivere rivolti verso il futuro ed a morire regolarmente secondo gli usi ed i costumi vigenti.
Giovanni Zannini
La vecchia villa di campagna ancora ben conservata e circondata da un parco accoglieva una cinquantina di ospiti che vivevano in un ambiente semplice ma ordinato e funzionale che consentiva ai vecchi una vita sufficientemente serena.
Tre cameroni (i reparti A,B e C) arredati con letti in ferro vecchi ma sempre tenuti in ordine, ed i relativi servizi, costituivano il reparto notte; un soggiorno ampio e luminoso era il luogo ove i ricoverati che non erano costretti a tenere il letto passavano la maggior parte del loro tempo i più sonnecchiando, gli altri, ancora in grado di farlo, leggiucchiando, giocando a carte o guardando la tv anche se trasmetteva programmi per i ragazzi.
Infine, la sala da pranzo, meta agognata del pasto di mezzogiorno e della sera.
Un Primario era responsabile della salute degli ospiti ma, tutto preso dal suo studio privato, dedicava all’istituto rare visite e veloci telefonate per cui l’assistenza medica era affidata a giovani medici che avrebbero dovuto sostituirlo ma che in realtà si limitavano a far passare il tempo per ottenere la specializzazione in geriatria, e che, terminato il periodo di apprendistato, si affrettavano a tagliare la corda verso lidi ed incarichi più appetibili.
Per cui, nella realtà, la “Quietas” era affidata ad una giovane donna assai intelligente e volonterosa, Benedetta - che tutti chiamavano “suora” perché vestiva come una monaca - dotata di grande senso di responsabilità e di eccezionali capacità organizzative.
Figlia (un tempo si diceva così) di “NN”, dopo essere stata allevata in un istituto di suore era entrata giovanissima alla ”Quietas” come servente ma con il passare del tempo, per la sua affidabilità, ne era divenuta la direttrice responsabile
Aveva una parola affettuosa per tutti, non faceva sentire agli ospiti la lontananza di parenti ed amici spesso dimentichi, assisteva i malati e gli infermi, pregava con loro Gesù e la Sua celeste madre affinchè vigilassero dal cielo sulle loro vite: insomma, si prodigava senza risparmio per rendere quanto più gradevole il soggiorno alla “Quietas”.
Un assistente intraprendente.
Il ricambio dei giovani medici specializzandi era molto frequente e venne la volta del dott.Giovanni Diurno, fresco di laurea, ad arrampicarsi sul colle ove sorgeva la casa di riposo: un giovane dotato di ingegno vivace e di volontà ferrea, studioso e desideroso di affermarsi ad ogni costo per dimenticare un passato di povertà e di sacrificio vissuto in una famiglia povera e disastrata dalla separazione dei genitori il cui affetto gli era dolorosamente mancato.
Aveva dunque colta al volo l’offerta di effettuare il praticantato alla “Quietas” subito individuata come sede ideale per i suoi studi sulla geriatria miranti ad un traguardo che l’aveva sempre appassionato, il benessere ed il prolungamento della vita dei vecchi che, se realizzato, gli avrebbe procurato fama e ricchezza.
Soprattutto, pensava piuttosto cinicamente, avendo a sua completa disposizione un prezioso materiale umano sul quale effettuare, praticamente senza rischio alcuno, eventuali sperimentazioni. Infatti, pensava, in caso di “incidenti” nessuno si sarebbe sognato di guardarci dentro (dato il completo disinteresse di chi avrebbe dovuto provvedervi), con la possibilità, dunque, di attribuirli al fatale decorrere del tempo che ad un certo punto pone inesorabilmente fine alla vita umana.
Aggiornatissimo sulle più recenti acquisizioni scientifiche, attento lettore delle più autorevoli riviste in materia geriatrica, alieno da ogni distrazione che pur alla sua età sarebbe stata comprensibile, il giovane assistente conduceva una vita al limite dell’ascetismo dedicandosi allo studio ed all’approfondimento dello stato di salute di ciascuno dei ricoverati.
Benedetta, ammirata dal suo comportamento ben diverso da quello degli altri assistenti che l’avevano preceduto, dopo un prudente periodo di osservazione finì per accordargli la sua fiducia.
E dunque, allorché egli Le disse che, per favorire gli studi miranti alla salute dei suoi vecchietti, occorreva rimodernare il laboratorio fino ad allora poco o nulla utilizzato, la buona donna si diede da fare e alla fine le riuscì di mettere a disposizione del giovane medico le necessarie attrezzature grazie all’ interessamento del Primario il quale pensò che, in caso di successo, l’attività del suo volonteroso assistente avrebbe giovato, pur senza alcun merito, anche alla sua carriera.
Chiuso in quel laboratorio tutto il giorno ed anche, talora, di notte, studiando e sperimentando sulle cavie, le ricerche del dott.Diurno approdarono finalmente ad un medicinale destinato, secondo i suoi studi, non solo ad arrecar benessere alla salute dei vecchi ma, addirittura, ad allungarne la vita.
Lo battezzò “Ultravires 100” (“Oltre i 100 anni”) e con grande trepidazione, si accinse alla sperimentazione d’accordo con suor Benedetta da lui convinta sulla necessità di agire nella massima segretezza per evitare fughe di notizie a favore di case farmaceutiche che avrebbero potuto impadronirsi della scoperta per ottenerne propri enormi benefici economici, mentre, a suo avviso, in caso di successo, il nuovo prodotto avrebbero dovuto essere brevettato da un ente benefico per scopi umanitari.
Fu dunque distribuito inizialmente solo agli ospiti della camerata B un flaconcino contenente un liquido arancione – da assumere per un mese al mattino - che i vecchi, ai quali era stato detto che era aranciata, trincavano golosamente grazie al suo gradevole sapore.
Al Primario che, in occasione di una delle sue rare visite, aveva chiesto informazioni in proposito, fu risposto che si trattava di un ricostituente, e ciò fu più che sufficiente ad appagare la sua curiosità ed a tranquillizzarlo pienamente.
In assenza di effetti negativi sul primo campione, il dott. Diurno si rinfrancò ed estese la cura a tutti i ricoverati. L’effetto fu sconvolgente.
Menti intorpidite ripresero vivacità, muscoli ormai rattrappiti rinvigorirono, chi in passato soffriva di inappetenza riscoprì il piacere della mensa, vistose zoppie scomparvero, uditi fuori uso si rimisero in funzione, occhi pressoché spenti rividero la luce, e, perfino, infermiere e portantine, e la stessa suor Benedetta (con suo comprensibile disagio), furono oggetto di attenzioni fino ad allora impensabili.
I parenti degli ospiti, increduli; il Primario stupito, gongolante, ad attribuirsi meriti che non gli spettavano; i pubblici amministratori, avidi di voti elettorali, a vantarsi degli straordinari risultati ottenuti alla “Quietas”.
Ma la cura prodigiosa, oltre a migliorare sensibilmente il benessere degli anziani, ottenne anche l’effetto straordinario, sperato dal dott.Diurno, di allungare la loro vita.
Tutti i ricoverati dopo la cura, superarono abbondantemente il secolo, e la morte sopravvenne sempre serenamente, senza sofferenze e priva di quella drammaticità fisica e psichica ad essa assai spesso connessa.
Purtroppo, dal punto di vista economico, l’”Ultravires 100” fu per il suo scopritore un vero fiasco.
L’autorità sanitaria competente per la brevettazione, dopo attenti studi e verifiche constatò infatti che una componente del farmaco era altamente cancerogena, e ne vietò la produzione e la messa in commercio.
Vane furono le proteste del Diurno e di molti altri studiosi i quali mettevano in rilievo che, anche ammessa la pericolosità del farmaco – che pur veniva contestata - esso, agendo su di un organismo oramai vecchio non avrebbe avuto il tempo di sviluppare i suoi effetti malefici prima della sua morte.
I supremi responsabili della sanità nazionale, di fronte alla considerazione che non era comunque pensabile il mettere in commercio un medicinale che avrebbe potuto provocare il cancro, furono irremovibili e confermarono senza appello il divieto di produrre e vendere il contestato medicamento.
Il provvedimento continuò a suscitare polemiche ed accese discussioni negli ambienti medici scientifici di tutto il mondo fra propugnatori del farmaco, convinti della sua straordinaria efficacia, e gli oppositori: ma alla fine, cessati i clamori, dell’”Ultravires 100” non si parlò più.
Un effetto inatteso
Intanto, la fascia dei vecchi della “Quietas” che l’avevano assunto, pur dopo aver fruito dei benefici effetti del farmaco – che aveva condotto alcuni addirittura sulla soglia dei 110 anni - si era esaurita ed i nuovi ricoverati tornarono ai consueti acciacchi ed alle tribolate dipartite.
Ma all’occhio attento di suor Benedetta, che aveva intensamente vissuto l’avventura dell’”Ultravires 100” il cui esito l’aveva dolorosamente colpita, non sfuggì un fatto singolare cui neppure il dott.Diurno - partito nel frattempo per salire, grazie alla notorietà mondiale derivatagli dalla sua pur controversa scoperta, sulla cattedra di geriatria di un’importante università americana - aveva fatto caso.
Il ricoverato Carletto Ripamonti, letto n.26 del padiglione C, 91 anni alla data della somministrazione della nuova medicina, era deceduto l’anno dopo all’età di “soli” (in confronto alle “performances” dei suoi colleghi) 92 anni. Come mai?
Contemporaneamente, si era accorta dello strano effetto che l’”Ultravires 100” stava ottenendo su Antonio Bricolo - detto Toni Menolo - di anni 80 al momento della sperimentazione, il quale non solo stava benissimo di salute, ma pareva essersi fermato a quell’età e, col passare del tempo, anziché invecchiare, ringiovaniva.
Sapete come si dice quando si vuol fare un complimento a qualcuno molto avanti con gli anni:”Ti trovo benone! Sei ringiovanito!”
Nella maggior parte dei casi non è vero, lo si fa per tener su di morale il vegliardo, insomma, è una bugia, però di quelle che i teologi definiscono “aporie morali”, ossia bugie con le quali non si fa peccato perché dette a fin di bene.
Ma nel caso di Toni Menolo non era una bugia, era proprio vero.
Suor Benedetta, cominciò ad entrare in agitazione perché si rese conto che si stava verificando qualcosa di straordinario.
Passati cinque anni, allorché anagraficamente toccò gli 85, Toni denotava l’età di un arzillo settantenne e dopo altri 5, quando avrebbe dovuto, conti alla mano, averne 90, aveva l’aspetto di uno che di anni ne ha solo una cinquantina.
La suora, a quel punto, pregò Iddio che l’ aiutasse a chiarire il mistero, ed il Signore accolse le sue preghiere perché, in un lampo, le venne in mente che Toni Menolo aveva sempre occupato il letto n.25 della camerata C, accanto a quello n. 26 del povero Carletto Ripamonti, quello morto all’età di “soli” anni 93, l’unico al quale la cura del dott. Diurno non aveva fatto effetto.
A seguito di questa constatazione s’impadronì di lei il pensiero atroce che la chiave del mistero potesse stare proprio lì.
Mandò a chiamare allora il Menolo e, pur dubitando di ottenerne una qualche risposta dato il gran tempo trascorso, gli chiese se si ricordava di quando era stata distribuita, tanti anni prima, per un mese di seguito, quella buona aranciata.
Ma la sua memoria funzionava, invece, ottimamente perché “ E come se me lo ricordo! – rispose Toni ridendo - Era talmente buona che l’ho fregata a quel fesso del Carletto che, pace all’anima sua, è sempre restato a bocca asciutta, e non me l’ha mai perdonata……”.
Poco mancò che alla suora venisse male quando dalla risposta del Menolo ebbe la conferma dei suoi neri presentimenti: che l’”Ultravires 100”, assunta nella dose prevista dal dott.Diurno fosse in grado di produrre effetti benefici consentendo al vecchio non solo ottime condizioni di salute, ma, anche, l’allungamento della vita, mentre l’ “overdose” potesse addirittura provocarne fatalmente la regressione e, quindi, alla morte per dissoluzione.
Era, pensò, come se nell’organismo di quell’uomo si fosse innestata un’ assurda retromarcia che da vecchio l’aveva trasformato in anziano e poi in giovane uomo quale attualmente era: ora, assurdamente, dinanzi a lui stavano l’adolescenza, poi l’infanzia, e poi, mio Dio, e poi……..
Giunta ai limiti dell’impazzimento, subentrò nella povera donna un irrefrenabile senso di colpa - per non essersi opposta alla sperimentazione del dott. Diurno – che venne a turbare la serenità della sua vita ed a sconvolgere la sua esistenza.
Un pensiero fisso ossessionava la sua mente: occorre fermare quell’abnorme, orrendo processo messo in moto dall’”Ultravires 100”, ma come? Chi avrebbe potuto?
Pensò che il dottor Diurno – il quale, sia pure involontariamente, l’aveva messo in moto – sarebbe forse stato in grado di trovare un antidoto onde bloccare quell’allucinante processo e riportare il Toni sui binari di una vita normale rivolta verso il futuro, e non, assurdamente, verso il passato.
Dopo lunghe ricerche riuscì finalmente a trovare l’indirizzo ed il numero telefonico del Diurno negli Stati Uniti e, facendosi coraggio, lo chiamò.
Il medico, inizialmente lieto di risentire la voce della donna, appena messo al corrente della drammatica situazione, mutò registro. Anzitutto mise in dubbio quanto gli era stato riferito attribuendolo ad un’allucinazione; e, se veramente le cose stessero così, non avrebbe saputo che farci perché, dopo tutte le complicazioni che la sua scoperta gli aveva provocato, non intendeva assolutamente andare incontro ad altre.
Ed il colloquio terminò lì.
Allora suor Benedetta sconvolta, atterrita, si rivolse, in cerca di aiuto, al suo confessore, don Luciano, un anziano sacerdote che saliva ogni tanto alla “Quietas” per dare un saluto ai vecchi ricoverati, ascoltare i loro improbabili peccati e, più spesso, per impartir loro l’estrema unzione.
“Figlia mia – le disse dopo aver ascoltato il drammatico racconto – se quanto mi dici è vero, e mi pare impossibile, non resta che pregare il Signore affinché intervenga con la Sua potenza ad eliminare il disordine provocato dal quella infausta scoperta. Prega, prega, figlia mia, intensamente, e la Provvidenza provvederà a rimettere le cose a posto”. La benedisse e, terminate le sue incombenze, riprese la via del ritorno.
Allora, in attesa che l’intervento della Provvidenza si manifestasse, non restò a suor Benedetta che pensare a come organizzarsi nel frattempo.
Fortunatamente, grazie al totale disinteresse di tutti (dal Primario all’assistente di turno, ai pochi infermieri ed allo scarso personale di servizio) nessuno si era accorto di quanto stava accadendo.
Terrorizzata dallo scandalo che si sarebbe verificato qualora il caso fosse divenuto pubblico, preoccupata di un suo possibile coinvolgimento nella vicenda, suor Benedetta prese la decisione.
Arredò alla meglio uno stanzino che si trovava al terzo piano dell’istituto disabitato, adibito ad archivio che in realtà era un mucchio disordinato di carte impolverate e dove nessuno andava mai, e vi relegò il Toni raccomandandogli di stare tranquillo e assicurandolo che si sarebbe presa cura di lui.
Intanto il “ringiovanimento” dell’uomo procedeva inesorabile e la situazione, assurda e tragica, era divenuta per la suora un incubo, ai limiti dell’impazzimento, che neppure la preghiera riusciva a placare.
Al contrario, la vita dell’uomo – che non percepiva, evidentemente, la drammaticità della situazione - trascorreva
tranquilla e serena.
Lo scorrere della sua esistenza in senso contrario - dalla vecchiaia verso la giovinezza – era da lui percepito come naturale e non suscitava in lui alcun turbamento: così come i comuni mortali nascono e divengono via via infanti, bambini, ragazzi, e poi giovani uomini, adulti, quindi anziani e vecchi, così per quell’uomo era naturale l’abolizione del bastone, la ricrescita dei capelli e della peluria, il recupero della vista e dell’udito, la tonicità ed il colorito della pelle, il mutare dell’ alimentazione e dei gusti, la ripresa della funzionalità sessuale, la tonicità della muscolatura…
Fortunatamente, dal punto di vista intellettuale l’ adeguamento alle età che andava gradualmente raggiungendo nel suo allucinante cammino a ritroso non gli provocava trauma alcuno: il suo comportamento non denunciava infatti alcuna problematica esistenziale
Solo, una totale dipendenza da Benedetta che ne divenne madre, confidente, consigliera, consolatrice e protettrice, tutto ciò che in quella drammatica situazione l’amore per il prossimo, lo scopo della sua vita, drammaticamente, e misteriosamente, le imponeva.
Un assistente troppo curioso
L’arrivo del nuovo assistente, il dott. Franco Galluzzo, fu fatale.
Al contrario di quelli che l’avevano preceduto, prese molto sul serio il suo incarico e volle, appena arrivato, conoscere a fondo tutto quanto riguardava il funzionamento della “Quietas” ed i suoi ospiti.
Con sua sorpresa, dall’esame dei registri dell’istituto rilevò che tal Antonio Bricolo, detto Toni Manolo, che avrebbe dovuto avere ben 115 anni, risultava tuttora “in forza” alla “Quietas”.
Di sicuro, pensò, chi di dovere si era dimenticato di depennarlo dopo la sua morte, ma siccome, dopo aver fatto le più approfondite indagini, da nessuna parte emerse che il Toni fosse deceduto, fiutando qualche irregolarità decise di andare a fondo.
Sempre più sospettoso, il dott.Galluzzo sottopose tutti i ricoverati ed il personale addetto a stringenti interrogatori.
Inizialmente non ne cavò nulla, neppur dalla Benedetta che, col cuore in gola, temendo chi sa quale scandalo, se l’era cavata dicendo che quanto accadeva all’ufficio amministrazione non era di sua competenza perché ben altre, diverse ed importanti erano le sue incombenze.
Il Galluzzo già meditava di lasciar perdere e di non pensare più a quel misterioso Toni Manolo, quando da un cuciniere da poco assunto venne a sapere di uno strano tipo (da lui ritenuto un poveraccio cui era consentito per pietà di raccogliere i resti dei pasti) che, quando tutti avevano lasciato la mensa, arrivava quatto quatto, arraffava un po’ di cibo e quindi si allontanava così come era venuto.
Mentre l’Annetta Bonacasa, una delle donne delle pulizie, raccontò che una volta l’anno andava a dare una spazzata al terzo piano e che in tale occasione aveva più volte intravisto aggirarsi fra gli armadi polverosi dell’archivio un uomo che alla sua vista si era rapidamente eclissato.
Allora il Galluzzo, subodorando qualche irregolarità, deciso a battere ogni pista pur di chiarire quel caso che lo insospettiva, e che, anche, cominciava ad interessarlo, diede l’ordine di cercare ovunque quell’uomo misterioso e di portarglielo immediatamente.
Lo trovarono e gli portarono un giovanotto sulla trentina alto e biondo che, richiesto dal Galluzzo delle sue generalità, rispose, senza esitare:” Sono Antonio Bricolo ma qui tutti mi chiamano Toni Manolo”.
Il medico pensò che quello lo volesse prendere in giro e s’arrabbiò:” Senta, giovanotto – gli disse, guardandolo malamente - se ha voglia di scherzare questo non è il momento: mi dica chi è e perché si trova qui”.
A suor Benedetta stava venendo male.
E l’altro a insistere:” Mi chiamo Antonio Bricolo detto Toni Manolo”.
Pur sicuro di trovarsi in presenza di un pazzo, il medico dopo averlo lungamente interrogato, restò interdetto: tutto quadrava con le notizie che Antonio Bricolo aveva rilasciato in segreteria all’atto del suo ingresso alla “Quietas”.
Oltre al suo cognome, nome e soprannome, corrispondevano perfettamente il cognome, nome ed età del padre, della madre e della defunta moglie, oltre all’attività lavorativa svolta come impiegato presso un’impresa di costruzioni e, sul ventre, la cicatrice di un’operazione d’appendicite rilevata a seguito di una visita attenta e scrupolosa al momento del ricovero.
Una cosa sola non ricordava: l’età.
A quel punto, resosi conto di trovarsi di fronte ad un caso misterioso, il dott. Galluzzo decise di informarne il Primario che, a sua volta, dopo aver ascoltato il resoconto delle indagini del suo assistente – e dopo avergli dato una lavata di capo: “Ma chi gliel’ha fatto fare di mettere in piedi sto casino?” - si affrettò, preoccupatissimo, ad informarne i superiori.
I quali, accorsi, e resisi conto del fenomeno, crearono subito una Commissione d’inchiesta composta da luminari e cattedratici illustri, ma privi, nella loro foga scientifica, di tatto ed umanità dimenticando che il caso riguardava un uomo, non una cosa.
Il povero Manolo fu sottoposto ad ogni genere di indagini, girato di sopra e di sotto, pesato, misurato, analizzato, radiografato, immerso nell’acqua calda e poi in quella fredda, fatto roteare su di un sedile simile a quello usato per la preparazione degli astronauti, esaminato con tutti i più moderni mezzi d’indagione medico-specialistica.
Ma non ne cavarono nulla salvo la conferma che la persona che si trovavano dinanzi era la stessa che, entrata alla “Quietas” all’età di 65 anni, ne doveva avere, a conti fatti, più di cento ma, a occhio, ne dimostrava meno della metà.
Circa le cause del fenomeno, buio completo e la commissione pose fine alle sue numerose sedute con un nulla di fatto. Ecco il comunicato conclusivo emesso dai commissari:”In attesa che il caso venga nuovamente sottoposto ad una super commissione, allo scopo di preservare la sua sanità mentale il soggetto de quo sia trattenuto nell’ambiente nel quale ha sin qui vissuto ed affidato alle cure personali della direttrice della Casa di Riposo “Quietas”, signora Benedetta Diotallevi, che sarà responsabile della sua vigilanza”.
Una drammatica rivelazione
Ma i discorsi fatti in sua presenza, senza alcuna discrezione da commissari evidentemente privi di tatto e di umanità di fronte ad una situazione assolutamente anomala e delicatissima, ed i titoli cubitali e le cronache dei giornali che impazzavano sul caso, rivelarono al povero Toni Manolo la tragedia che andava vivendo, e la sua esistenza ne fu sconvolta.
Cominciò a deperire, rifiutava il cibo, ammutolì, divenne insonne e cadde in una grave depressione.
A nulla valsero le cure di Benedetta, le sue parole di conforto, l’accusa ai commissari di essere degli incompetenti, di non capire nulla e di dire solo delle sciocchezze.
“E se invece tutto quello che hanno detto fosse vero? Fin che ci sei tu, Benedetta, non ho paura, ma dopo? Chi si prenderà cura di me quando sarò tornato ragazzo, bambino, infante e poi “ concludeva con un pianto irrefrenabile, rifugiandosi nelle braccia consolatrici della donna “sparire nel nulla?”.
A sua volta la povera donna si trovava in una situazione altrettanto angosciosa, senza poter fare alcunché per fermare l’assurdo destino che incombeva su quel pover’uomo.
Unico conforto, per entrambi, la preghiera che recitavano spesso in comune chiedendo al Signore che mettesse fine alle loro pene.
Ma, purtroppo, la situazione divenne sempre più tragica.
Assurdamente, la prospettiva della giovinezza, che per ogni uomo è fonte di gioia, costituiva per Toni solo una tappa amara nel cammino fatale verso il suo completo dissolvimento.
La Provvidenza
Benedetta quel giorno d’estate decise di andare a salutare il Toni che non vedeva da un paio di giorni.
Giunta dinanzi alla porta della sua cameretta bussò ma, non avendo ricevuta risposta alcuna, aprì piano la porta e vide Toni che in piedi davanti alla finestra aperta, nel trionfo di un tramonto estivo, con il sole che, enorme, calava sempre più all’orizzonte, guardava, fissamente, verso il basso.
L’uomo non si era accorto della presenza di Benedetta, e solo quando la donna, avvicinatasi, lo salutò, si girò di scatto guardandola con occhi allucinati: quindi, con mossa altrettanto fulminea, si girò di nuovo appoggiando le mani sulla soglia della finestra con il chiaro intento di scavalcarla.
Con una prontezza di cui ella stessa si sorprese, con un “Nooo!” urlato disperatamente, Benedetta si lanciò a sua volta sull’uomo riuscendo ad abbrancarlo stretto alle caviglie.
S’ingaggiò allora una lotta disperata fra l’uomo, ormai fuor di senno, e la donna che, avvinghiata a lui, lo chiamava ripetutamente per nome nel vano tentativo di farlo recedere dal suo folle proposito.
Ma la furia dell’uomo che scalciando violentemente cercava di liberarsi dalla stretta di Benedetta che non mollava la presa, il peso del suo corpo ormai quasi completamente penzolante nel vuoto, l’agitarsi scomposto delle sue braccia , quasi un assurdo nuotare nell’aria verso il basso per favorire la caduta, ebbero la meglio ed entrambi precipitarono.
Benedetta si stupì di quante cose le venivano in mente nel breve attimo in cui, prima di schiantarsi a terra, rimase librata nell’aria.
“E’ vero, o se è vero, che c’è la Provvidenza!”, pensava, inconsapevolmente echeggiando le parole del Manzoni nei “Promessi sposi”, il Signore ha ascoltato le nostre preghiere ed ora sta mettendo le cose a posto. Ha avuto pietà di questo pover’uomo ponendo fine alla sua assurda esistenza, e di sicuro perdonerà questo gesto causato dalla sua mente sconvolta. Ed io metterò fine ai miei timori, alle mie paure, al mio tormento per aver allora imprudentemente consentito ad una sperimentazione che avrebbe potuto provocare chi sa quali conseguenze modificando il corso della vita e l’ordine da Te stabilito. Ma tu sai, Signore, che le mie intenzioni erano buone, e sono sicura che mi perdonerai.”
La tragica conclusione della vita di Toni Manolo ebbe una vasta eco occupando pagine e pagine dei giornali, servizi in radio e televisione, convegni e dibattiti.
Ma il mistero dell’uomo che “viveva all’indietro” - come scrisse, coloritamente, un noto giornalista – è rimasto insoluto e nonostante attente e ripetute autopsie il caso è rimasto insoluto e turba tuttora scienziati, filosofi, religiosi.
Non mancò neppure chi lavorò di fantasia, e, commentando il fatto di quella donna e di quell’uomo precipitati abbracciati dalla finestra di una Casa di Riposo, affacciò il dubbio della tresca.
Da allora, però, alla “Quietas” (e, per quanto si sappia, nel mondo) non si verificarono più casi di uomini che campavano all’indietro cosicchè i suoi ospiti continuarono a vivere rivolti verso il futuro ed a morire regolarmente secondo gli usi ed i costumi vigenti.
Giovanni Zannini
lunedì 17 ottobre 2011
E FINIAMOLA CON LA FAVOLA DELLA FUGA DEL RE
Dissento da quanti sostengono che Vittorio Emanuele III di Savoia sia “fuggito” da Roma dopo l’armistizio dell’8 settembre 1943 (la presunta “Fuga di Ortona”, il porto ove egli si imbarcò sulla corvetta “Baionetta”) perché non di fuga si trattò, sibbene del trasferimento di colui che allora rappresentava l’Italia, e del governo da lui nominato, in una parte tuttora libera del territorio italiano (v.I.Montanelli – “Storia d’Italia”) perché in quel momento (e sia pure per poco), Brindisi non si trovava sotto il controllo degli Alleati né dei tedeschi.
Cosicchè la collaborazione fornita agli Alleati dal re e dal suo governo con truppe regolari italiane (talora spregiativamente definite “badogliani”) e con l’appoggio e l’assistenza ai gruppi di resistenti che nell’Italia , ed anche all’estero combatterono al loro fianco, valsero all’Italia la qualifica di “cobelligerante” e, alla fine, condizioni di pace che sarebbero state certamente più dure ove tale “cobelligeranza” non vi fosse stata.
Perché, se di “fuga” si vuol continuare a parlare, molte altre sarebbero le “fughe” da attribuire a quei regnanti che, nella seconda guerra mondiale, dopo la sconfitta dei loro eserciti abbandonarono il paese per costituire dall’estero (praticamente da Londra) quei governi in esilio che tennero alte le loro bandiere ed il diritto sovrano di continuare la lotta contro i tedeschi con tutti i mezzi possibili a loro disposizione.
In Norvegia, a seguito della sconfitta subita dopo due mesi di duri combattimenti contro i tedeschi che il 9 aprile 1940 l’avevano invasa, il re Haakon VII con tutta la famiglia ed il governo si rifugiarono in Gran Bretagna assieme alle truppe inglesi che, accorse invano in loro aiuto, si stavano ritirando.
Nell’Olanda che il 10 maggio 1940 tedeschi avevano invaso per prendere alle spalle la Francia, la Regina Guglielmina, dopo la capitolazione del suo esercito si rifugiò in Inghilterra con la famiglia e circa 5000 funzionari governativi e militari conservando il diritto sovrano di continuare la lotta contro i tedeschi.
Anche la granduchessa Carlotta del Lussemburgo per sfuggire ai tedeschi che erano dilagati nei paesi bassi riparò a Londra con la famiglia ed i membri del suo governo continuando in tal modo, dall’esilio, a rappresentare il Lussemburgo.
Il re Pietro II di Jugoslavia, a sua volta, per sfuggire ai tedeschi che avevano invaso il suo paese si rifugiò a Londra unendosi ai numerosi governi in esilio dell’Europa occupata.
Così pure il re Giorgio II di Grecia che, riparato con i membri del suo governo, dopo l’invasione tedesca, a Londra, vi costituì un governo in esilio internazionalmente riconosciuto.
Per non parlare di quanti, dal francese De Gaulle, al cecoslovacco Benes ed al polacco Sikorski con i loro governi in esilio continuarono a tener alte da Londra, durante la seconda guerra mondiale, le bandiere della Francia, della Cecoslovacchia e della Polonia.
Mentre, addirittura, si criticano, e giustamente, il re Cristiano X di Danimarca ed il re Leopoldo III del Belgio che, rimasti in patria per restare vicini al loro popolo dopo l’occupazione tedesca, l’avallarono però praticamente con la loro presenza esponendosi così all’accusa di collaborazionismo con il nemico.
E allora, perché parlare di “fuga” di Vittorio Emanuele III che, oltrettutto, non “fuggì” all’estero, ma, assicurando la continuità legale dello stato italiano trasferì i suoi poteri, il governo e la capitale d’Italia da Roma a Brindisi, ossia “in altro punto del sacro e libero suolo nazionale “(radio-proclama del re al popolo italiano da Brindisi il 10 settembre 1943) per cui non è neppure possibile definire “governo in esilio” quello presieduto da Badoglio?
Innegabili, sottolineate dalla storia, e condivisibili, le responsabilità addebitate a Vittorio Emanuele III di Savoia durante il ventennio fascista solo attenuate dal suo tardivo - e pure disorganizzato - intervento dopo il 25 luglio 1943: ma la cosiddetta “fuga di Ortona” è una colpa che non può essergli, onestamente, addebitata. Giovanni Zannini
Cosicchè la collaborazione fornita agli Alleati dal re e dal suo governo con truppe regolari italiane (talora spregiativamente definite “badogliani”) e con l’appoggio e l’assistenza ai gruppi di resistenti che nell’Italia , ed anche all’estero combatterono al loro fianco, valsero all’Italia la qualifica di “cobelligerante” e, alla fine, condizioni di pace che sarebbero state certamente più dure ove tale “cobelligeranza” non vi fosse stata.
Perché, se di “fuga” si vuol continuare a parlare, molte altre sarebbero le “fughe” da attribuire a quei regnanti che, nella seconda guerra mondiale, dopo la sconfitta dei loro eserciti abbandonarono il paese per costituire dall’estero (praticamente da Londra) quei governi in esilio che tennero alte le loro bandiere ed il diritto sovrano di continuare la lotta contro i tedeschi con tutti i mezzi possibili a loro disposizione.
In Norvegia, a seguito della sconfitta subita dopo due mesi di duri combattimenti contro i tedeschi che il 9 aprile 1940 l’avevano invasa, il re Haakon VII con tutta la famiglia ed il governo si rifugiarono in Gran Bretagna assieme alle truppe inglesi che, accorse invano in loro aiuto, si stavano ritirando.
Nell’Olanda che il 10 maggio 1940 tedeschi avevano invaso per prendere alle spalle la Francia, la Regina Guglielmina, dopo la capitolazione del suo esercito si rifugiò in Inghilterra con la famiglia e circa 5000 funzionari governativi e militari conservando il diritto sovrano di continuare la lotta contro i tedeschi.
Anche la granduchessa Carlotta del Lussemburgo per sfuggire ai tedeschi che erano dilagati nei paesi bassi riparò a Londra con la famiglia ed i membri del suo governo continuando in tal modo, dall’esilio, a rappresentare il Lussemburgo.
Il re Pietro II di Jugoslavia, a sua volta, per sfuggire ai tedeschi che avevano invaso il suo paese si rifugiò a Londra unendosi ai numerosi governi in esilio dell’Europa occupata.
Così pure il re Giorgio II di Grecia che, riparato con i membri del suo governo, dopo l’invasione tedesca, a Londra, vi costituì un governo in esilio internazionalmente riconosciuto.
Per non parlare di quanti, dal francese De Gaulle, al cecoslovacco Benes ed al polacco Sikorski con i loro governi in esilio continuarono a tener alte da Londra, durante la seconda guerra mondiale, le bandiere della Francia, della Cecoslovacchia e della Polonia.
Mentre, addirittura, si criticano, e giustamente, il re Cristiano X di Danimarca ed il re Leopoldo III del Belgio che, rimasti in patria per restare vicini al loro popolo dopo l’occupazione tedesca, l’avallarono però praticamente con la loro presenza esponendosi così all’accusa di collaborazionismo con il nemico.
E allora, perché parlare di “fuga” di Vittorio Emanuele III che, oltrettutto, non “fuggì” all’estero, ma, assicurando la continuità legale dello stato italiano trasferì i suoi poteri, il governo e la capitale d’Italia da Roma a Brindisi, ossia “in altro punto del sacro e libero suolo nazionale “(radio-proclama del re al popolo italiano da Brindisi il 10 settembre 1943) per cui non è neppure possibile definire “governo in esilio” quello presieduto da Badoglio?
Innegabili, sottolineate dalla storia, e condivisibili, le responsabilità addebitate a Vittorio Emanuele III di Savoia durante il ventennio fascista solo attenuate dal suo tardivo - e pure disorganizzato - intervento dopo il 25 luglio 1943: ma la cosiddetta “fuga di Ortona” è una colpa che non può essergli, onestamente, addebitata. Giovanni Zannini
giovedì 13 ottobre 2011
POLITICA E ALCOOL
E' noto che si raccomanda agli automobilisti di non superare ai pasti l'assunzione di più di un bicchiere di vino per evitare di provocare incidenti stradali troppo spesso gravi e mortali mentre si è alla guida di un mezzo motorizzato..
Ma nel suo recente libro di memorie “A Journei”, l’ex primo ministro inglese Tony Blair scrive che, per darsi coraggio ed uscire “dall’incubo” di dover decidere se affiancare gli Stati Uniti nella guerra d'aggressione a Saddam Hussein contro il volere della maggioranza degli inglesi “la sera, prima di cena, bevevo un whisky o un gin tonic e, durante il pasto, più di un bicchiere di vino per rilassarmi”.
Troppo, evidentemente, per tutti ed ancor più per un uomo politico sul quale pesano gravi responsabilità, prima fra tutte quella di collaborare per il mantenimento della pace nel mondo.
E’ dunque colpa dell’alcool troppo abbondantemente ed imprudentemente assunto se l’ex Primo Ministro inglese non si è accorto delle menzogne inventate da George Bush e dai suoi complici per giustificare l’intervento militare che ha provocato una guerra con danni incalcolabili di vite umane, la distruzione di enormi risorse economiche ed alimentato l’odio delle popolazioni mediorientali per il mondo occidentale?.
Ancor più grave sarebbe il fatto che egli abbia difeso la sua decisione “per il timore che Saddam Hussein potesse produrre armi di distruzione di massa” riconoscendo con ciò di essere caduto - pur potendo disporre di un raffinato “Intelligence Service” in grado d’ informarlo su come effettivamente stessero le cose, o addirittura, nonostante ciò - nel trabocchetto tesogli dal tradizionale alleato d’oltre mare che abusò clamorosamente della fiducia in lui riposta.
Quanto sopra sta a dimostrare, ove ce ne fosse bisogno, quale sia la pericolosità dell’abuso di alcool che può addirittura provocare danni in ambito internazionale, ben più gravi di quelli, già drammaticamente pesanti, delle stragi del sabato sera.
Vi è da rammaricarsi che nel 2003 Tony Blair non abbia avuto occasione di transitare, dopo cena, per le strade italiane perché, in tal caso, la nostra Polizia Stradale avrebbe anche potuto metterlo per un pò al fresco, per fargli smaltire la sbornia ed impedirgli di combinare altri guai.
Giovanni Zannini
.
Ma nel suo recente libro di memorie “A Journei”, l’ex primo ministro inglese Tony Blair scrive che, per darsi coraggio ed uscire “dall’incubo” di dover decidere se affiancare gli Stati Uniti nella guerra d'aggressione a Saddam Hussein contro il volere della maggioranza degli inglesi “la sera, prima di cena, bevevo un whisky o un gin tonic e, durante il pasto, più di un bicchiere di vino per rilassarmi”.
Troppo, evidentemente, per tutti ed ancor più per un uomo politico sul quale pesano gravi responsabilità, prima fra tutte quella di collaborare per il mantenimento della pace nel mondo.
E’ dunque colpa dell’alcool troppo abbondantemente ed imprudentemente assunto se l’ex Primo Ministro inglese non si è accorto delle menzogne inventate da George Bush e dai suoi complici per giustificare l’intervento militare che ha provocato una guerra con danni incalcolabili di vite umane, la distruzione di enormi risorse economiche ed alimentato l’odio delle popolazioni mediorientali per il mondo occidentale?.
Ancor più grave sarebbe il fatto che egli abbia difeso la sua decisione “per il timore che Saddam Hussein potesse produrre armi di distruzione di massa” riconoscendo con ciò di essere caduto - pur potendo disporre di un raffinato “Intelligence Service” in grado d’ informarlo su come effettivamente stessero le cose, o addirittura, nonostante ciò - nel trabocchetto tesogli dal tradizionale alleato d’oltre mare che abusò clamorosamente della fiducia in lui riposta.
Quanto sopra sta a dimostrare, ove ce ne fosse bisogno, quale sia la pericolosità dell’abuso di alcool che può addirittura provocare danni in ambito internazionale, ben più gravi di quelli, già drammaticamente pesanti, delle stragi del sabato sera.
Vi è da rammaricarsi che nel 2003 Tony Blair non abbia avuto occasione di transitare, dopo cena, per le strade italiane perché, in tal caso, la nostra Polizia Stradale avrebbe anche potuto metterlo per un pò al fresco, per fargli smaltire la sbornia ed impedirgli di combinare altri guai.
Giovanni Zannini
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mercoledì 5 ottobre 2011
PRETI GARIBALDINI
L’atmosfera rivoluzionaria del risorgimento oltre ad infiammare gli animi di molti laici italiani era penetrata anche nei chiostri, nei conventi, nei monasteri, nei seminari.
Nel 1847, da Montevideo, Garibaldi aveva offerto al Papa Pio IX, autore di promettenti riforme liberali la propria spada ma la successiva rinuncia del Papa alla sua politica riformatrice provocò una brusca virata di Garibaldi che divenne il suo più fiero avversario, identificando in lui il principale ostacolo alla completa riunificazione dell’Italia con Roma capitale.
Purtroppo, questo atteggiamento di ostilità verso il Papa Capo dello Stato Pontificio, che aveva mancato alla fiducia dei patrioti italiani, produsse un grave equivoco trascinandoli ad avversare il Papa anche come Capo della Chiesa cosicché il Risorgimento fu connotato dall’ ostilità, favorita dalla Massoneria cui erano affiliati importanti personaggi risorgimentali, verso la Chiesa cattolica.
Ciò raffreddò gli entusiasmi iniziali di molto clero per Garibaldi e pose in difficoltà quei religiosi che lo avevano seguito.
Fra quelli che caddero nell’equivoco e rinnegarono la propria fede si ricorda Giovanni Pantaleo nato a Castelvetrano nel 1832. Divenuto giovanissimo frate con i Riformati di S.Francesco, stava predicando nel 1860 nel convento degli Angeli di Palermo allorchè lo raggiunse la notizia dello sbarco di Garibaldi a Marsala. Abbandonato senza indugio il convento, si presentò al Generale divenendo il cappellano dei Mille; ma poi, contagiato dall’aria anticlericale che tirava nell’ambiente, gettò la tonaca nel 1863. Fu uno dei fedelissimi di Garibaldi che seguì ad Aspromonte, nel Trentino, a Mentana e nella spedizione in Francia del 1870 combattendo contro i tedeschi a Digione.
Passato decisamente dalla parte opposta delle sue origini, prese parte all’anticoncilio adunato a Napoli nel 1869, si sposò nel 1872 e morì a Roma nel 1879 non riconciliato con la Chiesa.
Ma vi furono anche religiosi che, attratti inizialmente dall’ideale patriottico di Garibaldi ed avendo partecipato alle sue imprese, se ne allontanarono poi - mantenendo così salda, differentemente dal Pantaleo, la propria fede - allorché si accorsero della sua avversione, complice la Massoneria, contro il proprio padre spirituale, il Papa.
E’ questo il caso di Giuseppe Fagnano nato a Rocchetta Tanaro (Asti) il 9 marzo 1844, un chierico che, folgorato dalla figura di Garibaldi non esitò ad arruolarsi, a 16 anni, fra i volontari garibaldini.
Il Generale, che aveva osservato il giovane con occhio esperto, aveva apprezzato il suo entusiasmo oltre alla sua robusta costituzione fisica, superiore alla sua età e, tenuto conto dello spirito umanitario che lo animava, lo destinò alla Croce Rossa avendo occasione di ammirare più volte il coraggio del “fraticello” che tra il sibilare delle pallottole ed il rombo dei cannoni si lanciava senza paura a curare i feriti sul campo di battaglia.
Una volta, mentre questa infuriava, non avendo a portata di mano la bianca bandiera della Croce Rossa, si tolse la camicia e sventolandola riuscì ad ottenere un po’ di tregua potendo così raggiungere ed assistere i suoi sfortunati compagni.
Ma egli sapeva reagire con altrettanta fermezza contro quei compagni d’arme - e qualche volta anche contro qualche superiore – che disprezzavano la sua fede o irridevano alle sue pratiche religiose.
E Garibaldi, che aveva avvertito il suo disagio, dimostrando anche in questo caso il suo gran cuore, gli disse:” Ascolta, “fraticello”, tu sei davvero valoroso, ti sono molto grato per tutto ciò che hai fatto, ma data la tua intransigenza ti consiglio di passare nell’esercito dove c’è una disciplina più rigida e dove potrai essere utile alla patria quanto qui”.
Il giovane seguì il suo consiglio e si arruolò nell’esercito: ma anche lì trovò un ambiente contrario alle sue convinzioni religiose. E quando alcuni liberali gli proposero di iscriversi alla massoneria per progredire nella carriera militare, indignato rispose che vero liberale è chi conta sulle proprie forze, non chi lusinga l’uno o l’altro potente per farsi largo: e se ne andò sbattendo la porta, riprese gli studi e divenne sacerdote.
L’esperienza fatta con i garibaldini fu una scuola preziosa per il servizio che egli renderà nella congregazione dei salesiani agli “ordini” del suo nuovo generale, San Giovanni Bosco che lo mandò missionario con dieci altri uomini coraggiosi in Sud America, in Cile ed in Argentina dove Fagnano lavorò con tutte le sue forze.
Divenuto Prefetto per la Patagonia meridionale e la Terra del Fuoco in immaginabili condizioni di grande disagio si prodigò a favore delle primitive popolazioni indie locali (pampas, patagoni, onas, yaganes, alacaluffi, tehuelches, araucani ecc.), i cui diritti strenuamente difese giungendo a porsi dinanzi ai fucili di militari spietati per evitare la strage dei suoi protetti.
Non solo, ma spese energie anche a favore degli italiani emigrati in quelle lontane terre, fondando, fra l’altro, nel 1880 a Carmen de Patagones quella “Società Italiana di Mutuo Soccorso” che è tuttora fiorente, e perfino un osservatorio meteorologico.
Morto a Santiago del Cile il 18 settembre 1916, Monsegnor Giuseppe Fagnano riposa nella chiesa di Punta Arenas circondato dalla venerazione di uomini che egli amò come figli.
Del tutto particolare il caso del sacerdote don Angelo Arboit nato a Rocca d’Arsiè il 15 marzo 1826.
Nel 1848 è chierico in seminario ove studia teologia avendo come compagno di studi Giuseppe Sarto, il futuro papa Pio X.
Spinto da sacro fuoco patriottico, si arruola volontario con Garibaldi nei Cacciatori delle Alpi; ferito in combattimento, torna al suo paese, si laurea in lettere a Padova e rientrato in seminario, è ordinato sacerdote nel 1857 dedicandosi all’insegnamento prima a Mantova e poi a Udine.
Ma il desiderio di partecipare attivamente alla lotta per l’unità d’Italia è così forte da spingerlo ad una nuova avventura: questa volta raggiunge a Caserta Garibaldi che arriva dalla Sicilia, si arruola e diventa cappellano militare dei Mille ai quali presta la sua assistenza morale.
Questa sua “ricaduta” spinge però l’autorità ecclesiastica a sospenderlo “a divinis” non già per comportamenti immorali, non avendo egli mai rinunciato ai principi della buona educazione ricevuta, ma per motivi ideologici, la sua ammirazione per Garibaldi considerato dalla Chiesa, all’epoca, una specie di demonio.
Nel 1893, mentre è preside del liceo classico di Mantova ove è vescovo Giuseppe Sarto, cade gravemente ammalato e si teme per la sua vita. Al suo capezzale accorre il suo ex compagno di studi che lo tranquillizza assicurandolo che sul suo passato “ribellismo” è già stato steso un velo. Il malato si rasserena, ma insiste nel condannare il potere temporale del Papa
Mons. Alfredo Contran di Padova, poeta e scrittore di vaglia – autore di una raccolta di profili di sacerdoti della diocesi di Padova intitolata “L’archibugio del cappellano” - scrive che secondo una versione che sa un po’ di leggenda, il colloquio fra i due si sarebbe svolto pressapoco così:” “Dai” dice il vescovo “vediamo di combinare. Ti suggerisco io la formula di sottomissione”. Ma l’altro lo previene affermando:”Riconosco i miei errori ma è bene che sia cessato lo stato pontificio”. Il Sarto scuote la testa:”No, non così” e allora l’Arboit, di rimando: ”Riconosco di aver sbagliato, ma è giusta l’unità d’Italia”. Cade un silenzio d’attesa, fino a che l’ammalato riprende l’iniziativa:”Riconosco di aver sbagliato…e credo che Dio nella sua infinita sapienza abbia permesso l’unità d’Italia”. Adesso i due amici sorridono e si abbracciano”.
Don Angelo Arboit, cessato l’ insegnamento, tornò al paese natio ove morì, con la coscienza tranquilla, nel 1896, portando nella tomba, intatti, l’amore per Cristo e quello per Giuseppe Garibaldi.
Giovanni Zannini
Pubblicato su "Camicia Rossa"
L’atmosfera rivoluzionaria del risorgimento oltre ad infiammare gli animi di molti laici italiani era penetrata anche nei chiostri, nei conventi, nei monasteri, nei seminari.
Nel 1847, da Montevideo, Garibaldi aveva offerto al Papa Pio IX, autore di promettenti riforme liberali la propria spada ma la successiva rinuncia del Papa alla sua politica riformatrice provocò una brusca virata di Garibaldi che divenne il suo più fiero avversario, identificando in lui il principale ostacolo alla completa riunificazione dell’Italia con Roma capitale.
Purtroppo, questo atteggiamento di ostilità verso il Papa Capo dello Stato Pontificio, che aveva mancato alla fiducia dei patrioti italiani, produsse un grave equivoco trascinandoli ad avversare il Papa anche come Capo della Chiesa cosicché il Risorgimento fu connotato dall’ ostilità, favorita dalla Massoneria cui erano affiliati importanti personaggi risorgimentali, verso la Chiesa cattolica.
Ciò raffreddò gli entusiasmi iniziali di molto clero per Garibaldi e pose in difficoltà quei religiosi che lo avevano seguito.
Fra quelli che caddero nell’equivoco e rinnegarono la propria fede si ricorda Giovanni Pantaleo nato a Castelvetrano nel 1832. Divenuto giovanissimo frate con i Riformati di S.Francesco, stava predicando nel 1860 nel convento degli Angeli di Palermo allorchè lo raggiunse la notizia dello sbarco di Garibaldi a Marsala. Abbandonato senza indugio il convento, si presentò al Generale divenendo il cappellano dei Mille; ma poi, contagiato dall’aria anticlericale che tirava nell’ambiente, gettò la tonaca nel 1863. Fu uno dei fedelissimi di Garibaldi che seguì ad Aspromonte, nel Trentino, a Mentana e nella spedizione in Francia del 1870 combattendo contro i tedeschi a Digione.
Passato decisamente dalla parte opposta delle sue origini, prese parte all’anticoncilio adunato a Napoli nel 1869, si sposò nel 1872 e morì a Roma nel 1879 non riconciliato con la Chiesa.
Ma vi furono anche religiosi che, attratti inizialmente dall’ideale patriottico di Garibaldi ed avendo partecipato alle sue imprese, se ne allontanarono poi - mantenendo così salda, differentemente dal Pantaleo, la propria fede - allorché si accorsero della sua avversione, complice la Massoneria, contro il proprio padre spirituale, il Papa.
E’ questo il caso di Giuseppe Fagnano nato a Rocchetta Tanaro (Asti) il 9 marzo 1844, un chierico che, folgorato dalla figura di Garibaldi non esitò ad arruolarsi, a 16 anni, fra i volontari garibaldini.
Il Generale, che aveva osservato il giovane con occhio esperto, aveva apprezzato il suo entusiasmo oltre alla sua robusta costituzione fisica, superiore alla sua età e, tenuto conto dello spirito umanitario che lo animava, lo destinò alla Croce Rossa avendo occasione di ammirare più volte il coraggio del “fraticello” che tra il sibilare delle pallottole ed il rombo dei cannoni si lanciava senza paura a curare i feriti sul campo di battaglia.
Una volta, mentre questa infuriava, non avendo a portata di mano la bianca bandiera della Croce Rossa, si tolse la camicia e sventolandola riuscì ad ottenere un po’ di tregua potendo così raggiungere ed assistere i suoi sfortunati compagni.
Ma egli sapeva reagire con altrettanta fermezza contro quei compagni d’arme - e qualche volta anche contro qualche superiore – che disprezzavano la sua fede o irridevano alle sue pratiche religiose.
E Garibaldi, che aveva avvertito il suo disagio, dimostrando anche in questo caso il suo gran cuore, gli disse:” Ascolta, “fraticello”, tu sei davvero valoroso, ti sono molto grato per tutto ciò che hai fatto, ma data la tua intransigenza ti consiglio di passare nell’esercito dove c’è una disciplina più rigida e dove potrai essere utile alla patria quanto qui”.
Il giovane seguì il suo consiglio e si arruolò nell’esercito: ma anche lì trovò un ambiente contrario alle sue convinzioni religiose. E quando alcuni liberali gli proposero di iscriversi alla massoneria per progredire nella carriera militare, indignato rispose che vero liberale è chi conta sulle proprie forze, non chi lusinga l’uno o l’altro potente per farsi largo: e se ne andò sbattendo la porta, riprese gli studi e divenne sacerdote.
L’esperienza fatta con i garibaldini fu una scuola preziosa per il servizio che egli renderà nella congregazione dei salesiani agli “ordini” del suo nuovo generale, San Giovanni Bosco che lo mandò missionario con dieci altri uomini coraggiosi in Sud America, in Cile ed in Argentina dove Fagnano lavorò con tutte le sue forze.
Divenuto Prefetto per la Patagonia meridionale e la Terra del Fuoco in immaginabili condizioni di grande disagio si prodigò a favore delle primitive popolazioni indie locali (pampas, patagoni, onas, yaganes, alacaluffi, tehuelches, araucani ecc.), i cui diritti strenuamente difese giungendo a porsi dinanzi ai fucili di militari spietati per evitare la strage dei suoi protetti.
Non solo, ma spese energie anche a favore degli italiani emigrati in quelle lontane terre, fondando, fra l’altro, nel 1880 a Carmen de Patagones quella “Società Italiana di Mutuo Soccorso” che è tuttora fiorente, e perfino un osservatorio meteorologico.
Morto a Santiago del Cile il 18 settembre 1916, Monsegnor Giuseppe Fagnano riposa nella chiesa di Punta Arenas circondato dalla venerazione di uomini che egli amò come figli.
Del tutto particolare il caso del sacerdote don Angelo Arboit nato a Rocca d’Arsiè il 15 marzo 1826.
Nel 1848 è chierico in seminario ove studia teologia avendo come compagno di studi Giuseppe Sarto, il futuro papa Pio X.
Spinto da sacro fuoco patriottico, si arruola volontario con Garibaldi nei Cacciatori delle Alpi; ferito in combattimento, torna al suo paese, si laurea in lettere a Padova e rientrato in seminario, è ordinato sacerdote nel 1857 dedicandosi all’insegnamento prima a Mantova e poi a Udine.
Ma il desiderio di partecipare attivamente alla lotta per l’unità d’Italia è così forte da spingerlo ad una nuova avventura: questa volta raggiunge a Caserta Garibaldi che arriva dalla Sicilia, si arruola e diventa cappellano militare dei Mille ai quali presta la sua assistenza morale.
Questa sua “ricaduta” spinge però l’autorità ecclesiastica a sospenderlo “a divinis” non già per comportamenti immorali, non avendo egli mai rinunciato ai principi della buona educazione ricevuta, ma per motivi ideologici, la sua ammirazione per Garibaldi considerato dalla Chiesa, all’epoca, una specie di demonio.
Nel 1893, mentre è preside del liceo classico di Mantova ove è vescovo Giuseppe Sarto, cade gravemente ammalato e si teme per la sua vita. Al suo capezzale accorre il suo ex compagno di studi che lo tranquillizza assicurandolo che sul suo passato “ribellismo” è già stato steso un velo. Il malato si rasserena, ma insiste nel condannare il potere temporale del Papa
Mons. Alfredo Contran di Padova, poeta e scrittore di vaglia – autore di una raccolta di profili di sacerdoti della diocesi di Padova intitolata “L’archibugio del cappellano” - scrive che secondo una versione che sa un po’ di leggenda, il colloquio fra i due si sarebbe svolto pressapoco così:” “Dai” dice il vescovo “vediamo di combinare. Ti suggerisco io la formula di sottomissione”. Ma l’altro lo previene affermando:”Riconosco i miei errori ma è bene che sia cessato lo stato pontificio”. Il Sarto scuote la testa:”No, non così” e allora l’Arboit, di rimando: ”Riconosco di aver sbagliato, ma è giusta l’unità d’Italia”. Cade un silenzio d’attesa, fino a che l’ammalato riprende l’iniziativa:”Riconosco di aver sbagliato…e credo che Dio nella sua infinita sapienza abbia permesso l’unità d’Italia”. Adesso i due amici sorridono e si abbracciano”.
Don Angelo Arboit, cessato l’ insegnamento, tornò al paese natio ove morì, con la coscienza tranquilla, nel 1896, portando nella tomba, intatti, l’amore per Cristo e quello per Giuseppe Garibaldi.
Giovanni Zannini
Pubblicato su "Camicia Rossa"
LA TRADUZIONE DEL PRIGIONIERO BENITO MUSSOLINI
Da Roma al Gran Sasso via Ventotene, Ponza, La Maddalena.
LA TRADUZIONE DEL PRIGIONIERO BENITO MUSSOLINI.
Fu proprio quello l’inconsueto itinerario seguito da coloro che ebbero l’ingrato compito di custodire Benito Mussolini dopo che il re, a Villa Savoia, l’aveva destituito nel pomeriggio del 25 luglio 1943, lo stesso giorno in cui, alle tre del mattino, si era conclusa l’ultima seduta del Gran Consiglio del Fascismo con l’ordine del giorno Grandi che ne decretò la fine.
Un vagare affannoso e non programmato alla ricerca di un luogo sicuro in cui depositare l’ingombrante fardello, sotto l’incubo di possibili colpi di mano sia da parte degli inglesi che di Hitler il quale già dal 26 luglio aveva messo in moto, per la liberazione del duce, una “task force” affidata al colonnello Otto Skorzeny.
Si comincia con il trasferimento, la sera del 27 luglio, da Roma a Gaeta ove alle prime luci dell’alba del giorno successivo Mussolini viene imbarcato sulla corvetta “Persefone” che fa rotta per l’isola di Ventotene. Quivi giunti, dopo una rapida ispezione, si constata che non è possibile sistemarvi il prigioniero, e, sui due piedi, si decide di dirigere su Ponza ove la nave giunge nel pomeriggio dello stesso giorno.
Ivi l’ex duce viene sistemato alla meglio in una catapecchia, ed il 7 agosto scatta l’allarme.
Scrive:”…Stanotte, verso l’una sono stato svegliato con le seguenti parole:”Pericolo in vista! Dobbiamo partire”. Mi sono vestito in tutta fretta, ho raccolto i miei oggetti e le mie carte e mi sono recato su di un incrociatore che mi attendeva…”.
Un primo tentativo di Skorzeny?
La nave sulla quale il prigioniero viene imbarcato in tutta fretta è, più precisamente, il caccia F.R.22 (l’ex “Pantera” francese, preda di guerra) che lo trasferisce nell’isola della Maddalena ove resterà fino al mattino del 28 agosto quando, sentendo sulla nuca, i custodi del duce, il fiato dei segugi scatenati alla sua caccia, Mussolini viene ancora una volta precipitosamente imbarcato su di un idrovolante della Croce Rossa che ammarra all’idroscalo di Vigna di Valle sul lago di Bracciano.
Effettivamente, l’implacabile Skorzeny era già sulla Maddalena e solo l’improvviso decollo del velivolo gli aveva sottratto la preda.
Da Vigna di Valle il prigioniero viene trasferito, ancora una volta a bordo di un’autoambulanza, ad Assergi donde in data incerta, probabilmente il 31 agosto, viene condotto per funivia all’albergo rifugio di Campo Imperatore ove Skorzeny il 12 settembre riesce a portare a termine, rocambolescamente, la missione affidatagli dal suo Fuhrer.
Fin qui l’itinerario percorso in 50 giorni dal duce, un calvario che suscita in lui meditazioni che la gloria terrena aveva per troppo tempo sopite, raccolte in due quaderni che egli chiamerà “Pensieri pontini e sardi”.
Di essi lo stesso Mussolini aveva perso le tracce: nel suo libro “Il tempo del bastone e della carota”, infatti, ricordando il suo travagliato trasferimento da Roma al Gran Sasso, afferma (parlando, come noto, in terza persona), che “…Fu concesso a Mussolini di scrivere. Pare abbia fatto delle notazioni quotidiane di carattere filosofico, letterario, politico, ma questa specie di diario non lo si è più trovato…”.
Appare dunque necessario un chiarimento.
Dalla “Nota informativa” che apre il suddetto libro di Mussolini si apprende che i due quaderni manoscritti finirono nelle mani del “liberatore” Skorzeny il quale si affrettò ad inviarli al capo delle SS. Himmler. Questi, dopo averli tradotti e fotografati, li consegnò in originale allo stesso Hitler il quale li restituì a Skorzeny, e questi al Duce: ma poi, se ne sono perse le tracce.
E allora, da dove spuntano?
Pochi giorni prima della capitolazione della Germania giunse all’ufficio militare tedesco di Kreismunster, presso Linz, l’ordine di distruggere tutti i documenti ivi esistenti. In quella occasione cadde sotto gli occhi dell’ufficiale tedesco addetto una copia della traduzione del primo quaderno dei “Pensieri Pontini e Sardi” quello che va, come già detto, dal 2 al 19 agosto 1943.
Resosi conto dell’importanza del documento (e, forse, della possibilità di farci qualche marco……) l’ufficiale lo salvò dalle fiamme e successivamente lo consegnò al giornale austriaco “Salzburger Nachrichten” che, controllatane l’autenticità, lo pubblicò a puntate, ripreso poi dalla stampa italiana .
Ora i “Pensieri pontini e sardi” figurano nell’”Opera Omnia” di Mussolini” edita, a cura di Duilio ed Edoardo Susmel, dalla casa editrice “La Fenice” di Firenze nel 1963.
Il secondo quaderno è invece allo stato attuale, e salvo altre sorprese, scomparso.
- - - - - - - - - - -
Ma torniamo al testo.
Ne emergono lo scoramento, la rassegnazione, i “mea culpa”, il desiderio di conforto religioso, ed i sintomi della caduta.
“Fin dall’ottobre 1942 – vi si legge - ho avuto un presentimento continuamente crescente della crisi che mi avrebbe travolto. La mia malattia vi ha molto contribuito”.
Il tema della malattia (ulcera duodenale con ripetute crisi) ritorna:”E’ strano che negli ultimi tempi il lavoro nella grande sala di Palazzo Venezia mi era venuto a noia. Avevo già deciso di trasferirmi al Ministero della Marina o in un altro posto della periferia più concentrato di palazzo Venezia di fronte all’altare della Patria. Un sintomo della mia malattia”.
Ed a proposito della costruzione di un rifugio antiaereo sotto Villa Torlonia scrive:”…la mia ripulsione verso il rifugio antiaereo crebbe a causa di un oscuro presentimento… Avevo l’esatta sensazione che questo rifugio sarebbe stato completamente inutile, che non ce ne saremmo mai serviti. Infatti! Si deve ascoltare la voce del subcosciente”.
A Ponza legge il libro “Vita di Cristo” (del canonico lateranense Giuseppe Ricciotti) la cui lettura aveva iniziato, si noti, già prima del 25 luglio e che la moglie Rachele, trovatolo aperto sul suo tavolo, gli aveva fatto pervenire assieme ad altre poche robe.
“”Due libri mi hanno molto interessato in questi ultimi tempi: “La vita di Gesù” di G.Ricciotti e “Giacomo Leopardi” di Saponaro. Anche Leopardi è stato un po’ crocifisso!””.
Chiede di vedere il parroco ma gli è impedito, ed allora gli scrive pregandolo di celebrare una messa in suffragio del figlio Bruno nel secondo anniversario della morte donandogli, in segno di gratitudine, la “Vita di Cristo” che il sacerdote trova annotato e sottolineato in più punti. Una frase, in particolare:”E Gesù uscì solo, non gli era d’appresso neppure un amico”.
Il sacerdote risponde assicurando che celebrerà la Messa nella speranza che anche lui possa parteciparvi, ma il trasferimento alla Maddalena lo impedirà.
Quivi giunto annota:”” Oggi 17 agosto è venuto da me, su mia richiesta, il parroco della Maddalena, don Capula. L’ho intrattenuto brevemente sulle mie faccende e gli ho detto che le sue visite mi avrebbero aiutato a vincere la grave crisi morale provocata dall’isolamento più che da tutto il resto. E il sacerdote:”…Lei non è stato sempre grande nella fortuna: sia grande ora nella disgrazia. E’ da questa che il mondo la giudicherà, da quello che lei sarà a partire da ora e molto meno da quello che lei è stato fino a ieri. Dio, che vede tutto, la osserva e sono sicuro che lei non farà nulla che possa ferire i principi religiosi cattolici, dei quali lei si ricorda, anche se dovessero prodursi nuovi colpi del destino”. Gliel’ho promesso””.
Ripensando poi a Palazzo Venezia, a Villa Torlonia, alla Rocca delle Camminate, commenta:”…Io ho abbandonato tutto ciò da vivo. Eppure è come se fossi morto…”.
In un colloquio con l’Ammiraglio Maugeri sulla corvetta Persefone che lo conduce a Ponza, insiste:”…Io sono politicamente defunto…”.
Ed a chi gli chiede un autografo si firma “Mussolini defunto”.
Il 19 agosto annota: “…la mia settimana di passione cominciò precisamente un mese fa con il mio incontro col Fuhrer a Feltre” e confessa: la previsione che “la Germania ci piantava in asso, e che dopo la conquista della Sicilia gli inglesi sarebbero arrivati…fino a Roma…accrebbe la tensione nervosa già prossima al collasso”.
E poi: “….Questa sarebbe dunque la mia posizione giuridica: ex capo del governo in stato di arresto protettivo contro la furia popolare!”.
Quindi un rimpianto:””Nella mia vita non ho mai avuto nessun amico, ma è meglio così perché in tal modo molta gente è esentata dal “compatirmi”, cioè dal “patire con me””; ed un pentimento:”…Povera Rachele! Quanta poca gioia le ho dato e quanti dolori. Durante trent’anni non una sola settimana di calma. Meritava forse un destino diverso e migliore che essere legata alla mia vita tempestosa”.
A proposito di donne scrive: ””….le donne non hanno mai esercitato la sia pur minima influenza sulla mia politica. Forse è stato uno svantaggio. Talvolta, grazie alla loro fine sensibilità, le donne sono più lungimiranti degli uomini””.
Infine:“ La massa è stata pronta, in tutte le epoche ad abbattere gli idoli di ieri anche a costo di pentirsene domani.. Ma nel mio caso non sarà così. Il sangue, l’infallibile voce del sangue mi dice che la mia stella è tramontata per sempre”.
- - - - - - -
Tre giorni dopo la liberazione avvenuta a Campo Imperatore il 12 settembre 1943, Mussolini fonda, il 15 dello stesso mese, il Partito Fascista Repubblicano ordinando di “appoggiare efficacemente e cameratescamente l’Esercito germanico che si batte sul territorio italiano contro il comune nemico” e l’1 dicembre dello stesso anno proclama la nascita della RSI, la “Repubblica Sociale Italiana”.
Giovanni Zannini
LA TRADUZIONE DEL PRIGIONIERO BENITO MUSSOLINI.
Fu proprio quello l’inconsueto itinerario seguito da coloro che ebbero l’ingrato compito di custodire Benito Mussolini dopo che il re, a Villa Savoia, l’aveva destituito nel pomeriggio del 25 luglio 1943, lo stesso giorno in cui, alle tre del mattino, si era conclusa l’ultima seduta del Gran Consiglio del Fascismo con l’ordine del giorno Grandi che ne decretò la fine.
Un vagare affannoso e non programmato alla ricerca di un luogo sicuro in cui depositare l’ingombrante fardello, sotto l’incubo di possibili colpi di mano sia da parte degli inglesi che di Hitler il quale già dal 26 luglio aveva messo in moto, per la liberazione del duce, una “task force” affidata al colonnello Otto Skorzeny.
Si comincia con il trasferimento, la sera del 27 luglio, da Roma a Gaeta ove alle prime luci dell’alba del giorno successivo Mussolini viene imbarcato sulla corvetta “Persefone” che fa rotta per l’isola di Ventotene. Quivi giunti, dopo una rapida ispezione, si constata che non è possibile sistemarvi il prigioniero, e, sui due piedi, si decide di dirigere su Ponza ove la nave giunge nel pomeriggio dello stesso giorno.
Ivi l’ex duce viene sistemato alla meglio in una catapecchia, ed il 7 agosto scatta l’allarme.
Scrive:”…Stanotte, verso l’una sono stato svegliato con le seguenti parole:”Pericolo in vista! Dobbiamo partire”. Mi sono vestito in tutta fretta, ho raccolto i miei oggetti e le mie carte e mi sono recato su di un incrociatore che mi attendeva…”.
Un primo tentativo di Skorzeny?
La nave sulla quale il prigioniero viene imbarcato in tutta fretta è, più precisamente, il caccia F.R.22 (l’ex “Pantera” francese, preda di guerra) che lo trasferisce nell’isola della Maddalena ove resterà fino al mattino del 28 agosto quando, sentendo sulla nuca, i custodi del duce, il fiato dei segugi scatenati alla sua caccia, Mussolini viene ancora una volta precipitosamente imbarcato su di un idrovolante della Croce Rossa che ammarra all’idroscalo di Vigna di Valle sul lago di Bracciano.
Effettivamente, l’implacabile Skorzeny era già sulla Maddalena e solo l’improvviso decollo del velivolo gli aveva sottratto la preda.
Da Vigna di Valle il prigioniero viene trasferito, ancora una volta a bordo di un’autoambulanza, ad Assergi donde in data incerta, probabilmente il 31 agosto, viene condotto per funivia all’albergo rifugio di Campo Imperatore ove Skorzeny il 12 settembre riesce a portare a termine, rocambolescamente, la missione affidatagli dal suo Fuhrer.
Fin qui l’itinerario percorso in 50 giorni dal duce, un calvario che suscita in lui meditazioni che la gloria terrena aveva per troppo tempo sopite, raccolte in due quaderni che egli chiamerà “Pensieri pontini e sardi”.
Di essi lo stesso Mussolini aveva perso le tracce: nel suo libro “Il tempo del bastone e della carota”, infatti, ricordando il suo travagliato trasferimento da Roma al Gran Sasso, afferma (parlando, come noto, in terza persona), che “…Fu concesso a Mussolini di scrivere. Pare abbia fatto delle notazioni quotidiane di carattere filosofico, letterario, politico, ma questa specie di diario non lo si è più trovato…”.
Appare dunque necessario un chiarimento.
Dalla “Nota informativa” che apre il suddetto libro di Mussolini si apprende che i due quaderni manoscritti finirono nelle mani del “liberatore” Skorzeny il quale si affrettò ad inviarli al capo delle SS. Himmler. Questi, dopo averli tradotti e fotografati, li consegnò in originale allo stesso Hitler il quale li restituì a Skorzeny, e questi al Duce: ma poi, se ne sono perse le tracce.
E allora, da dove spuntano?
Pochi giorni prima della capitolazione della Germania giunse all’ufficio militare tedesco di Kreismunster, presso Linz, l’ordine di distruggere tutti i documenti ivi esistenti. In quella occasione cadde sotto gli occhi dell’ufficiale tedesco addetto una copia della traduzione del primo quaderno dei “Pensieri Pontini e Sardi” quello che va, come già detto, dal 2 al 19 agosto 1943.
Resosi conto dell’importanza del documento (e, forse, della possibilità di farci qualche marco……) l’ufficiale lo salvò dalle fiamme e successivamente lo consegnò al giornale austriaco “Salzburger Nachrichten” che, controllatane l’autenticità, lo pubblicò a puntate, ripreso poi dalla stampa italiana .
Ora i “Pensieri pontini e sardi” figurano nell’”Opera Omnia” di Mussolini” edita, a cura di Duilio ed Edoardo Susmel, dalla casa editrice “La Fenice” di Firenze nel 1963.
Il secondo quaderno è invece allo stato attuale, e salvo altre sorprese, scomparso.
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Ma torniamo al testo.
Ne emergono lo scoramento, la rassegnazione, i “mea culpa”, il desiderio di conforto religioso, ed i sintomi della caduta.
“Fin dall’ottobre 1942 – vi si legge - ho avuto un presentimento continuamente crescente della crisi che mi avrebbe travolto. La mia malattia vi ha molto contribuito”.
Il tema della malattia (ulcera duodenale con ripetute crisi) ritorna:”E’ strano che negli ultimi tempi il lavoro nella grande sala di Palazzo Venezia mi era venuto a noia. Avevo già deciso di trasferirmi al Ministero della Marina o in un altro posto della periferia più concentrato di palazzo Venezia di fronte all’altare della Patria. Un sintomo della mia malattia”.
Ed a proposito della costruzione di un rifugio antiaereo sotto Villa Torlonia scrive:”…la mia ripulsione verso il rifugio antiaereo crebbe a causa di un oscuro presentimento… Avevo l’esatta sensazione che questo rifugio sarebbe stato completamente inutile, che non ce ne saremmo mai serviti. Infatti! Si deve ascoltare la voce del subcosciente”.
A Ponza legge il libro “Vita di Cristo” (del canonico lateranense Giuseppe Ricciotti) la cui lettura aveva iniziato, si noti, già prima del 25 luglio e che la moglie Rachele, trovatolo aperto sul suo tavolo, gli aveva fatto pervenire assieme ad altre poche robe.
“”Due libri mi hanno molto interessato in questi ultimi tempi: “La vita di Gesù” di G.Ricciotti e “Giacomo Leopardi” di Saponaro. Anche Leopardi è stato un po’ crocifisso!””.
Chiede di vedere il parroco ma gli è impedito, ed allora gli scrive pregandolo di celebrare una messa in suffragio del figlio Bruno nel secondo anniversario della morte donandogli, in segno di gratitudine, la “Vita di Cristo” che il sacerdote trova annotato e sottolineato in più punti. Una frase, in particolare:”E Gesù uscì solo, non gli era d’appresso neppure un amico”.
Il sacerdote risponde assicurando che celebrerà la Messa nella speranza che anche lui possa parteciparvi, ma il trasferimento alla Maddalena lo impedirà.
Quivi giunto annota:”” Oggi 17 agosto è venuto da me, su mia richiesta, il parroco della Maddalena, don Capula. L’ho intrattenuto brevemente sulle mie faccende e gli ho detto che le sue visite mi avrebbero aiutato a vincere la grave crisi morale provocata dall’isolamento più che da tutto il resto. E il sacerdote:”…Lei non è stato sempre grande nella fortuna: sia grande ora nella disgrazia. E’ da questa che il mondo la giudicherà, da quello che lei sarà a partire da ora e molto meno da quello che lei è stato fino a ieri. Dio, che vede tutto, la osserva e sono sicuro che lei non farà nulla che possa ferire i principi religiosi cattolici, dei quali lei si ricorda, anche se dovessero prodursi nuovi colpi del destino”. Gliel’ho promesso””.
Ripensando poi a Palazzo Venezia, a Villa Torlonia, alla Rocca delle Camminate, commenta:”…Io ho abbandonato tutto ciò da vivo. Eppure è come se fossi morto…”.
In un colloquio con l’Ammiraglio Maugeri sulla corvetta Persefone che lo conduce a Ponza, insiste:”…Io sono politicamente defunto…”.
Ed a chi gli chiede un autografo si firma “Mussolini defunto”.
Il 19 agosto annota: “…la mia settimana di passione cominciò precisamente un mese fa con il mio incontro col Fuhrer a Feltre” e confessa: la previsione che “la Germania ci piantava in asso, e che dopo la conquista della Sicilia gli inglesi sarebbero arrivati…fino a Roma…accrebbe la tensione nervosa già prossima al collasso”.
E poi: “….Questa sarebbe dunque la mia posizione giuridica: ex capo del governo in stato di arresto protettivo contro la furia popolare!”.
Quindi un rimpianto:””Nella mia vita non ho mai avuto nessun amico, ma è meglio così perché in tal modo molta gente è esentata dal “compatirmi”, cioè dal “patire con me””; ed un pentimento:”…Povera Rachele! Quanta poca gioia le ho dato e quanti dolori. Durante trent’anni non una sola settimana di calma. Meritava forse un destino diverso e migliore che essere legata alla mia vita tempestosa”.
A proposito di donne scrive: ””….le donne non hanno mai esercitato la sia pur minima influenza sulla mia politica. Forse è stato uno svantaggio. Talvolta, grazie alla loro fine sensibilità, le donne sono più lungimiranti degli uomini””.
Infine:“ La massa è stata pronta, in tutte le epoche ad abbattere gli idoli di ieri anche a costo di pentirsene domani.. Ma nel mio caso non sarà così. Il sangue, l’infallibile voce del sangue mi dice che la mia stella è tramontata per sempre”.
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Tre giorni dopo la liberazione avvenuta a Campo Imperatore il 12 settembre 1943, Mussolini fonda, il 15 dello stesso mese, il Partito Fascista Repubblicano ordinando di “appoggiare efficacemente e cameratescamente l’Esercito germanico che si batte sul territorio italiano contro il comune nemico” e l’1 dicembre dello stesso anno proclama la nascita della RSI, la “Repubblica Sociale Italiana”.
Giovanni Zannini
SOMMERGIBILI PORTAEREI GIAPPONESI NELLA II GUERRA MONDIALE
SOMMERGIBILI PORTAEREI GIAPPONESI NELLA SECONDA GUERRA MONDIALE
L’innegabile ingegno dei tecnici giapponesi si manifestò nella 2° Guerra Mondiale anche con la costruzione di sommergibili che costituirono il mezzo più sofisticato prima dell’avvento dei sommergibili nucleari: i sommergibili-portaerei.
Si trattava di due categorie di grandi sommergibili “Sen Toku” aventi caratteristiche assai simili (dislocamento a nave vacante tonn.2.919, a pieno carico tonn.4150, l’una; tonn.2.589/3.654 l’altra; entrambe lunghezza oltre m.110 , equipaggio oltre 100 uomini, armati di un cannone, mitragliere anti-aeree, 6 tubi lanciasiluri - veri e propri incrociatori subacquei ) sui quali al centro del ponte veniva collocato un “hangar” capace di contenere la carlinga di un piccolo idrovolante con le ali ripiegabili.
Sopra di esso veniva installata la consueta torretta di comando: una struttura, quindi, che si elevava notevolmente in altezza e che dava certamente l’impressione di una torre navigante.
Giunto il momento dell’impiego, la carlinga veniva estratta dal suo abitacolo, le ali dispiegate e quindi l’aereo, scagliato da una catapulta, decollava.
L’aereo era un piccolo idrovolante da ricognizione “Yokosuka” categoria “Glen” con un equipaggio di uno o due uomini, lungo m.8,54, apertura alare m.11, velocità massima kmh 246, armato di una mitragliatrice da 7,7 millimetri, in grado di trasportare sulle ali due bombe da 70-80 chilogrammi.
Evidente la pericolosità di questa macchina da guerra in grado di avvicinarsi notevolmente, inosservata, al territorio nemico e quindi di lanciare l’aereo prima che la difesa contraerea si allarmasse; e se anche la modestia del materiale esplosivo trasportato rendeva l’offesa molto limitata, l’effetto doveva essere tuttavia soprattutto psicologico e influire negativamente sul morale della popolazione civile(si pensi alla paura provocata in Italia dalle incursioni del famoso “Pippo”).
Circa il suo impiego, è conosciuta l’operazione compiuta dal sommergibile I-25 alla fine di agosto 1942 contro il territorio statunitense in località Wheeler Ridge, 4 miglia a sud-est di Mount Emily sulla costa dell’Oregon.
Emerso a poca distanza da Capo Blanco il sottomarino lanciò l’aereo pilotato dal Ten.Fujta Nobuo con a bordo due bombe sub-alari al fosforo da 76 chilogrammi che vennero sganciate su di una fitta foresta incendiandola: terminata la missione, il velivolo venne recuperato senza problemi.
Oltre a ciò pare, ma non è certo, che lo stesso aereo abbia effettuato un secondo “raid” nell’Oregon, pur esso con risultati assai modesti: sta però di fatto che l’allarme provocato indusse gli americani a dislocare nella regione una squadriglia di aerei da caccia.
I danni arrecati in questo caso al nemico dall’impiego di sottomarini-portaerei furono assai limitati, ma l’effetto fu traumatico per gli americani che, sicuri dell’inattaccabilità del proprio territorio, si resero invece conto che anche la loro fortezza poteva essere violata: ed a guerra terminata i giapponesi riconobbero l’errore di non aver insistito maggiormente su tale tipo di offesa.
Bibliografia
E.ROSSLE = U-BOAT = F.lli Melita Editori – La Spezia 1993
ALBERTO ROSSELLI “Le operazioni dei sommergibili giapponesi lungo le coste occidentali statunitensi 1941/1942” – su Internet
L’innegabile ingegno dei tecnici giapponesi si manifestò nella 2° Guerra Mondiale anche con la costruzione di sommergibili che costituirono il mezzo più sofisticato prima dell’avvento dei sommergibili nucleari: i sommergibili-portaerei.
Si trattava di due categorie di grandi sommergibili “Sen Toku” aventi caratteristiche assai simili (dislocamento a nave vacante tonn.2.919, a pieno carico tonn.4150, l’una; tonn.2.589/3.654 l’altra; entrambe lunghezza oltre m.110 , equipaggio oltre 100 uomini, armati di un cannone, mitragliere anti-aeree, 6 tubi lanciasiluri - veri e propri incrociatori subacquei ) sui quali al centro del ponte veniva collocato un “hangar” capace di contenere la carlinga di un piccolo idrovolante con le ali ripiegabili.
Sopra di esso veniva installata la consueta torretta di comando: una struttura, quindi, che si elevava notevolmente in altezza e che dava certamente l’impressione di una torre navigante.
Giunto il momento dell’impiego, la carlinga veniva estratta dal suo abitacolo, le ali dispiegate e quindi l’aereo, scagliato da una catapulta, decollava.
L’aereo era un piccolo idrovolante da ricognizione “Yokosuka” categoria “Glen” con un equipaggio di uno o due uomini, lungo m.8,54, apertura alare m.11, velocità massima kmh 246, armato di una mitragliatrice da 7,7 millimetri, in grado di trasportare sulle ali due bombe da 70-80 chilogrammi.
Evidente la pericolosità di questa macchina da guerra in grado di avvicinarsi notevolmente, inosservata, al territorio nemico e quindi di lanciare l’aereo prima che la difesa contraerea si allarmasse; e se anche la modestia del materiale esplosivo trasportato rendeva l’offesa molto limitata, l’effetto doveva essere tuttavia soprattutto psicologico e influire negativamente sul morale della popolazione civile(si pensi alla paura provocata in Italia dalle incursioni del famoso “Pippo”).
Circa il suo impiego, è conosciuta l’operazione compiuta dal sommergibile I-25 alla fine di agosto 1942 contro il territorio statunitense in località Wheeler Ridge, 4 miglia a sud-est di Mount Emily sulla costa dell’Oregon.
Emerso a poca distanza da Capo Blanco il sottomarino lanciò l’aereo pilotato dal Ten.Fujta Nobuo con a bordo due bombe sub-alari al fosforo da 76 chilogrammi che vennero sganciate su di una fitta foresta incendiandola: terminata la missione, il velivolo venne recuperato senza problemi.
Oltre a ciò pare, ma non è certo, che lo stesso aereo abbia effettuato un secondo “raid” nell’Oregon, pur esso con risultati assai modesti: sta però di fatto che l’allarme provocato indusse gli americani a dislocare nella regione una squadriglia di aerei da caccia.
I danni arrecati in questo caso al nemico dall’impiego di sottomarini-portaerei furono assai limitati, ma l’effetto fu traumatico per gli americani che, sicuri dell’inattaccabilità del proprio territorio, si resero invece conto che anche la loro fortezza poteva essere violata: ed a guerra terminata i giapponesi riconobbero l’errore di non aver insistito maggiormente su tale tipo di offesa.
Bibliografia
E.ROSSLE = U-BOAT = F.lli Melita Editori – La Spezia 1993
ALBERTO ROSSELLI “Le operazioni dei sommergibili giapponesi lungo le coste occidentali statunitensi 1941/1942” – su Internet
25 LUGLIO 1943: MA QUALE COLPO DI STATO?
25 luglio 1943
MA QUALE COLPO DI STATO
Il parere oggi prevalente sugli avvenimenti del luglio 1943 è che essi abbiano rappresentato un colpo di stato, ossia un sovvertimento violento del potere allora esistente in Italia, il partito fascista di Benito Mussolini.
Vi è invece chi afferma che quanto accaduto si sia verificato legittimamente nel rispetto dei principi costituzionali in allora vigenti e secondo le norme che regolavano i tre organi costituzionali sui quali si basava lo stato fascista: la Corona, il Gran Consiglio del Fascismo ed il Presidente del Consiglio dei ministri.
Esaminiamoli brevemente, partitamene.
1) Al vertice dell’apparato statale la Corona era sopravvissuta alla tempesta fascista, e ad essa ogni funzionario civile e militare - comprese le autorità fasciste, dai componenti la milizia volontaria allo stesso Capo del Governo - prestava il giuramento di essere fedele adempiendo i doveri dell’ufficio “al solo scopo del bene inseparabile del Re e della Patria”.
“Il Re” , infatti, in base all’art.65 dello Statuto Albertino del 1848 sopravvissuto al regime costituzionale, a quello democratico ed ancora vigente in regime fascista, “nomina e revoca i suoi ministri”.
Un dualismo questo, sia detto per inciso, che differenziava il fascismo italiano dal nazismo tedesco ove, in mancanza di un organo similare alla Corona, tutti i titolari di pubblici poteri erano tenuti a giurare fedeltà solo ed esclusivamente al Fuhrer.
2)Il Gran Consiglio del Fascismo con la sua “costituzionalizzazione” avvenuta con legge 9 dicembre 1928 n.2693 aveva in pratica sostituito la Camera dei Deputati sull’assurdo presupposto che essendo composto dai vertici dell’organizzazione fascista (consiglieri nazionali delle corporazioni e del partito nazionale fascista) esso fosse nella pratica, al di là di ogni designazione popolare, lo specchio fedele della volontà dell’intera nazione italiana: con la pretesa, assurda, che fosse proprio il partito fascista a rappresentarla nella sua totalità..
Il Gran Consiglio era definito dalla precitata legge “Organo supremo che coordina ed integra tutte le attività del regime” ed i consiglieri avevano la possibilità, riconosciuta dal Regolamento approvato in Consiglio il 9 aprile 1929, di intervenire, esporre il proprio parere e votare sugli argomenti posti all’ordine del giorno da Benito Mussolini Capo del Governo e presidente del consiglio stesso.
Nel Gran Consiglio esisteva dunque, in testa ai vari consiglieri, la possibilità di dissentire dalla linea politica del Duce anche se in realtà, come vedremo, tale possibilità era solo apparente.
Discordi i pareri sul concreto utilizzo di tale facoltà da parte dei consiglieri durante tutta la vita del Gran Consiglio prima della drammatica seduta del 25 luglio 1943.
Se, infatti, da una parte Ciano affermava che “…Mussolini è un presuntuoso assolutista che non ha mai accettato consigli da nessuno” e la moglie Hedda, figlia del Duce, che “le sedute del Gran Consiglio erano state in generale un monologo di mio padre con tutti ad applaudirlo ed a complimentarsi alla fine”, dall’altra alcuni sono di diverso avviso, e fra questi il costituzionalista Livio Paladin il quale afferma che certe decisioni del Consiglio “sembrano essere in diversi casi il frutto di liberi e franchi dibattiti”, con la possibilità dunque che, nel suo interno, si verificassero maggioranze e minoranze.
3)Resta da dire - per completare l’esame del treppiede costituzionale esistente in Italia in regime fascista - del Capo del Governo titolare di un potere assoluto a lungo esercitato senza contrasti, moderato solo da quell’apparente (lo vedremo)residuo di democraticità sopravvissuto alla rivoluzione fascista: il potere di dissenso che egli aveva lasciato nelle mani dei membri del Gran Consiglio contando sulla loro assoluta e perpetua fedeltà.
Ed eccoci al 25 luglio 1943 che riepiloghiamo nella sua essenzialità.
Mussolini convoca il Gran Consiglio, pone in discussione l’ordine del giorno Grandi che “…invita il governo a pregare la maestà del Re…affinchè egli voglia assumere con l’effettivo comando delle forze armate di terra, di mare e dell’aria, secondo l’articolo 5 VEDERLO dello statuto del regno quella suprema iniziativa di decisione che le nostre istituzioni a lui attribuiscono e che sono sempre state in tutta la nostra storia nazionale il retaggio glorioso della nostra augusta dinastia di Savoia”, e lo pone in discussione: 19 consiglieri lo approvano, otto votano contro ed uno si astiene.
Presone atto, senza reazione alcuna né da parte sua né dei suoi fedelissimi, il giorno dopo Mussolini si reca dal Re che, in base al potere riconosciutogli dallo Statuto, gli revoca la nomina a Primo Ministro e nomina, al suo posto, il generale Pietro Badoglio.
E’ possibile, a questo punto, continuare a parlare di colpo di stato? Non lo crediamo.
Non fu un “golpe” sudamericano con sparatorie e spargimento di sangue: è vero, i consiglieri contrari a Mussolini si recarono all’assemblea con in tasca pistole e bombe a mano, ma solo per difendersi da eventuali suoi fanatici sostenitori desiderosi di impedire una manifestazione di volontà a lui contraria.
Non essendosi verificata nessuna aggressione, bombe a mano e pistole rimasero inattive.
Perché continuare a ripetere, allora, che vi fu congiura, quando il testo dell’ordine del giorno fu consegnato il 23 luglio dallo stesso Grandi a Mussolini il quale, dopo averlo criticato, concluse che se ne sarebbe riparlato l’indomani in Gran Consiglio?
A questo punto è necessario dare una giustificazione delle riserve più sopra elevate a proposito della democraticità solo apparente sopravvissuta, con il riconoscimento del diritto di voto dei consiglieri, in seno al Gran Consiglio.
Quel residuo cascame di democraticità era infatti inficiato - e sostanzialmente annullato - dalla norma dell’art.2 del suo regolamento in base al quale …”S.E. il Capo del Governo, Presidente del Gran Consiglio, ha facoltà di interrompere in ogni momento la discussione su qualsiasi questione e di sospendere l’esecuzione delle deliberazioni del Gran Consiglio”: un vero e proprio “diritto di veto” nelle mani di Mussolini.
Perché, allora, egli non se ne avvalse il 25 luglio 1943?
Agli storici la risposta.
L’opinione di chi scrive è che Mussolini, stressato dall’esercizio di un potere assoluto durato vent’anni, reso consapevole del suo fallimento dagli ultimi drammatici avvenimenti bellici (invasione della Sicilia) non avesse più il desiderio e la forza di affrontare i nuovi problemi che sarebbero derivati da un suo “veto”; e che abbia preferito percorrere la strada indicata dal Gran Consiglio per rimettersi in extremis, diciamo così, in carreggiata, sulla strada di quella democrazia a suo tempo combattuta e vilipesa, nella speranza di una sua uscita meno traumatica dal pantano in cui era andato a cacciarsi.
Che ne sarebbe stato infatti di lui se, una volta esonerato dal Re, non vi fossero stati gli avvenimenti ben noti, la sua liberazione da parte dei tedeschi e la nascita della Repubblica Sociale Italiana?
Stando a quanto afferma Mussolini, il 21 luglio il re gli avrebbe detto:”Sono brutti tempi per lei, ma sappia che lei ha un amico in me. E se, per assurda ipotesi, tutti dovessero abbandonarla, io sarei l’ultimo a farlo.So quanto l’Italia e la dinastia le debbono”.
E allora, il suo arresto ed i successivi trasferimenti in gran segreto, i pellegrinaggi a Ventotene, Ponza, La Maddalena e infine sul Gran Sasso, furono provvedimenti restrittivi, oppure presi per tutelare la sua incolumità e sottrarlo alle vendette della piazza ed ai tentativi di liberazione da parte dei tedeschi, in attesa di una corretta decisione sulla sua sorte?
Non dimentichiamo, a questo proposito, che Skorzeny (che aveva avuto da Hitler l’incarico di liberare Mussolini) era già arrivato sulle sue tracce alla Maddalena con un piano ben studiato che andò a monte solo per l’improvvisa ed imprevista partenza di un idrovolante della Croce Rossa con il quale Mussolini, ammarato nel lago di Bracciano, venne poi trasferito sul Gran Sasso.
La parola agli amanti di fantapolitica.
Giovanni Zannini25
MA QUALE COLPO DI STATO
Il parere oggi prevalente sugli avvenimenti del luglio 1943 è che essi abbiano rappresentato un colpo di stato, ossia un sovvertimento violento del potere allora esistente in Italia, il partito fascista di Benito Mussolini.
Vi è invece chi afferma che quanto accaduto si sia verificato legittimamente nel rispetto dei principi costituzionali in allora vigenti e secondo le norme che regolavano i tre organi costituzionali sui quali si basava lo stato fascista: la Corona, il Gran Consiglio del Fascismo ed il Presidente del Consiglio dei ministri.
Esaminiamoli brevemente, partitamene.
1) Al vertice dell’apparato statale la Corona era sopravvissuta alla tempesta fascista, e ad essa ogni funzionario civile e militare - comprese le autorità fasciste, dai componenti la milizia volontaria allo stesso Capo del Governo - prestava il giuramento di essere fedele adempiendo i doveri dell’ufficio “al solo scopo del bene inseparabile del Re e della Patria”.
“Il Re” , infatti, in base all’art.65 dello Statuto Albertino del 1848 sopravvissuto al regime costituzionale, a quello democratico ed ancora vigente in regime fascista, “nomina e revoca i suoi ministri”.
Un dualismo questo, sia detto per inciso, che differenziava il fascismo italiano dal nazismo tedesco ove, in mancanza di un organo similare alla Corona, tutti i titolari di pubblici poteri erano tenuti a giurare fedeltà solo ed esclusivamente al Fuhrer.
2)Il Gran Consiglio del Fascismo con la sua “costituzionalizzazione” avvenuta con legge 9 dicembre 1928 n.2693 aveva in pratica sostituito la Camera dei Deputati sull’assurdo presupposto che essendo composto dai vertici dell’organizzazione fascista (consiglieri nazionali delle corporazioni e del partito nazionale fascista) esso fosse nella pratica, al di là di ogni designazione popolare, lo specchio fedele della volontà dell’intera nazione italiana: con la pretesa, assurda, che fosse proprio il partito fascista a rappresentarla nella sua totalità..
Il Gran Consiglio era definito dalla precitata legge “Organo supremo che coordina ed integra tutte le attività del regime” ed i consiglieri avevano la possibilità, riconosciuta dal Regolamento approvato in Consiglio il 9 aprile 1929, di intervenire, esporre il proprio parere e votare sugli argomenti posti all’ordine del giorno da Benito Mussolini Capo del Governo e presidente del consiglio stesso.
Nel Gran Consiglio esisteva dunque, in testa ai vari consiglieri, la possibilità di dissentire dalla linea politica del Duce anche se in realtà, come vedremo, tale possibilità era solo apparente.
Discordi i pareri sul concreto utilizzo di tale facoltà da parte dei consiglieri durante tutta la vita del Gran Consiglio prima della drammatica seduta del 25 luglio 1943.
Se, infatti, da una parte Ciano affermava che “…Mussolini è un presuntuoso assolutista che non ha mai accettato consigli da nessuno” e la moglie Hedda, figlia del Duce, che “le sedute del Gran Consiglio erano state in generale un monologo di mio padre con tutti ad applaudirlo ed a complimentarsi alla fine”, dall’altra alcuni sono di diverso avviso, e fra questi il costituzionalista Livio Paladin il quale afferma che certe decisioni del Consiglio “sembrano essere in diversi casi il frutto di liberi e franchi dibattiti”, con la possibilità dunque che, nel suo interno, si verificassero maggioranze e minoranze.
3)Resta da dire - per completare l’esame del treppiede costituzionale esistente in Italia in regime fascista - del Capo del Governo titolare di un potere assoluto a lungo esercitato senza contrasti, moderato solo da quell’apparente (lo vedremo)residuo di democraticità sopravvissuto alla rivoluzione fascista: il potere di dissenso che egli aveva lasciato nelle mani dei membri del Gran Consiglio contando sulla loro assoluta e perpetua fedeltà.
Ed eccoci al 25 luglio 1943 che riepiloghiamo nella sua essenzialità.
Mussolini convoca il Gran Consiglio, pone in discussione l’ordine del giorno Grandi che “…invita il governo a pregare la maestà del Re…affinchè egli voglia assumere con l’effettivo comando delle forze armate di terra, di mare e dell’aria, secondo l’articolo 5 VEDERLO dello statuto del regno quella suprema iniziativa di decisione che le nostre istituzioni a lui attribuiscono e che sono sempre state in tutta la nostra storia nazionale il retaggio glorioso della nostra augusta dinastia di Savoia”, e lo pone in discussione: 19 consiglieri lo approvano, otto votano contro ed uno si astiene.
Presone atto, senza reazione alcuna né da parte sua né dei suoi fedelissimi, il giorno dopo Mussolini si reca dal Re che, in base al potere riconosciutogli dallo Statuto, gli revoca la nomina a Primo Ministro e nomina, al suo posto, il generale Pietro Badoglio.
E’ possibile, a questo punto, continuare a parlare di colpo di stato? Non lo crediamo.
Non fu un “golpe” sudamericano con sparatorie e spargimento di sangue: è vero, i consiglieri contrari a Mussolini si recarono all’assemblea con in tasca pistole e bombe a mano, ma solo per difendersi da eventuali suoi fanatici sostenitori desiderosi di impedire una manifestazione di volontà a lui contraria.
Non essendosi verificata nessuna aggressione, bombe a mano e pistole rimasero inattive.
Perché continuare a ripetere, allora, che vi fu congiura, quando il testo dell’ordine del giorno fu consegnato il 23 luglio dallo stesso Grandi a Mussolini il quale, dopo averlo criticato, concluse che se ne sarebbe riparlato l’indomani in Gran Consiglio?
A questo punto è necessario dare una giustificazione delle riserve più sopra elevate a proposito della democraticità solo apparente sopravvissuta, con il riconoscimento del diritto di voto dei consiglieri, in seno al Gran Consiglio.
Quel residuo cascame di democraticità era infatti inficiato - e sostanzialmente annullato - dalla norma dell’art.2 del suo regolamento in base al quale …”S.E. il Capo del Governo, Presidente del Gran Consiglio, ha facoltà di interrompere in ogni momento la discussione su qualsiasi questione e di sospendere l’esecuzione delle deliberazioni del Gran Consiglio”: un vero e proprio “diritto di veto” nelle mani di Mussolini.
Perché, allora, egli non se ne avvalse il 25 luglio 1943?
Agli storici la risposta.
L’opinione di chi scrive è che Mussolini, stressato dall’esercizio di un potere assoluto durato vent’anni, reso consapevole del suo fallimento dagli ultimi drammatici avvenimenti bellici (invasione della Sicilia) non avesse più il desiderio e la forza di affrontare i nuovi problemi che sarebbero derivati da un suo “veto”; e che abbia preferito percorrere la strada indicata dal Gran Consiglio per rimettersi in extremis, diciamo così, in carreggiata, sulla strada di quella democrazia a suo tempo combattuta e vilipesa, nella speranza di una sua uscita meno traumatica dal pantano in cui era andato a cacciarsi.
Che ne sarebbe stato infatti di lui se, una volta esonerato dal Re, non vi fossero stati gli avvenimenti ben noti, la sua liberazione da parte dei tedeschi e la nascita della Repubblica Sociale Italiana?
Stando a quanto afferma Mussolini, il 21 luglio il re gli avrebbe detto:”Sono brutti tempi per lei, ma sappia che lei ha un amico in me. E se, per assurda ipotesi, tutti dovessero abbandonarla, io sarei l’ultimo a farlo.So quanto l’Italia e la dinastia le debbono”.
E allora, il suo arresto ed i successivi trasferimenti in gran segreto, i pellegrinaggi a Ventotene, Ponza, La Maddalena e infine sul Gran Sasso, furono provvedimenti restrittivi, oppure presi per tutelare la sua incolumità e sottrarlo alle vendette della piazza ed ai tentativi di liberazione da parte dei tedeschi, in attesa di una corretta decisione sulla sua sorte?
Non dimentichiamo, a questo proposito, che Skorzeny (che aveva avuto da Hitler l’incarico di liberare Mussolini) era già arrivato sulle sue tracce alla Maddalena con un piano ben studiato che andò a monte solo per l’improvvisa ed imprevista partenza di un idrovolante della Croce Rossa con il quale Mussolini, ammarato nel lago di Bracciano, venne poi trasferito sul Gran Sasso.
La parola agli amanti di fantapolitica.
Giovanni Zannini25
14 sacerdoti baschi fucilati da Francisco Franco
I MARTIRI DELLA “EUSKAL HERRIA”
Nella storia della guerra civile spagnola iniziata nel luglio 1936
della quale si commemora dunque quest’anno il 70° anniversario, crea sconcerto e scandalo la fucilazione di 14 sacerdoti avvenuta a Vitoria, capitale dei Paesi Baschi, alla fine dell’ ottobre 1937 da parte dei nazionalisti del generale Francisco Franco.
Per comprendere le cause che portarono a tale sconcertante episodio occorre brevemente esaminare le vicende politiche spagnole dal 1931 al 1936 contrassegnate da un singolare “pendolo” che vide, in quegli anni turbolenti, la sinistra e la destra conquistare alternativamente il potere in Spagna.
Le elezioni del 1931 avevano visto la vittoria della sinistra (socialisti e repubblicani) e la nascita - nell’aprile dello stesso anno, dopo il volontario esilio del regnante Alfonso XIII - della 2a Repubblica Spagnola (la 1°, proclamata l’11 febbraio 1873 subito dopo l’abdicazione del re Amedeo di Savoia duca d’Aosta ebbe una vita effimera che si concluse con il ritorno sul trono spagnolo, nel 1874, di Alfonso XII, padre di Alfonso XIII).
Il programma della coalizione vincente prevedeva, accanto a quelle di natura sociale a favore delle classi più povere, anche riforme costituzionali con la concessione di autonomie alle regioni che da tempo le rivendicavano: per cui la nuova costituzione repubblicana approvata il 9 dicembre 1931 concesse ampi poteri amministrativi alla Catalogna, ai Paesi Baschi ed alla Galizia ottenendo in tal modo il favore di tali popolazioni, clero compreso, verso la sinistra.
Ma tale riforma venne aspramente criticata dagli ambienti conservatori e, soprattutto, militari, che vi vedevano un pericoloso attacco alla sacra unità della patria spagnola ed all’autorità dello stato centrale, argomenti, questi, cavalcati con enfasi dalla destra.
Cosicché quando tornò al potere con le elezioni del 1933 essa, per combattere l’asserita “ribellione separatista” si affrettò a smantellare le predette riforme attirandosi in tal modo l’ostilità ed il profondo risentimento delle regioni beneficiate dalla sinistra che insorsero contro il nuovo governo centrale di destra.
Lluis Companys capo degli autonomisti catalani proclamò, da Barcellona, l’indipendenza dello “Stato della Catalogna” entro l’auspicata Repubblica Federale di Spagna; e solo un graduale rientro nei ranghi dello stesso Companys resosi conto dell’imminente pericolo, evitò il verificarsi di una carneficina che il generale Franco, braccio armato del governo centrale, non avrebbe, in caso contrario, esitato a compiere.
Nei Paesi Baschi il popolo insorse spontaneamente ma alla fine, armato solo della dinamite delle miniere asturiane, dovette soccombere di fronte alla crudele reazione dello stesso generale Franco che con le sue truppe marocchine – i feroci “moros” – ed i legionari della Legione Straniera - il “Tercio de Extranjeros” – commise atrocità nefande.
Da quanto sopra emerge chiaramente - circostanza non sempre ben esplicitata – che l’insurrezione di Franco contro il legittimo governo uscito dalle urne del febbraio 1936 ebbe lo scopo di combattere non solo il comunismo rivoluzionario, ma pure il “separatismo” regionale considerato dai monarchici e dai militari un gravissimo attentato all’unità della patria spagnola.
Grave fu il rifiuto di Franco – “Nulla va concesso al nemico” - al consiglio di trovare una qualche intesa con i baschi pervenutogli, su ispirazione del Vaticano, dal Cardinale Isidro Gomà, Primate di Spagna.
E sua fu dunque la responsabilità di aver gettato Catalogna, Paesi Baschi e Galizia, regioni benestanti - rispetto al resto della Spagna - e cattoliche, nelle braccia della sinistra rivoluzionaria ed anticlericale.
Le rivolte autonomistiche ed i disordini che montavano in tutto il paese, furono i motivi che indussero il governo di destra ad indire nuove elezioni nel febbraio 1936 sperando – ma le speranze andarono, come si vedrà, deluse - in un esito elettorale che ne rafforzasse il potere.
Ancora una volta il pendolo elettorale oscillò e dalle urne emerse vittorioso il “Fronte popolare della sinistra unita” che restituì a Catalogna, Paesi Baschi e Galizia le autonomie soppresse dal precedente governo, ma che non riuscì a contrastare ripetute, gravissime violenze ed atti vandalici come reazione alla destra che aveva governato nei due anni precedenti definiti dai vincitori il “bienio negro”.
Il generale Francisco Franco trovò una giustificazione al suo ”alzamiento” del 17/18 luglio 1936 nell’incapacità del legittimo governo della sinistra di contrastare le spinte anarcoidi ed il caos provocato dalle sue frange estreme, perdendo così l’occasione storica di governare il paese con criteri di giustizia sociale in un ordinato regime di libertà.
Nella guerra civile che ne seguì si verificò una situazione analoga a quella di liberazione italiana del 43/45 allorchè molti partigiani cattolici – pur non condividendo la loro ideologia – si trovarono a combattere assieme ai comunisti uniti nella lotta per liberare l’Italia dai nazifascisti.
Allo stesso modo i baschi, con l’appoggio di molti loro sacerdoti, si trovarono a combattere fianco a fianco con comunisti ed anarchici contro Franco ma con un fine diverso: la strenua difesa dell’autonomia regionale basca, non già la vittoria del comunismo in Spagna.
A conferma, il favore del clero basco per la lotta autonomista contro il generale Franco è dimostrata dal fatto che proprio un sacerdote - padre Alberto de Onaindìa - ebbe durante la guerra civile spagnola l’incarico di agente diplomatico delle province basche a Parigi.
Inoltre, gli unici a non firmare una lettera collettiva con cui la gerarchia cattolica plaudeva all’”alziamento” di Franco, furono proprio il cardinale Francisco Vidal y Barraquer arcivescovo di Tarragona in Catalogna, e mons. Mateo Magica, vescovo di Vitoria, capitale delle Province Basche.
Del resto, ancor oggi molta parte del clero basco appoggia le istanze indipendentiste della regione: ed il fermo, avvenuto tempo fa da parte della polizia di due monaci benedettini con l’accusa, infondata, di essere favorevoli all’organizzazione terroristica dell’ETA (in realtà essi appoggiavano le istanze dell’ETA alle istituzioni europee affinché premano sul governo spagnolo per un’uscita negoziale dal conflitto) ne è un sintomo evidente.
Fu dunque la profonda ostilità contro il regionalismo basco a prevalere sul sentimento religioso del generale Franco che non esitò, in nome del mito dell’unità della patria spagnola, ad ordinare, dopo la caduta di Bilbao in mano nazionalista la fucilazione di 14 sacerdoti baschi rei non già di essere comunisti, ma di appoggiare la propria gente nella realizzazione di un sogno antico: l’autonomia della “Euskal Herria”, la patria basca.
Ma singolare - e triste – è il destino di quei 14 sacerdoti.
Mentre Giovanni Paolo II ha proclamato beati 250 martiri della guerra civile spagnola che hanno dato la vita a causa dell’odio dei repubblicani verso la religione cattolica – e altri processi di beatificazione sono ancora aperti – difficilmente pari onore toccherà ai 14 fucilati da Franco perché essi non si sacrificarono per la loro fede, ma per la militanza attiva nel movimento indipendentista basco ferocemente osteggiato dai nazionalisti spagnoli del generale Franco.
“Martiri” della patria basca, dunque, non “Martiri” della Chiesa Cattolica, per cui molto difficilmente coloro che ne esaltano il sacrificio saranno in grado di farli ascendere alla gloria degli altari.
Giovanni Zannini
I MARTIRI DELLA “EUSKAL HERRIA”
Nella storia della guerra civile spagnola iniziata nel luglio 1936
della quale si commemora dunque quest’anno il 70° anniversario, crea sconcerto e scandalo la fucilazione di 14 sacerdoti avvenuta a Vitoria, capitale dei Paesi Baschi, alla fine dell’ ottobre 1937 da parte dei nazionalisti del generale Francisco Franco.
Per comprendere le cause che portarono a tale sconcertante episodio occorre brevemente esaminare le vicende politiche spagnole dal 1931 al 1936 contrassegnate da un singolare “pendolo” che vide, in quegli anni turbolenti, la sinistra e la destra conquistare alternativamente il potere in Spagna.
Le elezioni del 1931 avevano visto la vittoria della sinistra (socialisti e repubblicani) e la nascita - nell’aprile dello stesso anno, dopo il volontario esilio del regnante Alfonso XIII - della 2a Repubblica Spagnola (la 1°, proclamata l’11 febbraio 1873 subito dopo l’abdicazione del re Amedeo di Savoia duca d’Aosta ebbe una vita effimera che si concluse con il ritorno sul trono spagnolo, nel 1874, di Alfonso XII, padre di Alfonso XIII).
Il programma della coalizione vincente prevedeva, accanto a quelle di natura sociale a favore delle classi più povere, anche riforme costituzionali con la concessione di autonomie alle regioni che da tempo le rivendicavano: per cui la nuova costituzione repubblicana approvata il 9 dicembre 1931 concesse ampi poteri amministrativi alla Catalogna, ai Paesi Baschi ed alla Galizia ottenendo in tal modo il favore di tali popolazioni, clero compreso, verso la sinistra.
Ma tale riforma venne aspramente criticata dagli ambienti conservatori e, soprattutto, militari, che vi vedevano un pericoloso attacco alla sacra unità della patria spagnola ed all’autorità dello stato centrale, argomenti, questi, cavalcati con enfasi dalla destra.
Cosicché quando tornò al potere con le elezioni del 1933 essa, per combattere l’asserita “ribellione separatista” si affrettò a smantellare le predette riforme attirandosi in tal modo l’ostilità ed il profondo risentimento delle regioni beneficiate dalla sinistra che insorsero contro il nuovo governo centrale di destra.
Lluis Companys capo degli autonomisti catalani proclamò, da Barcellona, l’indipendenza dello “Stato della Catalogna” entro l’auspicata Repubblica Federale di Spagna; e solo un graduale rientro nei ranghi dello stesso Companys resosi conto dell’imminente pericolo, evitò il verificarsi di una carneficina che il generale Franco, braccio armato del governo centrale, non avrebbe, in caso contrario, esitato a compiere.
Nei Paesi Baschi il popolo insorse spontaneamente ma alla fine, armato solo della dinamite delle miniere asturiane, dovette soccombere di fronte alla crudele reazione dello stesso generale Franco che con le sue truppe marocchine – i feroci “moros” – ed i legionari della Legione Straniera - il “Tercio de Extranjeros” – commise atrocità nefande.
Da quanto sopra emerge chiaramente - circostanza non sempre ben esplicitata – che l’insurrezione di Franco contro il legittimo governo uscito dalle urne del febbraio 1936 ebbe lo scopo di combattere non solo il comunismo rivoluzionario, ma pure il “separatismo” regionale considerato dai monarchici e dai militari un gravissimo attentato all’unità della patria spagnola.
Grave fu il rifiuto di Franco – “Nulla va concesso al nemico” - al consiglio di trovare una qualche intesa con i baschi pervenutogli, su ispirazione del Vaticano, dal Cardinale Isidro Gomà, Primate di Spagna.
E sua fu dunque la responsabilità di aver gettato Catalogna, Paesi Baschi e Galizia, regioni benestanti - rispetto al resto della Spagna - e cattoliche, nelle braccia della sinistra rivoluzionaria ed anticlericale.
Le rivolte autonomistiche ed i disordini che montavano in tutto il paese, furono i motivi che indussero il governo di destra ad indire nuove elezioni nel febbraio 1936 sperando – ma le speranze andarono, come si vedrà, deluse - in un esito elettorale che ne rafforzasse il potere.
Ancora una volta il pendolo elettorale oscillò e dalle urne emerse vittorioso il “Fronte popolare della sinistra unita” che restituì a Catalogna, Paesi Baschi e Galizia le autonomie soppresse dal precedente governo, ma che non riuscì a contrastare ripetute, gravissime violenze ed atti vandalici come reazione alla destra che aveva governato nei due anni precedenti definiti dai vincitori il “bienio negro”.
Il generale Francisco Franco trovò una giustificazione al suo ”alzamiento” del 17/18 luglio 1936 nell’incapacità del legittimo governo della sinistra di contrastare le spinte anarcoidi ed il caos provocato dalle sue frange estreme, perdendo così l’occasione storica di governare il paese con criteri di giustizia sociale in un ordinato regime di libertà.
Nella guerra civile che ne seguì si verificò una situazione analoga a quella di liberazione italiana del 43/45 allorchè molti partigiani cattolici – pur non condividendo la loro ideologia – si trovarono a combattere assieme ai comunisti uniti nella lotta per liberare l’Italia dai nazifascisti.
Allo stesso modo i baschi, con l’appoggio di molti loro sacerdoti, si trovarono a combattere fianco a fianco con comunisti ed anarchici contro Franco ma con un fine diverso: la strenua difesa dell’autonomia regionale basca, non già la vittoria del comunismo in Spagna.
A conferma, il favore del clero basco per la lotta autonomista contro il generale Franco è dimostrata dal fatto che proprio un sacerdote - padre Alberto de Onaindìa - ebbe durante la guerra civile spagnola l’incarico di agente diplomatico delle province basche a Parigi.
Inoltre, gli unici a non firmare una lettera collettiva con cui la gerarchia cattolica plaudeva all’”alziamento” di Franco, furono proprio il cardinale Francisco Vidal y Barraquer arcivescovo di Tarragona in Catalogna, e mons. Mateo Magica, vescovo di Vitoria, capitale delle Province Basche.
Del resto, ancor oggi molta parte del clero basco appoggia le istanze indipendentiste della regione: ed il fermo, avvenuto tempo fa da parte della polizia di due monaci benedettini con l’accusa, infondata, di essere favorevoli all’organizzazione terroristica dell’ETA (in realtà essi appoggiavano le istanze dell’ETA alle istituzioni europee affinché premano sul governo spagnolo per un’uscita negoziale dal conflitto) ne è un sintomo evidente.
Fu dunque la profonda ostilità contro il regionalismo basco a prevalere sul sentimento religioso del generale Franco che non esitò, in nome del mito dell’unità della patria spagnola, ad ordinare, dopo la caduta di Bilbao in mano nazionalista la fucilazione di 14 sacerdoti baschi rei non già di essere comunisti, ma di appoggiare la propria gente nella realizzazione di un sogno antico: l’autonomia della “Euskal Herria”, la patria basca.
Ma singolare - e triste – è il destino di quei 14 sacerdoti.
Mentre Giovanni Paolo II ha proclamato beati 250 martiri della guerra civile spagnola che hanno dato la vita a causa dell’odio dei repubblicani verso la religione cattolica – e altri processi di beatificazione sono ancora aperti – difficilmente pari onore toccherà ai 14 fucilati da Franco perché essi non si sacrificarono per la loro fede, ma per la militanza attiva nel movimento indipendentista basco ferocemente osteggiato dai nazionalisti spagnoli del generale Franco.
“Martiri” della patria basca, dunque, non “Martiri” della Chiesa Cattolica, per cui molto difficilmente coloro che ne esaltano il sacrificio saranno in grado di farli ascendere alla gloria degli altari.
Giovanni Zannini
LE MISSIONI MILITARI ALLLEATE NELLA RESISTENZA
LE MISSIONI MILITARI ALLEATE NELLA RESISTENZA
Le Missioni Militari Alleate furono lo strumento creato dagli Anglo-Americani durante la seconda guerra mondiale per consentire i collegamenti ed i soccorsi fra comandi alleati e formazioni clandestine che operavano contro i nazifascisti all’interno di nazioni sotto controllo tedesco .
In Italia, secondo una “Relazione Messe” considerata incompleta perché calcola solo le missioni inglesi ed italo-inglesi, ne operarono 96, di cui una cinquantina nella sola regione veneta.
Esse furono organizzate, in collaborazione con il “SIM” (Servizio Informazioni Militari del Comando dell’esercito italiano al seguito del re a Brindisi) , dagli inglesi dello “Special Operation Executive – SOE”; dagli americani dell’”Office of Strategic Service- OSS”; poche direttamente dal SIM, solo alcune dai francesi.
Erano per lo più miste, composte da 4 o 5 uomini, italiani ed alleati, civili e militari muniti di potenti radiotrasmittenti che si facevano paracadutare sulle formazioni partigiane o, altre volte, nel Veneto, le raggiungevano dopo essere sbarcate presso Chioggia da imbarcazioni o da idrovolanti ammarrati su “campi idro” avventurosamente organizzati.
Evidente il coraggio di chi, specie se straniero, provenendo da territorio italiano già liberato, accettava di raggiungere altre località italiane ancora occupate dai nazifascisti lanciandosi nottetempo su territori sconosciuti sommariamente segnalati, con il rischio di fallire l’obbiettivo e, come accaduto, essere catturati dal nemico, condividendo poi i gravissimi rischi della guerra partigiana in condizioni di netta inferiorità contro un nemico agguerrito e spietato.
I compiti affidati alle Missioni erano quelli di tenere via radio i collegamenti con gli alleati e con il comando dell’esercito italiano a Brindisi per fornire ogni genere di informazioni sulla cui base essi furono in grado di fondare i loro piani operativi, e di organizzare i rifornimenti aerei alle formazioni partigiane operanti nell’Italia occupata dai nazifascisti.
Oltre a ciò, condurre azioni di “commando” contro i nazifascisti per sabotare impianti militari, linee di collegamento ferroviario, ponti e strade; fornire assistenza a nuove “missioni” in arrivo, a piloti alleati abbattuti informando poi sulla loro sorte, e ad ex prigionieri alleati nei campi di concentramento italiani che si trovarono liberi dopo l’armistizio dell’8 settembre 1943, come, ad esempio, i 2300 che furono mantenuti, nonostante le scarsissime risorse, a cura della “Margot-Hollis”.
Fra quelle che operarono nel Veneto vanno ricordate, oltre ad essa, le inglesi “Missione Brietsche” ( capitano che operò sul Grappa in maniera deludente), “Missione Tilmann”(maggiore, destinato ad operare sul Cansiglio che non potè raggiungere perché vi era in corso un violento rastrellamento - noto scalatore scomparso, dopo la fine della guerra, sull ‘HiImalaya ), “Missione Freccia” (capomissione John Wilkinson), e la “MRS” (Marini Rocco Service) del SIM composta da 5 italiani: Ten. Renato Marini, copomissione, radiotelegrafisti i fratelli Angelo ed Elio Rocca, Mario Troncon e Giuseppe Repetti (o Peretti) .
Giovanni Zannini
LA RESISTENZA VENETA CONTRO I BOMBARDAMENTI INDISCRIMINATI ED IN DIFESA DELLE OPERE D’ARTE
La “Missione Margot-Hollis” (più precisamente denominata “Hollis”: “Margot” è il nome di battaglia del radiotelegrafista Dario Leli) diretta dall’Ing.Pietro Ferraro (“Antonio”)di Venezia è considerata dal Comando Alleato “una delle più importanti del nord-Italia“ grazie all’attività del gruppo C.I.S. – Collegamenti, Informazione, Sicurezza - da essa dipendente.
Soggette alla caccia dei radiogoniometri tedeschi che non davano tregua, le sue tre radiotrasmittenti furono costrette a continui spostamenti nel territorio del Veneto orientale , e per un certo periodo una di esse trasmise da Padova dall’abitazione dell’Ing.Marino Bertolini in via S.Tomaso n.2 fino a che, scoperta, fu circondata dagli uomini del famigerato maggiore Carità ed i suoi operatori si salvarono fortunosamente mentre la radiotrasmittente veniva posta in salvo nascosta in una carrozzina con sopra il figlioletto, spinta dalla moglie del Bertolini.
In proposito, il figlio di Dario Leli "Margot", Claudio, ci ha informato che il padre è stato decorato con medaglia d'Argento e ci ha inviato la foto della vecchia radio trasmittente - della quale si è sopra parlato - che custodisce tuttora gelosamente come preziosa reliquia.
Fra i collaboratori padovani vanno inoltre ricordati il dott. Luigi Amati residente in città in via Savonarola che organizzò il funzionamento tecnico delle radio nel Bellunese e nelle zone di Padova, Treviso e Venezia provvedendo alle riparazioni, al reperimento ed al trasporto dei materiali necessari, e Tranquillo Ugolani di Camposampiero che descrisse esattamente i depositi di munizioni tedeschi di Rossano e Noale poi distrutti a seguito delle informazioni da lui fornite.
L’attività svolta da questa Missione è documentata, presso l’archivio dell’Istituto Veneto per la storia della Resistenza, dalla raccolta delle “Carte Ferraro” contenente un gran numero di copie di messaggi radio spediti e ricevuti: e fra essi spiccano alcuni, come i seguenti, diretti agli alleati con il ripetuto invito ad evitare bombardamenti indiscriminati su centri abitati:”…… Padova notte 12 vasti danni città – danni stazione centrale non usata traffico – traffico ridotto est solo parco ferrovia Campodimarte aut deposito locomotive….”; “……Riesaminare opportunità bombardamenti soprattutto notturni et uso incendiarie su popolose et artistiche città Veneto – sinora nessun danno a tedeschi…..”.
Poi un pressante appello inviato direttamente a Nenni con il quale il Ferraro, di idee socialiste, teneva un filo diretto :” Per Nenni - Preghiamo partito et governo nazionale comunicare comando alleato (che) ultimi bombardamenti a massa imprecisi et con incendiarie su principali città Veneto causato danni enormi popolazione - distrutto insigni monumenti – notte 18 Vicenza distrutta Basilica Palladio et molti altri – notti precedenti Padova Basilica Sant’Antonio et Cappella Scrovegni massima opera Giotto danneggiati et salvi per caso – nessun obbiettivo militare est in zone bombardate – ……….assicurateci farete presente comando alleato con memorie dettagliate patrimonio arte civiltà storia……. – assicuriamo tedeschi usano piccole stazioni et strade et ponti periferici – loro depositi dispersi campagna – …….. pregate alleati tenere presente tragica situazione popolazione dopo un anno e mezzo di vera lotta contro i tedeschi e non aggravarla senza accertate decisive ragioni militari – attendiamo vostra risposta precisa non generica su risultati vostro intervento….”.
Sempre a questo proposito la Missione Italiana “M.R.S. – Marini- Rocco-Service” invia un altro pressante messaggio ai comandi alleati:” Bombardamenti città causano notevoli perdite fra popolazione favorendo adesioni propaganda fascista alt inoltre deflusso sfollati verso campagna ostacola assistenza prigionieri inglesi ivi nascosti et attività comitati alt Evitare tali risultati negativi consiglio attacchi at indispensabili obbiettivi in città da bassa quota mancando ovunque difesa contraerea alt “. E poi, ancora, un disperato appello:” Risulta che elementi irresponsabili chiesto bombardamento zona ospedaliera Padova non dare seguito richieste tale genere se non effettuate da questo comitato tramite questa radio alt”.
Concetto ribadito dal Ferraro nella relazione a Nenni in cui affermava che le informazioni “spesso errate e date con scarso senso di responsabilità” in base alle quali i bombardamenti venivano effettuati, “possono essere meglio fornite da noi”, aggiungendo altresì che i bombardamenti aerei con i quali si volevano colpire gli obbiettivi militari “possono essere molto meglio sostituiti spesso da nostra opera di sabotaggio”.
Oltre a ciò, negli ultimi giorni della guerra, con i tedeschi in fuga, la Missione “Margot-Hollis” segnala: ”Riferimento opere arte trafugate Firenze - per comando alleato Italia et sud Germania – urge avvertire tutte vostre truppe et comandi – molte moltissime ed importantissime opere arte Toscana sono at S.Leonardo in Passiria nord Merano in edificio vecchia pretura – primo evitate ogni azione aerea – secondo provvedete custodia immediata – terzo fate tutto il possibile perché qualche vostro reparto possa arrivare subito in queste località – quarto se trattative resa chiedete garanzia su questa situazione – tutto mondo arte cultura sarà grato vostro intervento”.
E poi ancora:” Biblioteca Hertziana di Roma et forse Istituto storia arte germanico di Firenze importantissimi per cultura italiana et per archivio fotografico opere arte italiana trovasi in una miniera di sale at Halle sud Salisburgo - est necessario presidiare la miniera”.
Emerge dunque dall’attività della “Margot-Hollis” la spiccata figura del suo capo, l’Ing. Pietro Ferraro (“Antonio”) - intellettuale veneziano, affermato manager gettatosi coraggiosamente in un’impresa di alto valore patriottico ed estremamente rischiosa per tornare poi, esaurito il suo compito, alla vita civile e professionale - che, pur nel pieno di una lotta dura e spietata, dimostrò il suo vivo interesse per l’arte che della guerra fu spesso, assieme agli uomini, vittima. Giovanni Zannini
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QUEI “LANCI” TANTO ATTESI
I messaggi inviati dalle Missioni Militari agli alleati ed al Quartier Generale italiano al seguito del re a Brindisi testimoniano la durezza della lotta dei partigiani italiani dopo l’8 settembre 1943, e ne danno una testimonianza viva e drammatica .
Armi: questa la pressante richiesta, per poter porre in grado uomini coraggiosi che spesso ne erano privi, di combattere il nemico nazifascista.
Eccone, fra tanti, uno, drammatico della Missione “M.R.S. – Marini Rocco Service”:”Zona Pasubio Asiago et Belluno perdurano accaniti combattimenti alt Tutti gruppi implorano dico implorano rifornimenti scopo continuare a combattere alt inflitte at nemico rilevanti perdite alt Tedeschi vogliono preparare loro linea resistenza su dette zone alt….. sarebbe utilissimo intervento aereo bassa quota aut lancio truppe paracadutisti alt Preghiamo ancora invio immediato rifornimenti et piano tedesco sarà sventato alt”. La “Margot-Hollis”, da parte sua, richiede “armi pesanti, viveri concentrati, “Sten” (nota:famoso mitra inglese), scarpe, mortai, munizioni fucile italiano 91” e ancora “…8 pistole 45, 3 pistole 32, munizioni…..silenziatori pistole”e segnala che “forze dislocate mon tagna abbisognano tutte mortai mitragliatrici pesanti qualche cannone anticarro leggero…” e così via.
Ma i lanci sono scarsi: perché? “….situazione militare europea ha reso difficile per noi disporre di aerei…”; “ ….dovuto all’azione di altri teatri europei est molto difficile poter disporre aerei per rifornimenti in Italia comunque faremo il massimo” rispondono i comandi alleati che devono aiutare anche i partigiani nei Balcani e in Polonia distraendo a fatica uomini e mezzi dai fronti principali della guerra.
L’arrivo dei rifornimenti di armi, munizioni, esplosivi, viveri, indumenti, denaro viene preannunciato alle formazioni partigiane da oscuri messaggi in codice dei comandi alleati ed italiani diffusi dalla BBC di Londra tipo “fiammifero acceso”, “il duce saluta Rina”, “i lupi vigilano attentamente”, “non ti lascerò”, mentre chi scrive ricorda con emozione “il muretto del ponte” annunciante un lancio sul Grappa alla Brigata “Italia Libera di Campocroce”.
Gli aiuti sono generalmente paracadutati, ma altre volte recapitati direttamente da piccoli aerei che atterrano con grave rischio dei piloti, di notte, su campi di fortuna segnalati con fuochi disposti in maniera convenzionale, stando bene attenti che non vi siano nazifascisti nei dintorni.
Ma non sempre gli appuntamenti vanno a buon fine: qualche volta, arrivati sul luogo stabilito fra mille pericoli, i soccorritori non vedono i segnali convenuti ed allora, dopo aver girato a lungo sull’obbiettivo, non resta loro che rientrare alla base piuttosto contrariati.
“Per l’amor di Dio” raccomandano perciò dai comandi alleati “assicurate ricezione aut sospendete detti campi alt Siamo circondati da piloti arrabbiatissimi et gli abbiamo promesso un miglioramento alt”.
Insomma, per gli amanti dei film e dei romanzi d’avventura, i messaggi scambiati durante la seconda guerra mondiale fra i partigiani italiani da una parte ed i comandi alleati ed italiani dall’altra, possono costituire una lettura stimolante. Con la differenza che mentre i film ed i romanzi sono frutto di fantasia, quei messaggi rappresentano una dura realtà ed i morti sono, purtroppo, veri. Giovanni Zannini
Le Missioni Militari Alleate furono lo strumento creato dagli Anglo-Americani durante la seconda guerra mondiale per consentire i collegamenti ed i soccorsi fra comandi alleati e formazioni clandestine che operavano contro i nazifascisti all’interno di nazioni sotto controllo tedesco .
In Italia, secondo una “Relazione Messe” considerata incompleta perché calcola solo le missioni inglesi ed italo-inglesi, ne operarono 96, di cui una cinquantina nella sola regione veneta.
Esse furono organizzate, in collaborazione con il “SIM” (Servizio Informazioni Militari del Comando dell’esercito italiano al seguito del re a Brindisi) , dagli inglesi dello “Special Operation Executive – SOE”; dagli americani dell’”Office of Strategic Service- OSS”; poche direttamente dal SIM, solo alcune dai francesi.
Erano per lo più miste, composte da 4 o 5 uomini, italiani ed alleati, civili e militari muniti di potenti radiotrasmittenti che si facevano paracadutare sulle formazioni partigiane o, altre volte, nel Veneto, le raggiungevano dopo essere sbarcate presso Chioggia da imbarcazioni o da idrovolanti ammarrati su “campi idro” avventurosamente organizzati.
Evidente il coraggio di chi, specie se straniero, provenendo da territorio italiano già liberato, accettava di raggiungere altre località italiane ancora occupate dai nazifascisti lanciandosi nottetempo su territori sconosciuti sommariamente segnalati, con il rischio di fallire l’obbiettivo e, come accaduto, essere catturati dal nemico, condividendo poi i gravissimi rischi della guerra partigiana in condizioni di netta inferiorità contro un nemico agguerrito e spietato.
I compiti affidati alle Missioni erano quelli di tenere via radio i collegamenti con gli alleati e con il comando dell’esercito italiano a Brindisi per fornire ogni genere di informazioni sulla cui base essi furono in grado di fondare i loro piani operativi, e di organizzare i rifornimenti aerei alle formazioni partigiane operanti nell’Italia occupata dai nazifascisti.
Oltre a ciò, condurre azioni di “commando” contro i nazifascisti per sabotare impianti militari, linee di collegamento ferroviario, ponti e strade; fornire assistenza a nuove “missioni” in arrivo, a piloti alleati abbattuti informando poi sulla loro sorte, e ad ex prigionieri alleati nei campi di concentramento italiani che si trovarono liberi dopo l’armistizio dell’8 settembre 1943, come, ad esempio, i 2300 che furono mantenuti, nonostante le scarsissime risorse, a cura della “Margot-Hollis”.
Fra quelle che operarono nel Veneto vanno ricordate, oltre ad essa, le inglesi “Missione Brietsche” ( capitano che operò sul Grappa in maniera deludente), “Missione Tilmann”(maggiore, destinato ad operare sul Cansiglio che non potè raggiungere perché vi era in corso un violento rastrellamento - noto scalatore scomparso, dopo la fine della guerra, sull ‘HiImalaya ), “Missione Freccia” (capomissione John Wilkinson), e la “MRS” (Marini Rocco Service) del SIM composta da 5 italiani: Ten. Renato Marini, copomissione, radiotelegrafisti i fratelli Angelo ed Elio Rocca, Mario Troncon e Giuseppe Repetti (o Peretti) .
Giovanni Zannini
LA RESISTENZA VENETA CONTRO I BOMBARDAMENTI INDISCRIMINATI ED IN DIFESA DELLE OPERE D’ARTE
La “Missione Margot-Hollis” (più precisamente denominata “Hollis”: “Margot” è il nome di battaglia del radiotelegrafista Dario Leli) diretta dall’Ing.Pietro Ferraro (“Antonio”)di Venezia è considerata dal Comando Alleato “una delle più importanti del nord-Italia“ grazie all’attività del gruppo C.I.S. – Collegamenti, Informazione, Sicurezza - da essa dipendente.
Soggette alla caccia dei radiogoniometri tedeschi che non davano tregua, le sue tre radiotrasmittenti furono costrette a continui spostamenti nel territorio del Veneto orientale , e per un certo periodo una di esse trasmise da Padova dall’abitazione dell’Ing.Marino Bertolini in via S.Tomaso n.2 fino a che, scoperta, fu circondata dagli uomini del famigerato maggiore Carità ed i suoi operatori si salvarono fortunosamente mentre la radiotrasmittente veniva posta in salvo nascosta in una carrozzina con sopra il figlioletto, spinta dalla moglie del Bertolini.
In proposito, il figlio di Dario Leli "Margot", Claudio, ci ha informato che il padre è stato decorato con medaglia d'Argento e ci ha inviato la foto della vecchia radio trasmittente - della quale si è sopra parlato - che custodisce tuttora gelosamente come preziosa reliquia.
Fra i collaboratori padovani vanno inoltre ricordati il dott. Luigi Amati residente in città in via Savonarola che organizzò il funzionamento tecnico delle radio nel Bellunese e nelle zone di Padova, Treviso e Venezia provvedendo alle riparazioni, al reperimento ed al trasporto dei materiali necessari, e Tranquillo Ugolani di Camposampiero che descrisse esattamente i depositi di munizioni tedeschi di Rossano e Noale poi distrutti a seguito delle informazioni da lui fornite.
L’attività svolta da questa Missione è documentata, presso l’archivio dell’Istituto Veneto per la storia della Resistenza, dalla raccolta delle “Carte Ferraro” contenente un gran numero di copie di messaggi radio spediti e ricevuti: e fra essi spiccano alcuni, come i seguenti, diretti agli alleati con il ripetuto invito ad evitare bombardamenti indiscriminati su centri abitati:”…… Padova notte 12 vasti danni città – danni stazione centrale non usata traffico – traffico ridotto est solo parco ferrovia Campodimarte aut deposito locomotive….”; “……Riesaminare opportunità bombardamenti soprattutto notturni et uso incendiarie su popolose et artistiche città Veneto – sinora nessun danno a tedeschi…..”.
Poi un pressante appello inviato direttamente a Nenni con il quale il Ferraro, di idee socialiste, teneva un filo diretto :” Per Nenni - Preghiamo partito et governo nazionale comunicare comando alleato (che) ultimi bombardamenti a massa imprecisi et con incendiarie su principali città Veneto causato danni enormi popolazione - distrutto insigni monumenti – notte 18 Vicenza distrutta Basilica Palladio et molti altri – notti precedenti Padova Basilica Sant’Antonio et Cappella Scrovegni massima opera Giotto danneggiati et salvi per caso – nessun obbiettivo militare est in zone bombardate – ……….assicurateci farete presente comando alleato con memorie dettagliate patrimonio arte civiltà storia……. – assicuriamo tedeschi usano piccole stazioni et strade et ponti periferici – loro depositi dispersi campagna – …….. pregate alleati tenere presente tragica situazione popolazione dopo un anno e mezzo di vera lotta contro i tedeschi e non aggravarla senza accertate decisive ragioni militari – attendiamo vostra risposta precisa non generica su risultati vostro intervento….”.
Sempre a questo proposito la Missione Italiana “M.R.S. – Marini- Rocco-Service” invia un altro pressante messaggio ai comandi alleati:” Bombardamenti città causano notevoli perdite fra popolazione favorendo adesioni propaganda fascista alt inoltre deflusso sfollati verso campagna ostacola assistenza prigionieri inglesi ivi nascosti et attività comitati alt Evitare tali risultati negativi consiglio attacchi at indispensabili obbiettivi in città da bassa quota mancando ovunque difesa contraerea alt “. E poi, ancora, un disperato appello:” Risulta che elementi irresponsabili chiesto bombardamento zona ospedaliera Padova non dare seguito richieste tale genere se non effettuate da questo comitato tramite questa radio alt”.
Concetto ribadito dal Ferraro nella relazione a Nenni in cui affermava che le informazioni “spesso errate e date con scarso senso di responsabilità” in base alle quali i bombardamenti venivano effettuati, “possono essere meglio fornite da noi”, aggiungendo altresì che i bombardamenti aerei con i quali si volevano colpire gli obbiettivi militari “possono essere molto meglio sostituiti spesso da nostra opera di sabotaggio”.
Oltre a ciò, negli ultimi giorni della guerra, con i tedeschi in fuga, la Missione “Margot-Hollis” segnala: ”Riferimento opere arte trafugate Firenze - per comando alleato Italia et sud Germania – urge avvertire tutte vostre truppe et comandi – molte moltissime ed importantissime opere arte Toscana sono at S.Leonardo in Passiria nord Merano in edificio vecchia pretura – primo evitate ogni azione aerea – secondo provvedete custodia immediata – terzo fate tutto il possibile perché qualche vostro reparto possa arrivare subito in queste località – quarto se trattative resa chiedete garanzia su questa situazione – tutto mondo arte cultura sarà grato vostro intervento”.
E poi ancora:” Biblioteca Hertziana di Roma et forse Istituto storia arte germanico di Firenze importantissimi per cultura italiana et per archivio fotografico opere arte italiana trovasi in una miniera di sale at Halle sud Salisburgo - est necessario presidiare la miniera”.
Emerge dunque dall’attività della “Margot-Hollis” la spiccata figura del suo capo, l’Ing. Pietro Ferraro (“Antonio”) - intellettuale veneziano, affermato manager gettatosi coraggiosamente in un’impresa di alto valore patriottico ed estremamente rischiosa per tornare poi, esaurito il suo compito, alla vita civile e professionale - che, pur nel pieno di una lotta dura e spietata, dimostrò il suo vivo interesse per l’arte che della guerra fu spesso, assieme agli uomini, vittima. Giovanni Zannini
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QUEI “LANCI” TANTO ATTESI
I messaggi inviati dalle Missioni Militari agli alleati ed al Quartier Generale italiano al seguito del re a Brindisi testimoniano la durezza della lotta dei partigiani italiani dopo l’8 settembre 1943, e ne danno una testimonianza viva e drammatica .
Armi: questa la pressante richiesta, per poter porre in grado uomini coraggiosi che spesso ne erano privi, di combattere il nemico nazifascista.
Eccone, fra tanti, uno, drammatico della Missione “M.R.S. – Marini Rocco Service”:”Zona Pasubio Asiago et Belluno perdurano accaniti combattimenti alt Tutti gruppi implorano dico implorano rifornimenti scopo continuare a combattere alt inflitte at nemico rilevanti perdite alt Tedeschi vogliono preparare loro linea resistenza su dette zone alt….. sarebbe utilissimo intervento aereo bassa quota aut lancio truppe paracadutisti alt Preghiamo ancora invio immediato rifornimenti et piano tedesco sarà sventato alt”. La “Margot-Hollis”, da parte sua, richiede “armi pesanti, viveri concentrati, “Sten” (nota:famoso mitra inglese), scarpe, mortai, munizioni fucile italiano 91” e ancora “…8 pistole 45, 3 pistole 32, munizioni…..silenziatori pistole”e segnala che “forze dislocate mon tagna abbisognano tutte mortai mitragliatrici pesanti qualche cannone anticarro leggero…” e così via.
Ma i lanci sono scarsi: perché? “….situazione militare europea ha reso difficile per noi disporre di aerei…”; “ ….dovuto all’azione di altri teatri europei est molto difficile poter disporre aerei per rifornimenti in Italia comunque faremo il massimo” rispondono i comandi alleati che devono aiutare anche i partigiani nei Balcani e in Polonia distraendo a fatica uomini e mezzi dai fronti principali della guerra.
L’arrivo dei rifornimenti di armi, munizioni, esplosivi, viveri, indumenti, denaro viene preannunciato alle formazioni partigiane da oscuri messaggi in codice dei comandi alleati ed italiani diffusi dalla BBC di Londra tipo “fiammifero acceso”, “il duce saluta Rina”, “i lupi vigilano attentamente”, “non ti lascerò”, mentre chi scrive ricorda con emozione “il muretto del ponte” annunciante un lancio sul Grappa alla Brigata “Italia Libera di Campocroce”.
Gli aiuti sono generalmente paracadutati, ma altre volte recapitati direttamente da piccoli aerei che atterrano con grave rischio dei piloti, di notte, su campi di fortuna segnalati con fuochi disposti in maniera convenzionale, stando bene attenti che non vi siano nazifascisti nei dintorni.
Ma non sempre gli appuntamenti vanno a buon fine: qualche volta, arrivati sul luogo stabilito fra mille pericoli, i soccorritori non vedono i segnali convenuti ed allora, dopo aver girato a lungo sull’obbiettivo, non resta loro che rientrare alla base piuttosto contrariati.
“Per l’amor di Dio” raccomandano perciò dai comandi alleati “assicurate ricezione aut sospendete detti campi alt Siamo circondati da piloti arrabbiatissimi et gli abbiamo promesso un miglioramento alt”.
Insomma, per gli amanti dei film e dei romanzi d’avventura, i messaggi scambiati durante la seconda guerra mondiale fra i partigiani italiani da una parte ed i comandi alleati ed italiani dall’altra, possono costituire una lettura stimolante. Con la differenza che mentre i film ed i romanzi sono frutto di fantasia, quei messaggi rappresentano una dura realtà ed i morti sono, purtroppo, veri. Giovanni Zannini
L'uomo e la Bestia
L’uomo e la Bestia
“No, uomo, non mi avrai, non mi avrai..., non... mi avrai..., non...mi...avrai...”.
Il capriolo si trascinava penosamente , con il cuore che scoppiava, cadendo, rialzandosi, sbatacchiando a destra ed a manca contro i tronchi ed i bassi rami della boscaglia tante volte percorsa agile e scattante, pieno di quella vita che il piombo gli andava rubando; che toglieva, lentamente, la luce dai suoi occhi; che faceva colare a terra, dallo squarcio sul collo, il suo giovane sangue.
No, il suo corpo non sarebbe finito su mense traboccanti di vini, fra cantori ebbri e volgari; la sua gola non avrebbe sentito il freddo della lama che gli toglieva quel resto di vita che gli era rimasta addosso; il suo bel capo non avrebbe ornato la casa di chi non di fiori, di quadri o di specchi ama abbellirla, ma dei crani delle sue prede; ed il carnefice non avrebbe ostentato, a guisa di trofeo, il sangue della vittima schizzato sul fustagno della sua casacca.
E passo dopo passo, vincendo il dolore lancinante e la tentazione di arrendersi , di buttarsi a terra e di non pensare più a nulla in attesa del colpo di grazia, la meta si avvicinava: ancora pochi metri e ce l’avrebbe fatta.
Giunto sul ciglio della “Busa fonda” si fermò un attimo reggendosi, con uno sforzo supremo, sulle quattro zampe, a respirare, avidamente, per l’ultima volta l’aria pura dei suoi monti: poi si lasciò andare librandosi per un attimo, assaporando l’ebbrezza del volo, prima di toccare il fondo dell’abisso.
- - - - - - -
“Ti fermerai, brutta bestia, non puoi farcela ancora per molto” pensava l’uomo mentre arrancava, sbuffando, sulla montagna, seguendo le tracce di sangue del capriolo che si facevano sempre più larghe.
Quella volta non gli era sfuggito: dopo essere stato più volte beffato dall’animale che pareva farsi gioco di lui, l’aveva infine sorpreso nell’attimo in cui, forse per eccesso di sicurezza (o per sfida?) aveva lasciato il bosco percorrendo un breve tratto di radura, allo scoperto: e ciò era bastato perché il vecchio cacciatore andasse a segno, ma non tanto da farlo stramazzare.
Così, l’inseguimento fra l’animale ferito e l’uomo era iniziato: e quando, fattosi più rado il bosco la vide sul ciglio del precipizio, il cacciatore, stremato e ansimante, non ce la fece a puntarla, per finirla, che già la bestia era scomparsa.
“Maledizione” pensò l’inseguitore “e mò chi lo piglia?”.
Il burrone che tagliava in due la montagna era stato formato dal torrente che ora scorreva sul fondo: nei secoli, la costanza dell’ acqua aveva avuto la meglio sulla roccia, e le due pareti si elevavano ora, alte e ripide, per un centinaio di metri.
L’uomo si affacciò sul baratro e vide, là sotto, l’animale privo di vita.
“Bella bestia” pensò, “venti chili di carne tenera, peccato perderla”.
Così, decise che avrebbe percorso il ripido sentiero scavato nella parete e, arrivato in fondo, caricata la preda sulle spalle, avrebbe seguito il corso del torrente fino alla strada e poco dopo sarebbe arrivato a casa.
Iniziò la discesa ma, giunto nel punto ove il sentiero era più ripido uno spuntone di roccia al quale si era aggrappato cedette, e fu un gran volo.
Ebbe la sensazione che non fosse lui ad avvicinarsi velocemente a terra, ma che fosse questa ad elevarsi, repentinamente, fino a lui: e giacque, con il cranio spaccato, a pochi metri dal capriolo.
Non morì subito: ebbe il tempo di guardarlo e di pensare che, alla fine, a farci una bella figura era proprio quella bestia nobile e fiera anche nella morte, il cui sangue, colato dalla ferita, lo rendeva simile ad un eroe caduto in battaglia.
Lui, invece, si trovava lì con mezzo cervello fuori, le gambe disarticolate scompostamente e le braccia distese come un Cristo in croce.
Pensò che quello aveva fatto una bella morte mentre di lui si sarebbe ricordato che era stato tratto in inganno da una pietra traditrice: e qualcuno, chissà, avrebbe pure detto che ci poteva stare più attento.
E tirando l’ultimo respiro, si rese conto di invidiarla, quella Bestia morta per salvare la sua dignità, mentre lui ci aveva lasciato ingloriosamente la pelle per venti chili di carne tenera. Giovanni Zannini
“No, uomo, non mi avrai, non mi avrai..., non... mi avrai..., non...mi...avrai...”.
Il capriolo si trascinava penosamente , con il cuore che scoppiava, cadendo, rialzandosi, sbatacchiando a destra ed a manca contro i tronchi ed i bassi rami della boscaglia tante volte percorsa agile e scattante, pieno di quella vita che il piombo gli andava rubando; che toglieva, lentamente, la luce dai suoi occhi; che faceva colare a terra, dallo squarcio sul collo, il suo giovane sangue.
No, il suo corpo non sarebbe finito su mense traboccanti di vini, fra cantori ebbri e volgari; la sua gola non avrebbe sentito il freddo della lama che gli toglieva quel resto di vita che gli era rimasta addosso; il suo bel capo non avrebbe ornato la casa di chi non di fiori, di quadri o di specchi ama abbellirla, ma dei crani delle sue prede; ed il carnefice non avrebbe ostentato, a guisa di trofeo, il sangue della vittima schizzato sul fustagno della sua casacca.
E passo dopo passo, vincendo il dolore lancinante e la tentazione di arrendersi , di buttarsi a terra e di non pensare più a nulla in attesa del colpo di grazia, la meta si avvicinava: ancora pochi metri e ce l’avrebbe fatta.
Giunto sul ciglio della “Busa fonda” si fermò un attimo reggendosi, con uno sforzo supremo, sulle quattro zampe, a respirare, avidamente, per l’ultima volta l’aria pura dei suoi monti: poi si lasciò andare librandosi per un attimo, assaporando l’ebbrezza del volo, prima di toccare il fondo dell’abisso.
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“Ti fermerai, brutta bestia, non puoi farcela ancora per molto” pensava l’uomo mentre arrancava, sbuffando, sulla montagna, seguendo le tracce di sangue del capriolo che si facevano sempre più larghe.
Quella volta non gli era sfuggito: dopo essere stato più volte beffato dall’animale che pareva farsi gioco di lui, l’aveva infine sorpreso nell’attimo in cui, forse per eccesso di sicurezza (o per sfida?) aveva lasciato il bosco percorrendo un breve tratto di radura, allo scoperto: e ciò era bastato perché il vecchio cacciatore andasse a segno, ma non tanto da farlo stramazzare.
Così, l’inseguimento fra l’animale ferito e l’uomo era iniziato: e quando, fattosi più rado il bosco la vide sul ciglio del precipizio, il cacciatore, stremato e ansimante, non ce la fece a puntarla, per finirla, che già la bestia era scomparsa.
“Maledizione” pensò l’inseguitore “e mò chi lo piglia?”.
Il burrone che tagliava in due la montagna era stato formato dal torrente che ora scorreva sul fondo: nei secoli, la costanza dell’ acqua aveva avuto la meglio sulla roccia, e le due pareti si elevavano ora, alte e ripide, per un centinaio di metri.
L’uomo si affacciò sul baratro e vide, là sotto, l’animale privo di vita.
“Bella bestia” pensò, “venti chili di carne tenera, peccato perderla”.
Così, decise che avrebbe percorso il ripido sentiero scavato nella parete e, arrivato in fondo, caricata la preda sulle spalle, avrebbe seguito il corso del torrente fino alla strada e poco dopo sarebbe arrivato a casa.
Iniziò la discesa ma, giunto nel punto ove il sentiero era più ripido uno spuntone di roccia al quale si era aggrappato cedette, e fu un gran volo.
Ebbe la sensazione che non fosse lui ad avvicinarsi velocemente a terra, ma che fosse questa ad elevarsi, repentinamente, fino a lui: e giacque, con il cranio spaccato, a pochi metri dal capriolo.
Non morì subito: ebbe il tempo di guardarlo e di pensare che, alla fine, a farci una bella figura era proprio quella bestia nobile e fiera anche nella morte, il cui sangue, colato dalla ferita, lo rendeva simile ad un eroe caduto in battaglia.
Lui, invece, si trovava lì con mezzo cervello fuori, le gambe disarticolate scompostamente e le braccia distese come un Cristo in croce.
Pensò che quello aveva fatto una bella morte mentre di lui si sarebbe ricordato che era stato tratto in inganno da una pietra traditrice: e qualcuno, chissà, avrebbe pure detto che ci poteva stare più attento.
E tirando l’ultimo respiro, si rese conto di invidiarla, quella Bestia morta per salvare la sua dignità, mentre lui ci aveva lasciato ingloriosamente la pelle per venti chili di carne tenera. Giovanni Zannini
NINNINA
N I N N I N A
Il grande cortile delle esercitazioni del Centro Addestramento Reclute (C.A.R.) di Palermo era delimitato per tre lati da alte mura, mentre il quarto era costituito da vecchie casette che sul davanti avevano la strada mentre, sul retro, davano direttamente sul piazzale sul quale era dunque possibile affacciarsi.
Ed ogni tanto appariva lei, Ninnina.
La finestra inquadrava un viso dolce circondato da capelli lunghi e neri, illuminato da due occhi sereni e le braccia ed il busto, ben torniti, di fanciulla diciottenne o giù di lì.
Nessuno dei soldati che si avvicendavano al C.A.R. sapeva chi fosse e come, in realtà, si chiamasse, ma essi le avevano dato quel nome che si tramandavano di corso in corso: e nei tre mesi di addestramento ogni recluta finiva per considerare Ninnina la sua fidanzata.
Il suo affacciarsi era dunque atteso e desiderato dai giovani che sentivano, talora, anche il canto della sua voce aggraziata.
L’atteggiamento era composto, dolce, amichevole, come se essa desiderasse offrire un’immagine di donna non provocante, ma serena ed affettuosa.
Quando le esercitazioni avvenivano poco distante dalla sua finestra, le reclute, ritenendosi osservate, ce la mettevano tutta per non far cattiva figura ai suoi occhi : e se, arrivando primo nella corsa, e volgendo lo sguardo verso l’alto, trovava affacciata Ninnina, ecco il vincitore inorgoglirsi, parendogli che la fanciulla lo guardasse compiaciuta; ed eccolo, invece, deluso ove la finestra fosse in quel momento vuota.
Nei momenti di riposo, approfittando dell’assenza dei superiori o della loro distrazione, accadeva talora che qualcuno si rivolgesse a lei con un rapido complimento, con un saluto affettuoso: ma se osava frasi rozze o, peggio, volgari, ecco i commilitoni insorgere a rimproverarlo e zittirlo, preoccupati che la serenità di Ninnina ne fosse turbata.
Un mattino venni incaricato di una commissione in città e poco dopo l’uscita dalla caserma mi trovai ad incrociare una giovane donna che si trascinava penosamente appoggiandosi ad un bastone: il suo cammino, vistosamente inceppato, denunciava una poliomielite o non so quale altro grave malanno.
Vedendola di lontano, notai subito in lei qualcosa di familiare e quando mi fu vicina la riconobbi: era Ninnina.
La sorpresa quasi mi paralizzò, ma, resomi conto della situazione, passandole accanto la guardai con occhio distratto per dimostrarle di non essermi accorto di nulla mentre avevo, invece, capito tutto.
Nell’attimo in cui lei incrociò il suo sguardo con il mio, colsi un’espressione di smarrimento, come di animale sorpreso fuori dalla sua tana: la sicurezza che in quell’ora del mattino le reclute fossero tutte all’interno della caserma l’aveva indotta, imprudentemente, ad uscire di casa.
Scopersi così il suo segreto: Ninnina che forse mai era stata oggetto di attenzioni maschili aveva trovato conforto alla sua femminilità tradita in quella finestra che esibiva di lei la parte più bella e desiderabile, nascondendo nel contempo l’altra atrocemente deturpata.
E capii che era certamente una consolazione per lei lo stare al centro dell’attenzione di quei giovani che l’amavano discretamente, da lontano, e che lei ripagava con un’immagine di femminilità dolce e familiare, godendo nel contempo di quell’ammirazione che ogni donna desidera avere e che a lei era invece crudelmente negata.
- - - - - - -
Rientrato in caserma “Ho incontrato Ninnina” dissi ai compagni.
“Com’è, tutta intera?” mi chiesero, incuriositi.
“Molto bella”, risposi.
E così il mito di Ninnina, la fanciulla bruna, la fidanzata immaginaria delle reclute del C.A.R. di Palermo, rimase intatto.
Giovanni Zannini
Pubblicato su:”La Nuova Tribuna Letteraria”
Il grande cortile delle esercitazioni del Centro Addestramento Reclute (C.A.R.) di Palermo era delimitato per tre lati da alte mura, mentre il quarto era costituito da vecchie casette che sul davanti avevano la strada mentre, sul retro, davano direttamente sul piazzale sul quale era dunque possibile affacciarsi.
Ed ogni tanto appariva lei, Ninnina.
La finestra inquadrava un viso dolce circondato da capelli lunghi e neri, illuminato da due occhi sereni e le braccia ed il busto, ben torniti, di fanciulla diciottenne o giù di lì.
Nessuno dei soldati che si avvicendavano al C.A.R. sapeva chi fosse e come, in realtà, si chiamasse, ma essi le avevano dato quel nome che si tramandavano di corso in corso: e nei tre mesi di addestramento ogni recluta finiva per considerare Ninnina la sua fidanzata.
Il suo affacciarsi era dunque atteso e desiderato dai giovani che sentivano, talora, anche il canto della sua voce aggraziata.
L’atteggiamento era composto, dolce, amichevole, come se essa desiderasse offrire un’immagine di donna non provocante, ma serena ed affettuosa.
Quando le esercitazioni avvenivano poco distante dalla sua finestra, le reclute, ritenendosi osservate, ce la mettevano tutta per non far cattiva figura ai suoi occhi : e se, arrivando primo nella corsa, e volgendo lo sguardo verso l’alto, trovava affacciata Ninnina, ecco il vincitore inorgoglirsi, parendogli che la fanciulla lo guardasse compiaciuta; ed eccolo, invece, deluso ove la finestra fosse in quel momento vuota.
Nei momenti di riposo, approfittando dell’assenza dei superiori o della loro distrazione, accadeva talora che qualcuno si rivolgesse a lei con un rapido complimento, con un saluto affettuoso: ma se osava frasi rozze o, peggio, volgari, ecco i commilitoni insorgere a rimproverarlo e zittirlo, preoccupati che la serenità di Ninnina ne fosse turbata.
Un mattino venni incaricato di una commissione in città e poco dopo l’uscita dalla caserma mi trovai ad incrociare una giovane donna che si trascinava penosamente appoggiandosi ad un bastone: il suo cammino, vistosamente inceppato, denunciava una poliomielite o non so quale altro grave malanno.
Vedendola di lontano, notai subito in lei qualcosa di familiare e quando mi fu vicina la riconobbi: era Ninnina.
La sorpresa quasi mi paralizzò, ma, resomi conto della situazione, passandole accanto la guardai con occhio distratto per dimostrarle di non essermi accorto di nulla mentre avevo, invece, capito tutto.
Nell’attimo in cui lei incrociò il suo sguardo con il mio, colsi un’espressione di smarrimento, come di animale sorpreso fuori dalla sua tana: la sicurezza che in quell’ora del mattino le reclute fossero tutte all’interno della caserma l’aveva indotta, imprudentemente, ad uscire di casa.
Scopersi così il suo segreto: Ninnina che forse mai era stata oggetto di attenzioni maschili aveva trovato conforto alla sua femminilità tradita in quella finestra che esibiva di lei la parte più bella e desiderabile, nascondendo nel contempo l’altra atrocemente deturpata.
E capii che era certamente una consolazione per lei lo stare al centro dell’attenzione di quei giovani che l’amavano discretamente, da lontano, e che lei ripagava con un’immagine di femminilità dolce e familiare, godendo nel contempo di quell’ammirazione che ogni donna desidera avere e che a lei era invece crudelmente negata.
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Rientrato in caserma “Ho incontrato Ninnina” dissi ai compagni.
“Com’è, tutta intera?” mi chiesero, incuriositi.
“Molto bella”, risposi.
E così il mito di Ninnina, la fanciulla bruna, la fidanzata immaginaria delle reclute del C.A.R. di Palermo, rimase intatto.
Giovanni Zannini
Pubblicato su:”La Nuova Tribuna Letteraria”
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