martedì 19 aprile 2011

Mussolini e l'opposizione

QUANDO MUSSOLINI SI COSTRUI’ L’OPPOSIZIONE

Molti i i ripensamenti provocati in Mussolini dalla drammatica esperienza del 25 luglio 1943 che segnò la fine del fascismo, diremo così, classico, e l’inizio di un breve periodo di fascismo repubblicano (spregiativamente detto repubblichino) che si potrebbe definire “riformato”.

In sostanza egli tentò di immettere in quest’ultimo le idee originarie del fascismo aggiornandole e depurandole contemporaneamente dai molti errori del ventennio. Ed ecco, mentre riaffiorano memorie del vecchio passato socialista, come la socializzazione, prendere corpo anche aperture verso l’odiata democrazia.

Sentiamo, ad esempio, cosa diceva il Duce a proposito dell’opposizione in regime democratico, in un discorso pronunciato il 26 maggio 1927 e quindi in pieno regime fascista trionfante:” … L’opposizione non è necessaria al funzionamento di un sano regime politico. L’opposizione è stolta, superflua in un regime totalitario come è il regime fascista…L’opposizione l’abbiamo in noi, cari signori: noi non siamo dei vecchi ronzini che hanno bisogno di essere pungolati. Noi controlliamo severamente noi stessi. L’opposizione sopra tutto noi la troviamo nelle cose, nelle difficoltà obbiettive, nella vita la quale ci dà una vasta montagna di opposizioni che potrebbe esaurire spiriti anche superiori al mio. Quindi nessuno speri che, dopo questo discorso, si vedranno dei giornalisti antifascisti, no; o che si permetterà la resurrezione di gruppi antifascisti : neppure…In Italia non c’è posto per gli antifascisti: c’è posto solo per i fascisti e gli afascisti, quando siano dei cittadini probi ed esemplari”.

Ma lo “shok” della caduta del 25 luglio e le meditazioni durante la prigionia sul Gran Sasso, gli hanno evidentemente, dopo la liberazione dei parà di Otto Skorzeny, fatto mutare parere in proposito come ricordato da Silvio Bertoldi in un articolo sul Corriere della Sera del 30 gennaio 1995 dal titolo “Repubblichini d’opposizione”.

Ricorda infatti l’autore che negli ultimi mesi della Repubblica di Salò Mussolini, alla disperata ricerca di nuove aperture che potessero convogliare simpatie verso la neonata repubblica, pensò, o gli venne suggerito dal Ministro dell’Educazione Nazionale Biggini, di autorizzare la formazione di un partito di opposizione a quello fascista repubblicano. Fu così che il 14 febbraio 1945 l’Agenzia Stefani annunciò che il Duce aveva concesso ad un gruppo di cittadini l’autorizzazione a costituire il “Raggruppamento Nazionalsocialista Repubblicano” avente lo scopo di esercitare responsabile opera di critica sugli atti del governo e dell’amministrazione . Si chiarirà poi che c’era stato un errore di comunicazione: non “Nazionalsocialista”, ma solo “Socialista”, anche se qualcuno ha pensato ad un errore volontario per tranquillizzare i perplessi e allarmati nazisti tedeschi. Dunque, un dittatore che si crea l’opposizione per dare alla sua dittatura un sia pur piccolo “fumus” democratico facendosela in casa: insomma, un inedito regime di “dittatura democratica” cui i cultori di diritto costituzionale non avevano sino ad allora pensato.

La creazione del nuovo raggruppamento fu affidato ad un personaggio che non aveva di sicuro le migliori qualità per dargli lustro e affidamento: tal Edmondo Cione, napoletano, professore di filosofia vissuto all’ombra di Benedetto Croce, soprannominato con fine spirito partenopeo, “O vaccariello”, il vitellino che sta sempre all’ombra della mucca e va dove va lei. L’uomo, antifascista, riavvicinatosi a Mussolini dopo l’armistizio dell’8 settembre 1943 che considera un tradimento, si affanna a reperir collaboratori ma con scarsissimo successo , dato che alla fine riesce a racimolarne solo quattro che con lui fanno cinque per costituire l’ossatura del nuovo nato "Raggruppamento" che viene dotato anche di un organo di stampa dal nome ampolloso, “L’Italia del Popolo” con la pretesa di rinnovare i fasti di quello vero di Giuseppe Mazzini. Il primo numero esce il 28 marzo 1945 e l’ultimo il successivo 10 aprile perché il Duce ne ha fatto sospendere la pubblicazione, poi però, ci ripensa e ne fa uscire altri due il 24 e il 25 aprile: quindi, il totale fa 17 e non può non stupire che Mussolini, in piena “bagarre”, e con l’acqua alla gola, trovasse ancora il tempo di pensare ad una simile pagliacciata.

Com’ è andata a finire per Mussolini lo sappiamo: ma “O vaccariello”? Scampato chi sa come agli eventi cruciali del dopo 25 aprile, e cambiato cavallo (per non dire mucca), riuscì ancora a combinare guai. Avendolo, infatti, imprudentemente messo in lista a Napoli nelle elezioni amministrative del 1960 in funzione anti Achille Lauro, la Democrazia Cristiana subì una grave emorragia di iscritti scandalizzati dal fatto che il partito avesse consentito ad un ex fascista irriducibile con passato repubblichino di ripararsi all’ombra onorata dello scudo crociato.

Giovanni Zannini

La guerra sottomarina nella seconda guerra mondiale. Lupi tedeschi e Garibaldini italiani

Sommergibili italiani in Atlantico nella 2° guerra mondiale.
LUPI TEDESCHI E GARIBALDINI ITALIANI

Il 10 giugno 1939 si tenne a Friedrichshafen sul lago di Costanza in Germania una riunione fra gli stati maggiori delle marine italiana e  tedesca  ed in tale occasione  il Grand’Amm.Erik Raeder  comandante in capo della flotta tedesca chiese se la Marina Italiana sarebbe stata disponibile a partecipare alla prevista guerra sottomarina in Atlantico. 
L’Amm.Domenico Cavagnari, Capo di Stato Maggiore della nostra marina, dichiarò che l’Italia allo scoppio della guerra avrebbe inviato  propri sommergibili in Atlantico per combattere fianco a fianco con  quelli tedeschi.  
Scoppiata la guerra, i tedeschi pretesero il rispetto di quell’impegno che gli italiani onorarono inviando tra la fine del 1940  ed i primi mesi del 1941 32 sommergibili che, superato il doppio ostacolo delle terribili correnti che rendevano improba la navigazione nello stretto di Gibilterra (superata brillantemente senza alcun incidente)  e dell’occhiuta,  ma  inefficace  sorveglianza della marina inglese, raggiunsero la base denominata “Betasom” sede del Comando delle forze italiane subacquee  in Atlantico sorta in Francia a Bordeaux.
Eccone l’elenco,  e tra parentesi l’anno di costruzione.
“Archimede” (1939); “Argo” (1936); ”Bagnolini” (1939); “Baracca” (1940); “Barbarigo” (1938); “Bianchi” (1939); ”Brin” (1938); “Cagni” (1940”; “Calvi” (1935); “Cappellini” (1939); “Dandolo” (1937); “Da Vinci” (1939); ”Emo” (1938);”Faà di Bruno” ( 1939); ”Ferraris”(1934); “Finzi” (1935); ”Giuliani” (1939); “Glauco”(1935); ”Guglielmotti” (1938); “Malaspina” (1940”; “Marcello” (1937); “Marconi” (1939);  “Mocenigo” (1937); “Morosini” (1938); “Nani” (1938); “Otaria”(1935); “Perla” (1936); “ Tarantini” (1940); “ “Tazzoli” (1936); “Torelli” (1940); “Velella “ (1936); “Veniero” (1938).
Di questi,  i seguenti  16 furono affondati o dispersi: “Calvi”, “Tarantini”, “Glauco”, “Marcello”, “Nani”, “Barbarigo”, “Faà di Bruno”, “Morosini”, “Tazzoli”, “Malaspina”, “Baracca”, “Bianchi”, “Marconi”, “Da Vinci”, “Archimede”, “Ferraris”.
Altri 10 rientrarono in Mediterraneo verso la fine del 1941 per scortare i convogli dall’Italia all’Africa settentrionale e viceversa: “Argo”, “Velella”, “Otaria”, “Dandolo”, “Veniero”, “Mocenigo””Emo”, “Brin”,”Guglielmotti”, “Perla”.
Gli altri, il “Cagni”, il “Torelli”, il “Giuliani”, il “Cappellini”, il “Finzi” ed il “Bagnolini”,  rimasti a Betasom e trasformati in sommergibili da trasporto per i collegamenti con l’alleato Giappone,  vennero in maniera diversa coinvolti nell’armistizio fra Italia ed alleati dell’8 settembre 1943.
Il “Cagni”, partito per il Giappone, appresa la notizia in navigazione il 20 settembre 1943, si consegnava agli inglesi nel porto britannico di Durban (Sud-Africa).
Il “Torelli”, il Giuliani” ed il “Cappellini”, che avevano raggiunto la base giapponese di Singapore accolti con tutti gli onori, vennero dopo l’8 settembre sequestrati dai giapponesi ed i loro equipaggi rinchiusi in terribili campi di prigionia.
Il “Finzi” ed il “Bagnolini”, che erano rimasti a Betasom, dopo armistizio furono catturati alla banchina dai tedeschi.


Il primo contatto fra sommergibilisti  italiani e tedeschi non fu certamente incoraggiante.
 Giulio Raiola,  nel suo “Timoni a salire” – Ed.Mursia 1978 – scrive che Mario Leoni, comandante del “Malaspina” giunto per primo a Betasom,  sceso dal battello si trova di fronte  “un personaggio alto, secco, grandi orecchie, naso aguzzo, labbra sottili, un uomo all’apparenza secco e distaccato” che dopo aver attentamente osservato le strutture del sommergibile italiano, senza preamboli, ed indicando la torretta , gli chiede:”Lei va per mare con quell’affare? Pare un castello. Si può buttar giù?”. Ed alla risposta dell’ufficiale italiano che non lo crede possibile,  sentenzia:”Così finirete in malora anche voi come tanti altri vostri colleghi”.
Quell’uomo era l’Amm.Karl Doenitz, comandante della flotta sottomarina germanica, e le sue parole
riflettevano il parere dei tedeschi sulle caratteristiche costruttive dei nostri sommergibili rispetto ai loro.
I sommergibili italiani, costruiti in un arco di tempo brevissimo prima dell’inizio della guerra e che costituirono una delle più numerose  - se non la più numerosa – flotta di sommergibili (113)  all’inizio del conflitto, erano stati costruiti per un tipo di guerra sottomarina considerato dai tedeschi  ormai superato.
Si trattava in prevalenza di una specie di “incrociatori sottomarini” di grosso tonnellaggio dotati di grande autonomia ma piuttosto lenti, poco maneggevoli, armati di potente artiglieria , vere navi subacquee  destinate alla “guerra di corsa”  in mari lontani, a ricercare e colpire naviglio nemico isolato con iniziative individuali.  Insomma, una  filosofia di guerra sottomarina d’ispirazione garibaldina – Garibaldi, l’eroe venuto dal mare – riflettente anche qui l’ individualismo italiano desideroso di agire senza limitazioni alla propria libertà d’azione e   che avrebbe ottenuto  risultati ancora migliori  ove il comando tedesco dai quali dipendevano operativamente i  nostri sottomarini  nella base di Betasom  li avesse impiegati in maniera diversa.
Scrive infatti a questo proposito Giulio Raiola nell’opera succitata che, a suo avvviso, i successi dei  grandi sottomarini italiani  sarebbero stati assai maggiori  ove  fossero stati lasciati liberi di operare nel modo loro più congeniale in acque ove, all’inizio della guerra,  il naviglio nemico non godeva ancora di adeguata protezione, e non, come avvenne,  nella lotta ai convogli Anglo-americani  nel nord-Atlantico  tra il parallelo 58° 20’ N ed il 51° 00’ N  e tra i meridiani 20° W e 27° W,  più vicino alle coste scozzesi,  ad occidente della zona operativa tedesca.
La tattica di combattimento  degli U-boot  fino a che gli avversari non adottarono adeguate contromisure, era invece quella del “branco di lupi” (già collaudata nella  prima guerra mondiale) che prevedeva l’attacco di sottomarini agili e veloci  in grado di individuare i convogli avversari, di seguirli pazientemente  attendendo il momento più favorevole per l’attacco,  e quindi scatenare  bordate di siluri che  raramente mancavano il bersaglio.
Gli innegabili successi ottenuti dai nostri sommergibili  in Atlantico – 101 navi affondate per complessive 569.000 tonnellate  - vennero però considerati  inadeguati in confronto a quelli  tedeschi  e verso la fine del 1942 non più in grado di affrontare missioni offensive.
Per questo, a partire da tale periodo e nei primi mesi del 1943, i comandi italiano e tedesco si accordarono per  trasformarli, data la loro maggiore capienza,  in unità da trasporto sulle lunghe distanze, in inediti “sommergibili-cargo” destinati a stabilire i collegamenti, divenuti impossibili per via aerea o con naviglio di superfice, con il lontano alleato Giappone.
 Argomento, questo,  certamente degno di ulteriore approfondimento.
                                                                                                                                               Giovanni Zannini                                                           

lunedì 18 aprile 2011

Mazzini e "Rerum Novarum"

LA “RERUM NOVARUM”  E  GIUSEPPE MAZZINI
Sono  impressionanti  (in senso positivo)  le consonanze in materia sociale fra il pensiero di Leone XIII e quello di Giuseppe Mazzini  del quale la storia del Risorgimento italiano  ha più volte evidenziato i contrasti con il papato sotto il pontificato del suo coevo  Pio IX.
Anche se, per la verità,  Mazzini non era  ostile al  Papa Pio IX  in quanto capo della  cattolicità, ma quale capo dello stato pontificio con capitale Roma che si opponeva alla completa unità dell’Italia.
Non aveva infatti  esitato  a rivolgersi con fiducia a lui nel 1847 allorchè quel pontefice  aveva assunto un atteggiamento riformista in contrasto con l’assolutismo di altri  stati italiani ed europei,  giungendo al punto di  inviare nel 1848 le proprie truppe (gli “Svizzeri”) in appoggio a Carlo Alberto di Savoia nella prima guerra d’Indipendenza contro l’Austria: e solo quando il Papa, forse timoroso di uno scisma in Austria, mutò atteggiamento deludendo le aspettative dei patrioti, ne divenne fiero avversario.
Per motivi soprattutto politici, dunque, anche se in materia religiosa permanevano dissensi  in quanto, considerandosi un “cristiano senza chiesa” avversava la gerarchia ecclesiastica la struttura sorta attorno alla chiesa cattolica. Seguace del pensiero etico-religioso del filosofo e storico francese Saint Simon (1760-1825), riteneva che allo scopo di realizzare una civiltà fondata sul lavoro occorreva  dedicarsi anzitutto al miglioramento  delle condizioni  materiali e morali della “classe più numerosa e più povera”. Egli credeva  in un principio superiore,  in un  Dio di verità e di giustizia  che  non si identificava  con quello tradizionale cattolico,  ma con un Dio universale che si manifesta attraverso il Popolo (suo il motto “Dio e Popolo”) per cui la nazione deve considerarsi come “un’operaia al servizio di Dio”, ossia al servizio dell’umanità.  Religiosità, democrazia e nazione sono per lui una cosa sola, e gli italiani avrebbero sentito  nascere in se stessi sentimenti di solidarietà e dignità necessari per una rinascita solo se avessero avuto quella fede.
Ma  nonostante  tale differenza sui principi,  i  pensieri di Mazzini in materia sociale vennero a coincidere, sorprendentemente, con quelli  poi consacrati da Leone XIII  nella “Rerum Novarum”.
Fu egli infatti fiero avversario del suo contemporaneo Carlo Marx (il  “Manifesto del partito comunista” è del 1848) il cui materialismo contestò con accese polemiche, contrapponendosi  alla violenza rivoluzionaria della lotta di classe ed al suo materialismo ateo.  
Affermò la necessità della collaborazione fra capitale e lavoro auspicando  (sulla scia del messaggio certamente rivoluzionario per allora, ma pacifico, lasciato nel 1825 da Sain-Simon nel suo “Nuovo cristianesimo”)  che nell’industria la retribuzione del “produttore”  (così  egli chiama l’operaio) fosse proporzionata alle prestazioni da esso fornite per la formazione del prodotto: concetto sostenuto nel periodico ”Apostolato Popolare”  fondato da Mazzini a Londra nel 1840, il cui sottotitolo portava:”Libertà, Eguaglianza, Umanità, Indipendenza, Dio e Popolo, Lavoro e frutto proporzionato”.
Sostenne che l’uomo avrebbe potuto fruire dei suoi diritti solo dopo aver esercitato i propri doveri verso lo stato  da considerare come uno di famiglia al quale vanno  dunque riservate  l’amore e le cure  necessarie (“I doveri dell’Uomo” – 1860); ispirò nel 1864 un “”Patto di fratellanza fra “società operaie”” che rappresentò la nascita del movimento operaio democratico attorno ad un programma moderato ed interclassista; predicò l’esigenza di una forte educazione morale dell’operaio; esaltò i valori della famiglia con parole degne d’essere riportate tal quali in qualsiasi manuale di dottrina cattolica, criticando quanti si opponevano alla sua sacralità ed alla sua durata nel tempo.
Principi  sostenuti  per tutta la  vita  da Giuseppe Mazzini (n.1805-m.1872), poi accolti e sviluppati da Leone XIII (n.1810 – m.1903 – eletto Papa nel 1878 alla morte di Pio IX) nella  famosa enciclica “Rerum Novarum” dedicata alla “De conditione opificum” (Sulla condizione degli operai ) datata 15 maggio 1891.     
 Ma allora,   Leone XIII “copiò” da Mazzini? Non diciamo sciocchezze.
Nella realtà il Papa, per contrastare la spinta rivoluzionaria ed atea del materialismo marxiano, dopo aver fatto il punto sulla situazione sociale del suo tempo  attinse  dalla cultura   di cattolici  come Antonio Rosmini e Giuseppe Toniolo, ma non solo, tutti gli spunti  ritenuti più utili per contestare gli errori ed indicare nel contempo  alla società la via da seguire sulle orme del cristianesimo.
Ed è fuor di dubbio  che il contributo dato dal pensiero sociologico di  Mazzini alla costruzione della  “Rerum Novarum”  di Leone XIII , fu, sicuramente, assai importante.
                                                                                                                                     Giovanni  Zannini 


    

  

  

Quel veleno di Mazzini

QUEL VELENO DI MAZZINI

Mazzini teorico del Risorgimento,  che incita i patrioti all’azione, che si rivolge con  lettere infuocate d’amor patrio a personaggi illustri (perfino a Pio IX!),  ma che sta alla larga dall’Italia nel suo “buen ritiro” londinese circondato da  donne illustri che stravedono per lui?
Questa critica che da più parti  anche insospettabili  - come  quel Felice Orsini, l’attentatore a Napoleone III,  che lo ammirava ma che poi mutò parere – viene rivolta a Mazzini, è ingiusta perché dimentica che, oltre a studiare,  suscitare e guidare da lontano moti rivoluzionari tutti  (occorre dirlo, fallimentari)  egli non esitò, quando possibile,   a scendere in campo.          
A cominciare dal 1834 in occasione della spedizione che, partendo dal territorio svizzero, intendeva invadere la Savoia - facente parte, allora, del Regno di Sardegna  - per provocare una sollevazione contro i  Savoia ed instaurare la Repubblica, il sogno della sua vita.
Per  realizzare il piano Mazzini si era affidato  a Gerolamo Ramorino,   un discusso generale che  non aveva mai vinto una battaglia e  che aveva partecipato nel 1830/31 alla rivolta polacca contro la Russia: un uomo che dopo tante sconfitte e comportamenti  scorretti si riabilitò alla fine  con una morte coraggiosa allorchè,  passato al servizio del Regno di Sardegna, accusato di essere stato la causa della sconfitta di Novara nella 1° Guerra d’indipendenza del 1848,  e condannato a morte, comandò lui stesso il plotone d’esecuzione.                         
Dopo aver dilapidato all’estero i fondi raccolti da Mazzini  per finanziare l’impresa, giunse  in  Svizzera  il 27 gennaio 1834  e si mise alla testa dei  rivoltosi, una specie di brigata internazionale  composta in gran parte da esuli polacchi che si era tirato dietro. Ma,  trovatosi di fronte  gli  svizzeri che gli sbarravano la strada verso il confine con l’Italia per impedirgli di violarlo,   non trovò soluzione migliore che  ordinare coraggiosamente  “sciogliete le righe” e poi darsela a gambe lasciando tutti nei pasticci. In particolare Mazzini, che faceva parte della colonna, e  che si era disperatamente dato da fare per evitare l’esito disastroso dell’impresa,  preso da un collasso nervoso, svenne ( “Non vidi più cosa alcuna  – scriverà poi  - gli occhi mi s’ appannarono e caddi in preda al delirio”)  e si trovò, al risveglio prigioniero in una caserma controllato a vista dai gendarmi svizzeri.
In questa occasione emerge un particolare:  il commilitone Giuseppe Lamberti  sa che Mazzini ha con sé una dose di veleno e sospetta che il malessere dell’amico dipenda  dall’averlo egli assunto per la disperazione causata dal fallimento dell’impresa. Non fu così, ma che il Mazzini si portasse addosso del  veleno   - forse per servirsene  in circostanze estreme -  è  confermata da lui stesso nella lettera  che  il 25 febbraio 1834, poco tempo dopo  il fallimento dell’impresa, scrive a Giuditta Sidoli, il vero unico, tormentato amore di Giuseppe Mazzini.
Egli dunque, nel riaffermarle con parole appassionate i suoi sentimenti , le racconta quanto lo avesse fatto soffrire, nel trambusto della fallita spedizione, la supposta  perdita di un suo ricordo che gli è immensamente caro. “….Avevo perduto   – scrive -  il tuo piccolo medaglione ; qualcuno me l’aveva portato via, nei momenti della disfatta, insieme coll’abito e con un po’ di veleno che tenevo con me”. Ma poi quel medaglione l’aveva ritrovato, e ne è felice.
 Mazzini e il suicidio: ecco un aspetto della sua vita  che varrebbe la pena esplorare.
E  come, evocando il Mazzini d’azione, non ricordarlo allorchè nel 1849, fra le cannonate, Triumviro con Saffi e Armellini, è alla testa della  gloriosa sia pur breve Repubblica Romana difesa da Garibaldi,  alla quale ispira  una Costituzione che è tuttora un esempio di scienza giuridica e di saggezza civile?
O quando, nel 1870, vecchio  e malato – morirà due anni dopo  - ma non  domo,  scende, ancora una volta, senza successo,  in Sicilia, con il folle intento  di ripetere l’impresa di  Garibaldi:  mettersi  alla testa di ardenti patrioti,  risalire la penisola e liberare Roma?   
Mazzini, è vero,  non sempre  partecipò  direttamente ai numerosi moti da lui ispirati, ma ciò non per  il desiderio  di ricoprire un ruolo esclusivamente  di comando o, peggio, per mancanza di coraggio: ma  perché ( costretto all’esilio da due condanne a morte decretategli  dal governo piemontese, ed  inseguito, quale pericoloso rivoluzionario, dalle polizie di mezza Europa)  fu nell’impossibilità di parteciparvi, pronto, ove occorresse, ad usare quel  veleno  che fu il fedele compagno nel  triste viaggio della sua vita.                                                                                                                                  

                                                                                                            Giovanni  Zannini
  



Le "armi segrete" di Radetsky

LE “ARMI SEGRETE” DI RADETZKY

Il progresso, purtroppo, funziona sia nel bene che nel male, e produce    scoperte che recano beneficio all’umanità (pensiamo ai farmaci che salvano tante vite), ma anche quelle che arrecano  invece  lutti, distruzioni e morte, come le armi.
E la fiorente (e maledetta) industria che le produce, è sempre alla ricerca di nuove e micidiali da opporre al nemico che, a sua volta, si affanna a trovarne altre  migliori (ossia che ammazzino di più e meglio).
E vi è anche, in proposito, la tecnica di far sapere al nemico, per impensierirlo e mettergli paura,  di essere in possesso   di armi segrete nuove  ed afficacissime  che ne determineranno la sconfitta: basti pensare alle “armi segrete” di Hitler (i razzi V1 e V2), più volte preannunciate,  che al loro apparire  provocarono un innegabile subbuglio nei suoi avversari, oppure al famoso  “Raggio della morte” di cui  favoleggiavano  i fascisti durante l’ultima guerra mondiale, e che avrebbe dovuto colpire gli aerei  nemici in volo bloccandone i motori.
Anche nel 1849, in occasione dell’assedio di  Venezia ove era sorta la  Repubblica di S.Marco difesa da  Daniele Manin, gli austriaci inaugurarono un nuovo  strumento di guerra  (ben descritto  in un interessante studio di Alberto Rosselli  su  “Google”   dal titolo  “Il primo tentativo di bombardamento aereo della storia – Venezia 2 luglio 1849)”, che purtroppo accelerò  la sconfitta dei  pur eroici assediati, colti di sorpresa ed in molti casi  dal panico.
Uno strumento, come si vedrà,  tutto da sperimentare e dagli  esiti diretti  molto modesti, ma che indubbiamente influì negativamente sul morale dei combattenti e della popolazione civile veneziani.
Il  giovane  colonnello d’artiglieria Benno Uchatius  dello stato maggiore austro-ungarico, resosi conto che il sia pur martellante bombardamento d’artiglieria non riusciva a costringere alla resa i valorosi difensori – fra i quali si distinse il padovano Alberto Cavalletto - ebbe dunque l’idea di costruire dei palloni aerostatici  in grado di trasportare esplosivo da far cadere dall’alto sulle loro teste.  Molte le soluzioni adottate:  inizialmente, la più semplice, consistente in un pallone sul quale veniva caricata una bomba che, raggiunto il cielo sopra Venezia,   grazie ad un particolare congegno – forse una reazione chimica a tempo -  si sganciava  dal supporto che la tratteneva e  precipitava nella  sottostante città.  Furono  sperimentati  anche  una mongolfiera con pilota a bordo per poter  manovrare  in qualche modo  sull’obbiettivo, ed anche  gruppi di palloni  uniti gli uni agli altri con corde  ritenendo che in tal modo fosse più facile  dirigerli: ma la mancanza di qualsiasi mezzo di propulsione propria e l’essere affidati   esclusivamente  ai venti ed alle correnti che ci si sforzava di studiare  con i pochi mezzi disponibili all’epoca, decretò il fallimento della sperimentazione. Tuttavia, le cronache riportano che se alcune bombe caddero in acqua, fra lo scherno dei veneziani,  altre colpirono però il Lido e  Mestre senza gravi  danni ma provocando paura e preoccupazione.
Per il timore che gli attacchi dall’aria potessero ripetersi,  gli assediati  pensarono allora (e qui la cosa assumerebbe toni decisamente  umoristici se non si trattasse di guerra) di organizzare una “difesa anti-aerea” mediante il lancio di razzi muniti di ganci destinati a tranciare i cavi che collegavano i palloni gli uni agli altri, o con  “palloni intercettori” in grado di posizionarsi sopra la formazione nemica e calare lunghe funi con in cima degli ancorotti, sempre allo scopo di tranciare le funi di collegamento , e quindi scompaginare quelle singolari formazioni aeree che noi oggi  chiameremmo  “squadriglie” (sia pure di palloni).           
Ma non sarebbe stato più semplice  mirare contro i voluminosi involucri degli aerostati, anziché accanirsi contro le sottili corde che li tenevano insieme?
                                                                                                    Giovanni  Zannini