QUEL VELENO DI MAZZINI
Mazzini teorico del Risorgimento, che incita i patrioti all’azione, che si rivolge con lettere infuocate d’amor patrio a personaggi illustri (perfino a Pio IX!), ma che sta alla larga dall’Italia nel suo “buen ritiro” londinese circondato da donne illustri che stravedono per lui?
Questa critica che da più parti anche insospettabili - come quel Felice Orsini, l’attentatore a Napoleone III, che lo ammirava ma che poi mutò parere – viene rivolta a Mazzini, è ingiusta perché dimentica che, oltre a studiare, suscitare e guidare da lontano moti rivoluzionari tutti (occorre dirlo, fallimentari) egli non esitò, quando possibile, a scendere in campo.
A cominciare dal 1834 in occasione della spedizione che, partendo dal territorio svizzero, intendeva invadere la Savoia - facente parte, allora, del Regno di Sardegna - per provocare una sollevazione contro i Savoia ed instaurare la Repubblica, il sogno della sua vita.
Per realizzare il piano Mazzini si era affidato a Gerolamo Ramorino, un discusso generale che non aveva mai vinto una battaglia e che aveva partecipato nel 1830/31 alla rivolta polacca contro la Russia: un uomo che dopo tante sconfitte e comportamenti scorretti si riabilitò alla fine con una morte coraggiosa allorchè, passato al servizio del Regno di Sardegna, accusato di essere stato la causa della sconfitta di Novara nella 1° Guerra d’indipendenza del 1848, e condannato a morte, comandò lui stesso il plotone d’esecuzione.
Dopo aver dilapidato all’estero i fondi raccolti da Mazzini per finanziare l’impresa, giunse in Svizzera il 27 gennaio 1834 e si mise alla testa dei rivoltosi, una specie di brigata internazionale composta in gran parte da esuli polacchi che si era tirato dietro. Ma, trovatosi di fronte gli svizzeri che gli sbarravano la strada verso il confine con l’Italia per impedirgli di violarlo, non trovò soluzione migliore che ordinare coraggiosamente “sciogliete le righe” e poi darsela a gambe lasciando tutti nei pasticci. In particolare Mazzini, che faceva parte della colonna, e che si era disperatamente dato da fare per evitare l’esito disastroso dell’impresa, preso da un collasso nervoso, svenne ( “Non vidi più cosa alcuna – scriverà poi - gli occhi mi s’ appannarono e caddi in preda al delirio”) e si trovò, al risveglio prigioniero in una caserma controllato a vista dai gendarmi svizzeri.
In questa occasione emerge un particolare: il commilitone Giuseppe Lamberti sa che Mazzini ha con sé una dose di veleno e sospetta che il malessere dell’amico dipenda dall’averlo egli assunto per la disperazione causata dal fallimento dell’impresa. Non fu così, ma che il Mazzini si portasse addosso del veleno - forse per servirsene in circostanze estreme - è confermata da lui stesso nella lettera che il 25 febbraio 1834, poco tempo dopo il fallimento dell’impresa, scrive a Giuditta Sidoli, il vero unico, tormentato amore di Giuseppe Mazzini.
Egli dunque, nel riaffermarle con parole appassionate i suoi sentimenti , le racconta quanto lo avesse fatto soffrire, nel trambusto della fallita spedizione, la supposta perdita di un suo ricordo che gli è immensamente caro. “….Avevo perduto – scrive - il tuo piccolo medaglione ; qualcuno me l’aveva portato via, nei momenti della disfatta, insieme coll’abito e con un po’ di veleno che tenevo con me”. Ma poi quel medaglione l’aveva ritrovato, e ne è felice.
Mazzini e il suicidio: ecco un aspetto della sua vita che varrebbe la pena esplorare.
E come, evocando il Mazzini d’azione, non ricordarlo allorchè nel 1849, fra le cannonate, Triumviro con Saffi e Armellini, è alla testa della gloriosa sia pur breve Repubblica Romana difesa da Garibaldi, alla quale ispira una Costituzione che è tuttora un esempio di scienza giuridica e di saggezza civile?
O quando, nel 1870, vecchio e malato – morirà due anni dopo - ma non domo, scende, ancora una volta, senza successo, in Sicilia, con il folle intento di ripetere l’impresa di Garibaldi: mettersi alla testa di ardenti patrioti, risalire la penisola e liberare Roma?
Mazzini, è vero, non sempre partecipò direttamente ai numerosi moti da lui ispirati, ma ciò non per il desiderio di ricoprire un ruolo esclusivamente di comando o, peggio, per mancanza di coraggio: ma perché ( costretto all’esilio da due condanne a morte decretategli dal governo piemontese, ed inseguito, quale pericoloso rivoluzionario, dalle polizie di mezza Europa) fu nell’impossibilità di parteciparvi, pronto, ove occorresse, ad usare quel veleno che fu il fedele compagno nel triste viaggio della sua vita.
Giovanni Zannini
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