Giuseppe Mazzini morì a Pisa il 10 marzo 1872 nella casa (ove era giunto il 6 febbraio 1872 sotto il falso nome di dr.Brown) della patriota, scrittrice e filantropa Giannetta Nathan Rosselli, che condivideva le sue idee politiche ed alla quale era molto legato.
Solo pochi mesi prima, già sofferente, Mazzini viaggiava a bordo del postale Napoli-Palermo ove si era imbarcato sotto il falso nome di Harry Zammith e, appena giunta la nave in porto a Palermo, prima che potesse metter piede a terra, era stato arrestato da un Ispettore di Pubblica sicurezza.
Tradotto via mare per ordine di Giacomo Medici, governatore della Sicilia, nella fortezza di Gaeta venne rinchiuso nel padiglione di S.Maria, inizialmente sotto la responsabilità del comandante stesso del forte fino a che si ritenne, per maggior sicurezza, che la vigilanza del Mazzini fosse affidata prevalentemente all’Arma dei Carabinieri.
“Il prigioniero” si legge nel “Calendario Storico 1988” dell’Arma , “ fu consegnato al Capitano Giovanni Battista Cotta, coadiuvato, a sua volta, dal Tenente Pietro Malvezzi , da un maresciallo e da alcuni militari. I rapporti fra gli ufficiali e Mazzini furono subito ottimi: il patriota ricevette marcate prove di cortesia e gentilezza e, pur nei limiti di severe prescrizioni ministeriali, essi fecero del loro meglio per rendergli più sopportabile la solitudine, sia procurandogli libri e riviste, sia evitando di opporsi alle visite di Emilia Venturi, l’amica fedele di tanti anni, e di Carlotta Benettini, la devota popolana alla quale Mazzini era debitore per i sicuri rifugi ed i mezzi di scampo ricevuti durante la sua agitatissima vita”.
Ed ecco come la “Gazzetta Piemontese” del 16 agosto 1870 diede la notizia:” L’Apostolo del Risorgimento italiano, il banditore della fede repubblicana, l’incitatore delle rivoluzioni, è stato ieri (14) arrestato a Palermo e sopra una nave corazzata (si tratta della nave da guerra “Ettore Fieramosca” – ndr) tradotto a Gaeta, nella prediletta fortezza dei Borboni e dei Pontefici. E’ questo un grave avvenimento. L’Italia è anch’essa turbata da febbre di agitazione: da qualche tempo una recrudescenza di malattia repubblicana travaglia la Monarchia; bande armate scorazzano pei monti dell’Apennino ed in altri siti, e vennero annientati piuttosto dall’indifferenza del pubblico che dalla forza armata: i giornali politici popolari sono oggi dì sequestrati e posti sotto processo per offese al Re e voto repubblicano”.
Ma, tutto ciò premesso, Mazzini, in Sicilia, alla sua età (a quei tempi 67 anni erano molto, molto più di oggi), e male in salute, che ci andava a fare? Alcuni si limitato a dare l’informazione del suo viaggio a Palermo, altri aggiungono che esso aveva lo scopo di promuovere ivi un’insurrezione: ma, in tal caso, a che pro?
La risposta sta nel fatto che essendo da tempo nota l’intenzione del governo italiano di conquistare Roma con la forza per completare l’unità d’Italia, Mazzini voleva evitare ad ogni costo che ciò avvenisse per opera dell’odiata Monarchia, e si era impegnato in una lotta contro il tempo per poterlo fare lui stesso. Il suo viaggio a Palermo era dunque destinato ad organizzare un sollevamento in Sicilia, da cui iniziare la marcia verso il nord che avrebbe dovuto portarlo per primo alla liberazione di Roma: ma fu ancora una volta (a coronamento di una serie d’ insuccessi) perdente.
Innegabilmente egli aveva nell’isola (in particolare a Messina), un folto gruppo di seguaci come dimostrato dall’esito delle elezioni indette dal governo il 25 febbraio 1866 per eleggere i deputati al nuovo parlamento di Firenze divenuta nel 1865, a seguito della contrastata “Convenzione di Settembre” (che aveva provocato a Torino il 21 e 22 del mese una rivolta popolare repressa con 52 morti e 177 feriti), capitale d’Italia. Egli era candidato nel II Collegio di Messina (pur non avendo mai messo piede nell’isola, e questo, francamente, sorprende) e, pur non avendo avuto la possibilità di fare campagna elettorale perché esule a Londra, ottenne un gran successo (per allora), con 446 voti.
La sua elezione fu però immediatamente contestata, il 24 marzo, dalla Camera che aveva rilevato (ed è strano che non se ne fossero accorti prima, dato che Mazzini non era certamente un illustre sconosciuto) l’ ineleggibilità del candidato perchè sulla sua testa pendevano ben 2 condanne a morte comminate dall’allora Regno di Sardegna ( e dunque, secondo Mazzini, decadute) per congiura contro lo stato nel 1834 e per i moti di Genova nel 1857: senza contare quella del Tribunale di Parigi per l’asserita complicità in un attentato contro il grande alleato francese Luigi Napoleone. Due mesi dopo a seguito di tale annullamento si rifanno le elezioni, lui le vince, ma la Camera le annulla ancora, fino a che, alla terza votazione del 18/11, vinta anch’ essa da Mazzini, la Camera, finalmente, a seguito di un’amnistia che ha “purificato” la sua fedina penale, ratifica la nomina.
Ma, a questo punto, è Mazzini a rifiutarla perché, come scrive con una nobile lettera ai suoi elettori messinesi, essa è condizionata al suo giuramento allo Statuto Albertino (e, quindi, all’odiata Monarchia Sabauda) cui non vuole assolutamente sottostare, e sceglie, ancora una volta, l’esilio.
Ma il successo ottenuto genera in lui l’ennesima illusione che lo fa rientrare in Italia per raggiungere la Sicilia ove è certo di essere accolto a braccia aperta dai suoi fedeli elettori messinesi con i quali stava progettando da tempo questo “moto” e di poter, con essi e con quanti si sarebbero a lui uniti, muovere su Roma.
Ma sappiamo come andarono le cose.
Mentre è “ospite” del carcere militare di Gaeta ove è racchiuso dal 14 agosto 1870, gli giunge il 20 settembre la notizia tanto temuta: i bersaglieri di Cadorna sono arrivati a Roma, prima di lui.
Per solennizzare l’avvenimento, il 14 ottobre lo Stato gli apre le porte della fortezza, lo libera e lui, vecchio, malato e svuotato dall’energia rivoluzionaria che sola dava un senso alla sua vita, riprende la via dell’esilio londinese, sostando di sfuggita a Roma che trova “profanata dalla monarchia” prima di proseguire per Londra che lascerà poco dopo per raggiungere a Pisa l’ospitale dimora della Giannetta Nathan Rosselli.
Il sogno, ai limiti del patologico, di liberare Roma alla testa di un fantomatico drappello di ardenti siciliani, fu l’ultimo “moto” fallito di Mazzini, rivoluzionario ormai vecchio, stanco di una vita travagliata fatta di esili, di fughe e di nascondimenti per sottrarsi alla caccia di occhiute polizie di mezza Europa, di ripetute carcerazioni, e malato.
Esso conferma quanto fosse in lui radicato il senso del dovere messo al centro della propria vita “senza speranza di premio , senza calcoli di utilità”: conquistare Roma era suo dovere.
E questo egli perseguì fino all’ultimo respiro.
Giovanni Zannini