Malta ha costituito, per tutto il periodo risorgimentasle, un covo, un rifugio di patrioti mazziniani che nell’isola tramavano contro i Borboni o trovavano rifugio per sfuggire alle polizie dopo i moti organizzati da Mazzini nei vari stati pre-unitari.
Situata ad appena 94 chilometri dal punto più vicino della Sicilia, era la base ideale di partenza per partecipare alle congiure che i mazziniani ordivano nell’isola per abbattere i Borboni. Era questo, infatti, l’obbiettivo principale di Mazzini convinto che la liberazione dell’Italia avrebbe dovuto iniziare da sud con la sconfitta del Regno delle Due Sicilie sicuro che, all’epoca, la Francia non sarebbe intervenuta in suo aiuto.
E ciò a conferma che la spedizione dei Mille fu preceduta dall’attivismo dei mazziniani siciliani che prima crearono i presupposti e poi accompagnarono l’azione di Garibaldi sia pure all’ombra della “Bandiera Neutra” accantonando provvisoriamente le istanze repubblicane e combattendo con lui che inalberava invece, con chiarezza, e fieramente, quella con il motto “Italia e Vittorio Emanuele”.
Figura principale dei mazziniani maltesi fu Nicola Fabrizi (Modena 1804 – Roma 1885), che aveva preso parte, giovanissimo, alla congiura guidata nella sua città da Ciro Menotti nel 1831 e che a seguito della repressione del duca Francesco IV era stato costretto all’esilio dando inizio ad una frenetica attività rivoluzionaria.
Nel 1834 collabora in Svizzera con Mazzini ai preparativi per l’invasione della Savoia, recandosi poi, dopo il fallimento dell’impresa , in Spagna ove partecipa con una brigata italiana alla prima guerra carlista (1833-1839) per difendere la causa dei liberali spagnoli. Avuta notizia dell’insurrezione di Catania del 1837, parte per parteciparvi facendo tappa a Malta - ideale trampolino di lancio verso la Sicilia - ove è però costretto a rimanere dopo il (consueto ) fallimento della rivolta catanese.
Fu durante questo soggiorno che, convinto che la liberazione dell’Italia avrebbe dovuto iniziare dalla Sicilia, decise, per dargli attuazione, di formare a Malta un comitato definito “Legione Italica” che si differenziava in parte dalla “Giovane Italia” di Mazzini perché, scriveva, non intendeva “discutere di questioni di forma e di pensiero” né “ attaccare le forme e le persone”, ma si sforzava di collaborare con “le persone che uniscono all’accettazione del concetto l’attitudine del fatto”: insomma, par di capire, meno sottigliezze ideologiche ed azione comune con chi ci sta, con chi condivide l’ideale della liberazione dell’Italia dallo straniero.
Nel 1848 si precipita a Palermo insorta donde, dopo il rientro dei Borboni, accorre a combattere a Roma e, dopo la fine della gloriosa Repubblica Romana, si reca a Venezia ove l'insurrezione ancora resiste, mettendosi poi in salvo allorchè anche la Repubblica di S.Marco si arrende.
Dopo anni trascorsi a Modena ed in Francia sente il richiamo di Malta ove a far tempo dal 1853 ritorna e prosegue il lavoro preparatorio insurrezionale già iniziato nel suo primo soggiorno nell’isola d’intesa con i comitati di Messina e di Palermo, sempre in contatto con Francesco Crispi e Rosolino Pilo a nord.
Nel 1855 collabora con Carlo Pisacane nella preparazione dell’impresa di Sapri il cui esito conosciamo e da allora, divergendo in questo con Mazzini, si convince che senza aiuti esterni sarà impossibile ottenere risultati positivi con il solo metodo dell’insurrezione popolare e della guerra per bande.
Aiuto esterno che può arrivare solo da Garibaldi.
Nel 1859 si mette allora in contatto con il concittadino Luigi Carlo Farini divenuto dittatore di Modena e con i fondi da lui ricevuti costituisce la “Casa commerciale Carlo Fabrizi e fratelli “ destinata all’acquisto di armi.
Si rivolge per questo al Governatore inglese (all’epoca l’isola apparteneva alla corona inglese) per trattare l’acquisto di armi: ma quello afferma di non aver poteri in proposito e lo rinvia a Lord Palmerston di Londra, il che egli fa rivolgendosi nel contempo a Mazzini affinché faccia il possibile per appoggiare la richiesta presso l’autorevole personaggio.
In questo modo riuscì a costituire un piccolo arsenale destinato ad essere trasportato in Sicilia allorché, come programmato, scoppiati i movimenti insurrezionali innescati da Rosolino Pilo, Garibaldi sarebbe sbarcato nell’isola.
Ma un suo messaggio criptato spedito all’amico Francesco Crispi affinchè ne riferisse a Garibaldi, con cui informava che la rivolta scoppiata a Palermo e sedata dai Borbonici, resisteva però nella provincia, era stato mal decodificato e Crispi aveva riferito che la rivolta era fallita ovunque, inducendo Garibaldi a soprassedere alla partenza.
La responsabilità dell’equivoco venne poi rimpallata dall’uno all’altro, dando luogo a polemiche.
Garibaldi, alla fine, pur in assenza di notizie precise, si mise in moto, come si suol dire, "al buio", e gli andò, come sappiamo, bene, ma Fabrizi si rammaricò sempre di aver involontariamente creato, proprio lui che l’intervento garibaldino aveva invocato e preparato, l’equivoco, ed il conseguente ritardo della partenza della spedizione.
Dopo che Garibaldi ebbe messo piede in Sicilia, Fabrizi poté finalmente realizzare il suo sogno sbarcando in suo aiuto a Pozzallo sulla costa meridionale della Sicilia con 24 uomini e gran numero di fucili e munizioni per armare i molti volontari siciliani che subito si unirono a lui ingrossando il nucleo iniziale e che diedero vita ad una grossa colonna di 340 uomini denominata “Cacciatori del faro”. Giunti a Milazzo, i “Cacciatori” di Fabrizi ebbero l’incarico di proteggere Garibaldi impegnato nella famosa battaglia, impedendo l’arrivo di truppe borboniche che avrebbero potuto colpirlo alle spalle. L’ azione preparatoria dell’impresa dei Mille ed il valido contributo in battaglia favorirono la sua rapida ascesa: nominato Generale d’Armata fu comandante militare di Messina dopo che Garibaldi ebbe attraversato lo stretto - anche se avrebbe preferito seguirlo nella sua vittoriosa marcia verso il nord – e poi ministro della guerra nel governo prodittatoriale guidato da Antonio Mordini. Dopo lo scioglimento di questo governo tornò a Malta per dedicarsi alla politica e dopo un iniziale insuccesso, alla fine, nel dicembre 1861, fu eletto al Parlamento nella circoscrizione di Trapani. Nel 1862 ebbe la disavventura di subire un arresto con l’accusa di aver favorito il nuovo tentativo di Garibaldi di giungere a Roma al grido “O Roma o morte”, stroncato nel triste fatto dell’Aspromonte.
Partecipò poi nel 1866 alla III guerra d’Indipendenza e l’anno successivo fu con Garibaldi nella “Campagna dell’Agro Romano” per la conquista di Roma prendendo parte alla sfortunata battaglia di Mentana dopo di che si dedicò esclusivamente all’attività politica morendo a Roma il 31 marzo 1885.
Resta da dire che l’attività cospirativa dei patrioti italiani fu d’esempio a quella dei patrioti maltesi che si battevano per l’indipendenza dell’isola dagli inglesi e che alla fine di una lunga lotta pervennero finalmente nel 1974 all’indipendenza con la proclamazione della Repubblica Maltese.
Per finire, in appendice.
Malta è legata anche alla vicenda matrimoniale di Francesco Crispi che animò le gazzette dell’epoca.
Egli, infatti, espulso dal Piemonte nel 1853 per la sua attività rivoluzionaria, si era rifugiato a Malta ed aveva ivi sposato nel 1855, con rito religioso, Rosalia Montmasson cha da allora condivise il suo esilio e le sue avventure, raggiungendo la notorietà per essere stata l’unica donna ad avere partecipato alla spedizione dei Mille.
Essa era poi stata poi abbandonata da Crispi che nel 1878 aveva sposato Lina Barbagallo suscitando uno scandalo , un vero “gossip” dell’epoca, con l’accusa di bigamia elevata a carico del Crispi allora presidente del Consiglio, dato che la Montmasson era ancora vivente.
Fortunatamente - per lui, ma non per la povera donna che l’abbandono aveva gettato in un grave stato di prostrazione- il matrimonio celebrato a Malta non era stato trascritto in Italia, e, oltre a ciò, era stato celebrato da un sacerdote sospeso “a divinis” per cui egli uscì assolto nel processo instaurato a suo carico.
Negli anni, poi, del fascismo, venne alimentata una campagna - auspicante, non si comprende in base a quale teoria, che l’isola venisse “restituita alla grande Madre Italia” - alla quale parteciparono alcuni irredentisti che nel 1942 furono deportati dagli inglesi in Uganda.
In quello stesso anno l’Italia fascista considerò martire e decorò con medaglia d’oro alla memoria il giovane Carmelo Borg Pisani che, nato a Malta e ardente filo-italiano, aveva rinunciato alla nazionalità inglese e si era trasferito in Italia ove aveva acquisito quella italiana ed era stato arruolato nella MVSN (Milizia Volontaria Sicurezza Nazionale) entrando anche a far parte del SIM (Servizio Informazioni Militari).
Dopo un periodo di preparazione si offrì volontario per l”Operazione C3” recandosi a Malta per studiare la situazione in vista dell’invasione italiana dell’isola, ma catturato e considerato traditore (in quanto la sua abiura dalla nazionalità inglese non era stata riconosciuta) fu impiccato il 28 novembre 1942 nella prigione maltese “Corradino”.
Giovanni Zannini
Questo Blog raccoglie molti miei scritti alcuni dei quali pubblicati su giornali e riviste. Non sono uno storico ma è mio desiderio informare su fatti ed episodi poco noti che spesso non sono conosciuti dai più. Oltre a ciò il Blog contiene mie considerazioni e commenti su argomenti vari nonché racconti e novelle frutto della mia attività letteraria.
Giovanni Zannini-Pubblicista-via Ferri 6-35126-Padova-Tel.+FAX 049/757890 g.zannini_@libero.it
sabato 27 agosto 2011
giovedì 25 agosto 2011
Quel pazzo fra i Mille
QUEL PAZZO TRA I MILLE
Garibaldi afferma, nelle sue memorie, che la navigazione dei Mille da Quarto fino alle coste della Sicilia fu “felice”, salvo due “incidente disdicevoli prodotti dallo stesso individuo (del quale non si fa il nome – ndr.) che aveva la mania di volersi annegare e che, per due volte, ci diede molto disturbo, senza poter ottenere l’intento”, ossia senza riuscire a defungere, come avrebbe voluto fare, salvo poi ripensarci all’ultimo momento.
Era dunque accaduto che, mentre il “Piemonte”, al largo del porto di Talamone, filava a tutta velocità, un garibaldino che era a bordo si era gettato in mare con l’intento di farla finita. La manovra di salvataggio è rapida e decisa: al grido ”uomo in mare”, il bastimento ferma le macchine e subito mette in acqua un canotto che guidato da quei di bordo si dirige verso il malcapitato: il quale però, o per averci ripensato dopo aver vista in faccia la morte che, evidentemente, non gli era piaciuta, o per la “freschezza” dell’acqua, “nuotava” scrive Garibaldi ” come un pesce e faceva ogni sforzo per raggiungere i salvatori”.
Ripresolo a bordo (chi sa con quali rimbrotti!), la nave entra nel porto suddetto ove gli uomini, costretti a bordo in spazi angusti, sono fatti sbarcare per far loro “sgranchire le gambe”, imbarca armi e carbone , mentre Garibaldi organizza una piccola spedizione di 64 uomini agli ordini del col. Zambianchi con l’ordine di entrare nello Stato Pontificio per suscitarvi un’insurrezione: ma l’impresa sarà un fallimento.
Il pazzo viene affidato al comandante del porto ma, non si sa come, sfugge alla sua sorveglianza e sale questa volta sul “Lombardo” dal quale, ripresa la navigazione , si getta di nuovo in mare, venendo ancora una volta salvato dai generosi, anche se un po’ imbufaliti, soccorritori.
Ma il trambusto causato da questo secondo tentativo di suicidio rischiò di avere gravi conseguenze sull’esito della spedizione.
Mentre, infatti, il “Lombardo”, comandato da Nino Bixio, si era arrestato per prestare soccorso al pazzo, il “Piemonte” comandato da Garibaldi, e che navigava di conserva con il primo, aveva proseguito velocemente la navigazione ed alla fine i due piroscafi si erano persi di vista. Addirittura, mentre si cercava di riprendere i contatti, il “Lombardo”, che da lontano aveva visto un bastimento dirigere minacciosamente verso di lui, aveva invertito la rotta senza accorgersi che il supposto nemico era in realtà lo stesso “Piemonte” che stava disperatamente cercando di rintracciarlo: ma, alla fine, tutto si chiarì ed il ricongiungimento, con grave sollievo di Garibaldi che a causa della perdita di contatto con Bixio aveva disperato per l’esito dell’impresa, avvenne.
Ma questo pazzo, del quale come sopra detto, Garibaldi non fa il nome, chi era?
Dopo aver accuratamente spulciato l’elenco ufficiale dei 1068 partecipanti alla spedizione dei Mille, in cerca di qualche indizio che potesse renderne possibile l’individuazione, abbiamo appuntato la nostra attenzione su due nominativi.
Il primo è tal Nicolò Bensaia fu Salvatore nato a Messina nel 1833 (quindi anni 26 al momento della spedizione), morto il 14 ottobre 1874 nel manicomio di Palermo.
Il secondo è Prospero Brambilla di Prospero nato a Bagnatica il 4 maggio 1839 (e quindi 21 anni nel 1860), residente a Bergamo, demente, residente nel manicomio di Ostino (Bergamo). Parrebbe quindi, e sorprende, che un “ospite” del suddetto manicomio si sia presentato a Quarto per essere imbarcato con i Mille, e che sia stato, senza tanti problemi, fatto “abile”. Si può anche pensare che egli si sia intruppato (o sia stato intruppato, per far numero), nel nutrito drappello di lombardi, fra cui molti bergamaschi, presentatisi all’imbarco, e con essi assoldato .
Il fatto che il Bensaia sia morto nel manicomio di Palermo fa pendere la bilancia verso l’ipotesi che il pazzo sia lui , e che sia stato ivi ricoverato allorchè i garibaldini giunsero a Palermo.
Ma sono ipotesi, e chi sa se si potrà mai sapere chi fosse quel pazzo che minacciò di far fallire la spedizione dei Mille.
GIOVANNI ZANNINI
Garibaldi afferma, nelle sue memorie, che la navigazione dei Mille da Quarto fino alle coste della Sicilia fu “felice”, salvo due “incidente disdicevoli prodotti dallo stesso individuo (del quale non si fa il nome – ndr.) che aveva la mania di volersi annegare e che, per due volte, ci diede molto disturbo, senza poter ottenere l’intento”, ossia senza riuscire a defungere, come avrebbe voluto fare, salvo poi ripensarci all’ultimo momento.
Era dunque accaduto che, mentre il “Piemonte”, al largo del porto di Talamone, filava a tutta velocità, un garibaldino che era a bordo si era gettato in mare con l’intento di farla finita. La manovra di salvataggio è rapida e decisa: al grido ”uomo in mare”, il bastimento ferma le macchine e subito mette in acqua un canotto che guidato da quei di bordo si dirige verso il malcapitato: il quale però, o per averci ripensato dopo aver vista in faccia la morte che, evidentemente, non gli era piaciuta, o per la “freschezza” dell’acqua, “nuotava” scrive Garibaldi ” come un pesce e faceva ogni sforzo per raggiungere i salvatori”.
Ripresolo a bordo (chi sa con quali rimbrotti!), la nave entra nel porto suddetto ove gli uomini, costretti a bordo in spazi angusti, sono fatti sbarcare per far loro “sgranchire le gambe”, imbarca armi e carbone , mentre Garibaldi organizza una piccola spedizione di 64 uomini agli ordini del col. Zambianchi con l’ordine di entrare nello Stato Pontificio per suscitarvi un’insurrezione: ma l’impresa sarà un fallimento.
Il pazzo viene affidato al comandante del porto ma, non si sa come, sfugge alla sua sorveglianza e sale questa volta sul “Lombardo” dal quale, ripresa la navigazione , si getta di nuovo in mare, venendo ancora una volta salvato dai generosi, anche se un po’ imbufaliti, soccorritori.
Ma il trambusto causato da questo secondo tentativo di suicidio rischiò di avere gravi conseguenze sull’esito della spedizione.
Mentre, infatti, il “Lombardo”, comandato da Nino Bixio, si era arrestato per prestare soccorso al pazzo, il “Piemonte” comandato da Garibaldi, e che navigava di conserva con il primo, aveva proseguito velocemente la navigazione ed alla fine i due piroscafi si erano persi di vista. Addirittura, mentre si cercava di riprendere i contatti, il “Lombardo”, che da lontano aveva visto un bastimento dirigere minacciosamente verso di lui, aveva invertito la rotta senza accorgersi che il supposto nemico era in realtà lo stesso “Piemonte” che stava disperatamente cercando di rintracciarlo: ma, alla fine, tutto si chiarì ed il ricongiungimento, con grave sollievo di Garibaldi che a causa della perdita di contatto con Bixio aveva disperato per l’esito dell’impresa, avvenne.
Ma questo pazzo, del quale come sopra detto, Garibaldi non fa il nome, chi era?
Dopo aver accuratamente spulciato l’elenco ufficiale dei 1068 partecipanti alla spedizione dei Mille, in cerca di qualche indizio che potesse renderne possibile l’individuazione, abbiamo appuntato la nostra attenzione su due nominativi.
Il primo è tal Nicolò Bensaia fu Salvatore nato a Messina nel 1833 (quindi anni 26 al momento della spedizione), morto il 14 ottobre 1874 nel manicomio di Palermo.
Il secondo è Prospero Brambilla di Prospero nato a Bagnatica il 4 maggio 1839 (e quindi 21 anni nel 1860), residente a Bergamo, demente, residente nel manicomio di Ostino (Bergamo). Parrebbe quindi, e sorprende, che un “ospite” del suddetto manicomio si sia presentato a Quarto per essere imbarcato con i Mille, e che sia stato, senza tanti problemi, fatto “abile”. Si può anche pensare che egli si sia intruppato (o sia stato intruppato, per far numero), nel nutrito drappello di lombardi, fra cui molti bergamaschi, presentatisi all’imbarco, e con essi assoldato .
Il fatto che il Bensaia sia morto nel manicomio di Palermo fa pendere la bilancia verso l’ipotesi che il pazzo sia lui , e che sia stato ivi ricoverato allorchè i garibaldini giunsero a Palermo.
Ma sono ipotesi, e chi sa se si potrà mai sapere chi fosse quel pazzo che minacciò di far fallire la spedizione dei Mille.
GIOVANNI ZANNINI
Quando Crispi frenò Garibaldi
QUANDO CRISPI FRENO’ GARIBALDI
Se quel telegramma di Nicola Fabrizi non fosse mai arrivato, la data fatidica d’inizio della spedizione dei Mille non sarebbe stata il 5 maggio 1860, ma, probabilmente, il 25, il 26, il 27 aprile, o giù di lì, di quell’anno.
Garibaldi, infatti, in quel periodo se ne stava a Caprera in attesa di notizie più precise a proposito dei moti scoppiati contro i Borboni in Sicilia, per decidere se e quando accorrere in aiuto degli insorti.
In tale situazione, un telegramma cifrato datato 26 aprile 1860 inviato da Nicolò Fabrizi (un patriota che si era rifugiato a Malta per sfuggire alla polizia, e che da quest’isola meditava un audace piano per attaccare da sud il Regno delle due Sicilie) inviato all’amico Francesco (detto Ciccio) Crispi, ascoltato consigliere di Garibaldi, che, da lontano, stava con lui studiando il piano d’azione, provocò un freno alla spedizione.
Il Fabrizi che da Malta, così vicina alla Sicilia, era considerato un sicuro informatore di quanto stava accadendo in quell’isola, aveva inviato un telegramma, come si è detto, cifrato, del seguente tenore :”L’insurrezione vinta nella città di Palermo, si sostiene nelle province, notizie raccolte da profughi giunti Malta su navi inglesi”.
Ma Crispi aveva errato nell’interpretazione di quel messaggio traducendo:” Completo insuccesso nella provincia e nella città di Palermo. Molti profughi raccolti nelle navi inglesi giunti a Malta. Non vi muovete”, cosicchè Garibaldi, scoraggiato, interruppe i preparativi per la partenza.
Crispi, tormentato dal dubbio di aver bloccato tutto per un errore di interpretazione del codice segreto stabilito fra i congiurati, telegrafò a Fabrizi:”Ripeteteci meglio il dispaccio”, ma poi, senza attendere la risposta, presentò a Garibaldi l’esatta traduzione del messaggio del Fabrizi, ossia che la ribellione scoppiata in Palermo nel convento dei frati detto “ della Gancia” era stata sì soffocata, ma che restava invece viva nella provincia: cosicchè Garibaldi, rincuorato, decise di partire per la Sicilia.
Sull’episodio si è aperta una polemica e la responsabilità del ritardo della partenza dei Mille è stata rimpallata fra i due.
Crispi attribuisce la colpa al Fabrizi rimproverandogli di aver mal criptato il messaggio provocando in tal modo l’equivoco, mentre l’altro sostiene che esso era stato inviato in termini corretti secondo il cifrario concordato, ma che era stato letto malamente dal destinatario.
Quale sia le verità è difficile stabilirlo, anche se pare che la responsabilità del ritardo - che in verità non provocò alcun danno all’esito della spedizione - vada attribuita al Crispi.
Fu lui, infatti, ad avere il dubbio di essersi sbagliato: la sua richiesta di chiarimenti lo attesta e la sua fretta nel sottoporre a Garibaldi il testo effettivamente trasmesso dal Fabrizi senza attendere le precisazioni a lui richieste, dimostra che egli si era convinto di esser caduto in errore, e che non voleva perdere altro tempo a porvi rimedio.
Ma non lo riconobbe mai apertamente: il Fabrizi, addolorato, se ne risentì e, per mettere le cose a posto, così scrisse il 23 maggio all’amico Bertani:” L’amico (ossia Crispi – ndr) che mi graziò di responsabilità alla sua inversa interpretazione di un telegramma, mancò di giustizia nel non rettificare come aveva mancato di criterio nell’interpretazione”.
E Garibaldi? Benchè non avesse, pur dopo chiarito l’equivoco del telegramma, idee ben chiare sul come l’insurrezione si “sostenesse nelle provincie”, ossia se si trattasse di un vero moto popolare ovvero del movimento di pochi generosi, ruppe audacemente gli indugi ed il 5 maggio salpò da Quarto, come si dice, ”al buio”, “ per verificare la cosa sul terreno stesso della Sicilia”, senza cioè sapere se sull’isola avrebbe trovato un popolo ancora sotto il giogo dei Borboni o in rivolta in attesa del liberatore .
Resta da dire che il fatto fu evidentemente presto dimenticato, e non nocque né a Crispi né a Fabrizi. Della brillante carriera del primo è inutile parlare perché ben nota, mentre per il Fabrizi va ricordato che, accorso da Malta in Sicilia subito dopo lo sbarco dei Mille con un piccolo gruppo di uomini che si andò via ingrossando, contribuì alle vittorie della spedizione e per questo, e per il contributo che egli aveva dato alla preparazione dell’impresa ottenne importanti riconoscimenti . Garibaldi lo nominò generale e poi ministro nel governo vicereale che governò in Sicilia dopo che egli, superato lo stretto di Messina, aveva proseguito la sua vittoriosa marcia verso il nord, e fu infine eletto deputato al Parlamento nazionale nell’ambito della sinistra parlamentare.
Giovanni Zannini
Se quel telegramma di Nicola Fabrizi non fosse mai arrivato, la data fatidica d’inizio della spedizione dei Mille non sarebbe stata il 5 maggio 1860, ma, probabilmente, il 25, il 26, il 27 aprile, o giù di lì, di quell’anno.
Garibaldi, infatti, in quel periodo se ne stava a Caprera in attesa di notizie più precise a proposito dei moti scoppiati contro i Borboni in Sicilia, per decidere se e quando accorrere in aiuto degli insorti.
In tale situazione, un telegramma cifrato datato 26 aprile 1860 inviato da Nicolò Fabrizi (un patriota che si era rifugiato a Malta per sfuggire alla polizia, e che da quest’isola meditava un audace piano per attaccare da sud il Regno delle due Sicilie) inviato all’amico Francesco (detto Ciccio) Crispi, ascoltato consigliere di Garibaldi, che, da lontano, stava con lui studiando il piano d’azione, provocò un freno alla spedizione.
Il Fabrizi che da Malta, così vicina alla Sicilia, era considerato un sicuro informatore di quanto stava accadendo in quell’isola, aveva inviato un telegramma, come si è detto, cifrato, del seguente tenore :”L’insurrezione vinta nella città di Palermo, si sostiene nelle province, notizie raccolte da profughi giunti Malta su navi inglesi”.
Ma Crispi aveva errato nell’interpretazione di quel messaggio traducendo:” Completo insuccesso nella provincia e nella città di Palermo. Molti profughi raccolti nelle navi inglesi giunti a Malta. Non vi muovete”, cosicchè Garibaldi, scoraggiato, interruppe i preparativi per la partenza.
Crispi, tormentato dal dubbio di aver bloccato tutto per un errore di interpretazione del codice segreto stabilito fra i congiurati, telegrafò a Fabrizi:”Ripeteteci meglio il dispaccio”, ma poi, senza attendere la risposta, presentò a Garibaldi l’esatta traduzione del messaggio del Fabrizi, ossia che la ribellione scoppiata in Palermo nel convento dei frati detto “ della Gancia” era stata sì soffocata, ma che restava invece viva nella provincia: cosicchè Garibaldi, rincuorato, decise di partire per la Sicilia.
Sull’episodio si è aperta una polemica e la responsabilità del ritardo della partenza dei Mille è stata rimpallata fra i due.
Crispi attribuisce la colpa al Fabrizi rimproverandogli di aver mal criptato il messaggio provocando in tal modo l’equivoco, mentre l’altro sostiene che esso era stato inviato in termini corretti secondo il cifrario concordato, ma che era stato letto malamente dal destinatario.
Quale sia le verità è difficile stabilirlo, anche se pare che la responsabilità del ritardo - che in verità non provocò alcun danno all’esito della spedizione - vada attribuita al Crispi.
Fu lui, infatti, ad avere il dubbio di essersi sbagliato: la sua richiesta di chiarimenti lo attesta e la sua fretta nel sottoporre a Garibaldi il testo effettivamente trasmesso dal Fabrizi senza attendere le precisazioni a lui richieste, dimostra che egli si era convinto di esser caduto in errore, e che non voleva perdere altro tempo a porvi rimedio.
Ma non lo riconobbe mai apertamente: il Fabrizi, addolorato, se ne risentì e, per mettere le cose a posto, così scrisse il 23 maggio all’amico Bertani:” L’amico (ossia Crispi – ndr) che mi graziò di responsabilità alla sua inversa interpretazione di un telegramma, mancò di giustizia nel non rettificare come aveva mancato di criterio nell’interpretazione”.
E Garibaldi? Benchè non avesse, pur dopo chiarito l’equivoco del telegramma, idee ben chiare sul come l’insurrezione si “sostenesse nelle provincie”, ossia se si trattasse di un vero moto popolare ovvero del movimento di pochi generosi, ruppe audacemente gli indugi ed il 5 maggio salpò da Quarto, come si dice, ”al buio”, “ per verificare la cosa sul terreno stesso della Sicilia”, senza cioè sapere se sull’isola avrebbe trovato un popolo ancora sotto il giogo dei Borboni o in rivolta in attesa del liberatore .
Resta da dire che il fatto fu evidentemente presto dimenticato, e non nocque né a Crispi né a Fabrizi. Della brillante carriera del primo è inutile parlare perché ben nota, mentre per il Fabrizi va ricordato che, accorso da Malta in Sicilia subito dopo lo sbarco dei Mille con un piccolo gruppo di uomini che si andò via ingrossando, contribuì alle vittorie della spedizione e per questo, e per il contributo che egli aveva dato alla preparazione dell’impresa ottenne importanti riconoscimenti . Garibaldi lo nominò generale e poi ministro nel governo vicereale che governò in Sicilia dopo che egli, superato lo stretto di Messina, aveva proseguito la sua vittoriosa marcia verso il nord, e fu infine eletto deputato al Parlamento nazionale nell’ambito della sinistra parlamentare.
Giovanni Zannini
giovedì 18 agosto 2011
A PROPOSITO DI CROCIATE
Mi perviene “L’ultima Crociata”, organo dell’Associazione Nazionale Famiglie Caduti e Dispersi della Repubblica Sociale Italiana.
E’ anzitutto strano che le crociate, sulle quali la Chiesa Cattolica ha ormai recitato il “mea culpa” ( assieme ad altri episodi del passato - giustamente criticati perché incompatibili con una religione fondata sul Vangelo - quali le guerre di religione, i massacri dei Sassoni in età carolingia, la “Reconquista” iberica, la liquidazione dei Catari, le campagne dei cavalieri teutonici , le stragi di “native americans” in sud-america, citati coraggiosamente dallo scrittore cattolico Franco Cardini nel suo libro “Cristiani perseguitati e persecutori”) vengano invece oggi esaltate in molti ambienti xenofobi e dell’estrema destra.
A parte ciò, desidero manifestare alcune considerazioni sui conten uti di tale pubblicazione.
Condivido la denuncia dei misfatti operati dopo il 25 aprile 1945 da alcuni appartenenti alla Resistenza antifascista, che hanno appannato i meriti di quanti hanno invece combattuto per la liberazione dell’Italia dal nazifascismo, e che dopo la vittoria si sono astenuti dal compiere rappresaglie e odiosi delitti.
La macabra esposizione dei corpi massacrati di Mussolini e della Petacci in Piazzale Loreto, assieme all’uccisione di civili e militari italiani che avevano aderito alla Repubblica Sociale Italiana, resteranno nella storia come un’onta che sarà difficile cancellare.
Comprendo l’onore reso dall’”Ultima Crociata” a quei combattenti della Repubblica Sociale Italiana che hanno sacrificato la loro vita per un ideale in cui credevano e che, nel triste agone della guerra, anche se caduti per una causa sbagliata, hanno saputo dimostrare abnegazione e coraggio.
Ma dissento dall’esaltazione di un organismo politico, la RSI , nata dalla ribellione di chi non ha riconosciuto le decisioni del legittimo governo italiano, si è opposto ad esse, ha favorito la nascita di uno stato fantoccio ed ha in tal modo provocato la prosecuzione di una guerra ormai dolorosamente perduta e scatenato quella triste guerra civile che ha visto gli italiani combattersi fra di loro.
Comprendo, dunque, che sull’ultimo numero della succitata pubblicazione si renda omaggio agli appartenenti al Battaglione “Lupo” della “X Mas” caduti nel 1945 sul fronte del Senio nella zona tra Fusignano e Alfonsine.
Ma che, a conclusione della commemorazione, si inneggi alla “X Mas” ed alla RSI, questo lo ritengo offensivo, profondamente ingiusto, e va ad onore della nostra Repubblica che lo tollera.
Giovanni Zannini
mercoledì 17 agosto 2011
Sono un serio umorista
L’umorismo è una cosa seria.
Ed io sono un serio umorista.
L’umorismo è un genere che si divide in due principali categorie, quello grasso e l’altro.
Il primo è il più facile.
Il suo risultato è quello di far ridere a crepapelle, tenendosi la pancia (appunto, dal ridere) e di produrre lacrimazione a causa delle contrazioni che un riso sgangherato provoca nella zona oculare.
Ingredienti preferiti del riso grasso sono i prodotti della digestione umana ed animale, l’apparato riproduttivo umano sia maschile che femminile, con una netta prevalenza per quest’ultimo, i rumori fatti con la bocca o con il ventre, l’ebbrezza alcoolica, le mogli viperine, i mariti cornuti, i preti cavallini, le monachelle libidinose, le donne allegre, le battone, gli invertiti e simili altri raffinati argomenti.
Il testo deve essere scurrile, esplicito quanto più possibile, la scrittura dialettale (preferiti il veneto ed il romanesco), l’atteggiamento di chi parla o scrive trasgressivo e provocatorio, scapigliato e preferibilmente in maniche di camicia o, meglio ancora, in canotta.
L’altro, quello fine, elegante, è più difficile.
Anche quando, assai raramente, per la verità, prende spunti dall’umorismo grasso, li tratta con leggerezza, senza riferimenti espliciti cosicché essi emergano non da parole volgari, di facile effetto, ma da sottintesi e giri di parole che sono essi stessi originali e frutto di fantasia, esposti in maniera da essere accetti anche dalle orecchie più sensibili.
Il mio genere di umorismo è quello che chiamerei letterario (se non temessi di far ridere qualcuno) fatto di racconti brevi e di novelle concentrate, piccoli atti unici frutto di pura fantasia o ispirati da fatti ed avvenimenti veramente accaduti opportunamente trattati.
I miei studi universitari in legge, qualche anno di professione legale e 35 di attività – di cui 15 dirigenziale - al servizio di una grossa compagnia d’assicurazioni nel campo della liquidazione dei sinistri, mi offrono un’ enorme quantità di spunti dai quali attingo a piene mani.
Ma ho pure un’altra fonte insospettabile di umorismo: infatti, pur essendo cattolico e sforzandomi di comportarmi di conseguenza, non disdegno neppure i prendere talora spunti da fatterelli di parrocchia o da episodi buffi che abbondano nel Vecchio Testamento.
Perché non è vero che il cattolico praticante debba sempre avere la faccia da funerale e pensare solo che da un momento all’altro potrebbe andare all’altro mondo.
Anche nel Vecchio Testamento la gente ride: si pensi, a mo’ d’esempio, ad Abramo ed a Sara che si prostrano faccia a terra e scoppiano, molto irriverentemente, a ridere allorché il Signore annuncia loro che, nonostante l’età molto, ma molto avanzata avrebbero avuto un figlio.
E non è neppur certo, come taluni affermano, che Gesù non abbia mai riso.
Ma chi può escludere che egli abbia sorriso felice ai bimbi che, aderendo al suo desiderio (lasciate che i pargoli vengano a me) accorrevano festanti accanto a lui?
E pensate a Zaccheo, quell’agente delle tasse piccoletto e tozzo, un vero tappo, che in mezzo alla folla, a causa della scarsa statura, non riusciva, come ardentemente desiderava, a vedere il Signore. Allora che fa, si arrampica su di un albero e lo invoca a gran voce: Gesù lo vede e gli dice di scendere subito dall’albero per accompagnarlo a casa sua.
L’ometto, incredulo, scende a precipizio, un ramo cede, lui casca in terra lungo disteso ma, nonostante la pacca presa, pesto e impolverato corre verso Gesù e gli bacia i piedi.
Non credete che a Gesù, davanti a questa scenetta, sia venuta la voglia di ridere, ed anche l’abbia fatto, sia pure con discrezione, per non offendere il povero Zaccheo?
Infine, siccome ho pubblicato dei libri e scrivo su giornali e riviste, ad alcuni pare strano che il Giovanni Zannini umorista sia lo stesso che scrive anche cose serie.
E ciò mi mette in crisi perché non mi riesce di capire che razza di scrittore io sia, posto che io sia uno scrittore.
Giovanni Zannini
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