giovedì 11 dicembre 2014

A PROPOSITO DI UNIONI CIVILI

Nella nostra città non vi è, come in altre, un “Registro delle unioni civili” (peraltro generalmente poco utilizzato, ove esiste) nel quale le coppie gay si possono iscrivere,  vi è invece la possibilità di ottenere dall'Ufficio di Stato Civile, a richiesta, un documento del seguente tenore:”
ATTESTAZIONE DI ISCRIZIONE NELL'ANAGRAFE DELLA POPOLAZIONE QUALE FAMIGLIA ANAGRAFICA  COSTITUITA DA PERSONE  COABITANTI LEGATE DA  VINCOLI AFFETTIVI  -  Il SINDACO  - vista la richiesta di attestazione  presentata dai signori..., visto l'art.33  secondo comma del D.P.R. 30.5.1989 n.223 “Approvazione del nuovo regolamento anagrafico  della popolazione residente”; visti gli atti d'ufficio ATTESTA che le persone sopra indicate  sono iscritte nell'Anagrafe della popolazione  di questo Comune quale famiglia anagrafica per coabitazione  in via...n...in ragione dell'esistenza di vincoli affettivi dichiarati dai medesimi. La presente attestazione non costituisce certificazione anagrafica così come contemplato dall'art.33 comma 1 del D.P.R. 223/1989.”
Ma questo tipo di “pubblicizzazione” pare, nella nostra città,  interessare molto poco dal momento
che dal 2007 – anno della delibera istitutiva – di queste “attestazioni” ne sono state rilasciate, a tutt’oggi  (febbraio 2013), solo 56, anche se è difficile stabilire se ciò dipenda da motivi di riservatezza, oppure dalla non conoscenza di potersi avvalere di tale opportunità.       
Come pure è evidente che in tal modo a Padova talune  limitazioni di carattere amministrativo interessanti le coppie gay possono essere, con l'attestazione, superate.                                                                                                                                          Giovanni Zannini                                                                                                                      





venerdì 5 dicembre 2014

FRANCESCO NULLO EROE SENZA PAURA

Ma senza macchia no, perchè di eroi senza paura ed anche  senza macchia, è difficile trovarne, e  Nullo una macchia ce l'ha, e si chiama Pettoranello del Molise.
Nato a Bergamo nel 1825, è  uno dei fedelissimi di Garibaldi con il quale partecipa alla campagna del 1848, difende  la Repubblica Romana nel 1849 seguendo poi il Generale nella ritirata, è Cacciatore  delle Alpi nel 1859 combattendo a Varese ed a S.Fermo.  Partecipa poi alla spedizione dei Mille nel 1860 espugnando fra i primi Palermo e poi Reggio, l’1 ed il 2 ottobre prende  parte alla battaglia del Volturno (non uno scontro avventuroso e  d'impeto consueto al Garibaldi guerrigliero, ma una vera e propria battaglia campale nel quale egli si manifesta anche abile stratega) ove è promosso sul campo  Colonnello, il 29 agosto 1862 è al suo  fianco  nel fatale  Aspromonte.
Solo pochi mesi dopo  parte per la Polonia,vindice della libertà dei popoli, così come avevano fatto  Garibaldi  in sud-America - per l'indipendenza della Repubblica  del Rio Grande do Sul contro l'impero brasiliano e per l’Uruguai contro l’Argentina -  e poi altri garibaldini in Grecia, a Creta ed in Spagna,   dando luogo a quel fenomeno che ben può definirsi  “volontariato d’esportazione”.
Il 23 gennaio 1863, infatti,  i patrioti polacchi erano insorti contro i dominatori russi  e Nullo non fu sordo al loro richiamo accorrendo con una “Legione Italiana” di 600 uomini della quale faceva parte (curiosità) un manipolo di una ventina di volontari garibaldini organizzati e armati da quel tal  Luigi Caroli, detto “Il Gigio”, amante della marchesina Raimondi sposata da Garibaldi nel 1860 e subito ripudiata. Caduto prigioniero  morrà di stenti lavorando nelle tremende miniere siberiane.
L'impresa dei 600  ha un esito drammatico: nella battaglia di Krzykawka  del 5 maggio 1863 sono battuti,  Francesco Nullo muore, combattendo eroicamente,  a Olkusz ove sulla sua tomba è stata eretta una  grande stele  in pietra.
Per questo suo sacrificio è onorato  in Polonia come eroe nazionale e molte strade ed edifici pubblici portano il suo nome.
Per completare il quadro  aggiungeremo che Garibaldi lo definì “il più bello dei garibaldini” e gran scavezzacollo, mentre, più tardi, vedremo che sapeva pure suonare il pianoforte (anche se nei momenti sbagliati).
Vediamo ora quale situazione Nullo trova dopo il passaggio dello stretto di Messina.
Dopo lo  sbarco a Marsala Garibaldi, nella sua marcia attraverso la Sicilia  aveva suscitato l’ entusiasmo di gran parte della  popolazione isolana e molta gente volonterosa ma digiuna di preparazione militare, era accorsa,  come  quel migliaio di “picciotti” di Salemi, armati ed a cavallo, che vengono immediatamente  inquadrati in qualche modo sotto il nome pomposo di “Cacciatori dell’Etna”.

Tra “camorristi” e “cafoni”.

Ma, passato lo stretto e intrapresa la risalita dello stivale, la situazione era mutata perché se pochi  “camorristi” si erano posti al seguito di Garibaldi, i   contadini, i “cafoni” (che i piemontesi chiamarono poi “briganti”), fedeli al re Francesco II  di Borbone,  erano molti di più, specie negli Abruzzi e nel Molise,  ed  ingrossavano le fila dell’esercito borbonico ancora forte di ben 50.000 uomini (contro i quasi 30.000 di  Garibaldi), e ben organizzato. Il re si era rifugiato a Gaeta schierando  il suo esercito a difesa al di là dei fiumi  Volturno e Garigliano (una specie di “linea gotica”, più di un secolo fa……)  per stoppare la marcia di Garibaldi verso nord.
 In questa situazione,  il 19 settembre  1860, Garibaldi che aveva posto il suo Quartier Generale a Caserta aveva dovuto recarsi a Palermo per risolvere alcuni problemi ivi insorti lasciando  l’ordine di restare fermi sulle posizioni raggiunte senza assumere alcuna iniziativa.
E ciò in attesa  delle truppe piemontesi  agli ordini del Generale Cialdini  che, superato il confine dello Stato Vaticano e sconfitti i papalini a Castelfidardo,  marciavano verso sud con un duplice intento. Anzitutto attaccare i borbonici che si sarebbero così trovati di fronte i garibaldini, ed alle spalle le truppe regie. Quindi,  quindi, bloccare Garibaldi che non faceva mistero della sua intenzione – la sua ossessione - di proseguire la marcia per conquistare Roma ed abbattere il potere pontificio, ma con ciò creando quelle complicazioni diplomatiche con la Francia che Vittorio Emanuele voleva ad ogni costo evitare .
Purtroppo, i suoi ordini non vengono, da taluni,  rispettati: fra questi, il gen.Giuseppe Sirtori che, mossosi alla volta di  Cajazzo (posto a poche miglia da Capua ove era accampato il grosso dell’esercito borbonico), a costo di gravissime perdite si impadronisce del piccolo centro dal quale viene successivamente sloggiato e costretto ad una ritirata disastrosa. “L’operazione di Cajazzo – è il duro commento di Garibaldi nelle sue memorie – fu più che  un’imprudenza: fu mancanza di tatto militare da parte di chi comandava”.
E poi, Francesco Nullo.

La sconfitta di Pettoranello.

Questi, da Boiano, ove, per ordine del Generale, si era acquartierato, avuta notizia che i borbonici si erano di nuovo impadroniti di Isernia (che era riuscita in un primo tempo a scacciarli), dimentico dei precisi ordini ricevuti, si mette in moto per andarla a liberare.
Giunto dopo una faticosa marcia nelle vicinanze di Pettoranello del Molise fa riposare i suoi uomini e, dopo aver dato le opportune disposizioni per la difesa della posizione raggiunta, sale con il suo seguito al paese ove è ospite a pranzo della famiglia Santoro, notabile del posto.
Solo un  drappello agli ordini di Alberto Mario prosegue verso Isernia e ingaggia il combattimento con le avanguardie dei borboni  usciti in  forze da quella città per  affrontare  i garibaldini avanzanti.
Intanto, gli ufficiali rimasti con gli uomini a riposo ai piedi di Pettoranello, avvistati movimenti sospetti alle loro spalle e sui fianchi si affrettano a salire al paese per avvertire di ciò il comandante Nullo.
Lo trovano che, dopo aver pranzato, suona il pianoforte e agli ufficiali allarmati che lo avvertono del pericolo incombente, risponde burbanzoso:”Sono io che comando. Tornate ai vostri posti”.
Poi,  ripreso il comando, per dar l’esempio, con il suo Stato Maggiore e con pochi altri si avvia a dar man forte agli uomini di Alberto Mario che già avevano ingaggiato un duro combattimento con i borbonici: e li mette in fuga.  
Ma, contemporaneamente,  un gran numero di “cafoni” (fedeli al  re Francesco, definiti  poi “briganti” dai piemontesi), ben armati,  dalle alture di Pettoranello (che era di nuovo caduto nelle mani del nemico), e di Carpinone, posti uno di fronte all’altro,  e da Castelpetroso, attacca i garibaldini che si trovano chiusi in una morsa: di fronte  i borbonici tornati in forze,  alle spalle i “cafoni” che adottano una micidiale tecnica di guerriglia. La lotta è cruenta, il massacro di garibaldini è impressionante.
 Nullo, dopo averli incitati alla resistenza assicurando loro rinforzi che non giungeranno mai riesce a raggiungere Bojano ove si trascinano poi, decimati e stremati, i suoi uomini  superstiti della dura battaglia.     
Negli eserciti, in casi del genere  sono previsti provvedimenti disciplinari a carico dei  responsabili di violazione degli ordini ricevuti, specie se detta violazione ha avuto conseguenze così disastrose.
Non si sa se ciò sia avvenuto, ma pare si debba escluderlo.
Garibaldi scrive, nelle sue memorie,  che “la sconfitta di Cajazzo è  stata l’unica dell’”Esercito Meridionale” – così egli definisce il suo esercito con il quale sconfisse il Regno delle Due Sicilie – in tutta quella gloriosa campagna”: ma, generosamente, pare assolvere il responsabile Giuseppe Sirtori, capo del suo Stato Maggiore, osservando che  “chi ne aveva l’incarico ritenne opportuno fare qualcosa di più del necessario e, col ricordo delle vittorie precedenti,  ritenne che qualunque impresa sarebbe stata possibile ai nostri prodi”.   
Sta di fatto che la sconfitta di Cajazzo non arrecò alla carriera del gen.Giuseppe Sirtori    pregiudizio alcuno: fu nominato, infatti, Prodittatore a Napoli.
Per Francesco Nullo l’eroica  morte a soli 38  anni nelle gelide steppe della Polonia,  servì a cancellare la memoria  dell’infausta avventura di Pettoranello di Molise.     Giovanni Zannini

                                                                                        


martedì 2 dicembre 2014

O POLITICI O PROFESSIONISTI

Le cronache hanno informato sulla scarsa  frequentazione – che lo pone al vertice di una singolare classifica ad hoc - delle aule del Senato da parte di un Senatore cittadino noto professionista principe del foro.
Ciò pone il problema se sia opportuno, come attualmente avviene ,   consentire a chi svolge un’attività professionale,  di  proseguirla una volta eletto al parlamento,  o se, invece,  vi debba essere incompatibilità. 
E’ infatti di tutta evidenza che una professione intensamente  vissuta impedisce al politico di dedicare, come dovrebbe, il suo tempo  alle incombenze cui  i suoi elettori lo hanno destinato e che egli ha liberamente, e sempre con piacere, accettato di svolgere.
Con la conseguenza che se, invece, queste due attività vengono contemporaneamente esercitate, il politico-professionista   viene a percepire  dalla collettività un compenso (come noto, non irrilevante)  per un’attività parlamentare che egli, nella realtà non ha svolto, e che si somma a parcelle spesso laute. 
E dunque il professionista al quale  è offerta una candidatura politica dovrebbe decidere se accettarla, e quindi sospendere la sua attività professionale in caso di elezione,  o se, invece, rinunciando all’offerta fattagli, proseguirla.
Non sarebbe dunque male se questo problema di giustizia e di equità venisse affrontato anche dagli ordini professionali e, auspicabilmente, risolto.

                                                                                                     Giovanni Zannini    

lunedì 17 novembre 2014

Nel 55° anniversario del 1° concerto dei "Solisti Veneti" a Padova - INTERVISTA A SCIMONE CLAUDIO, PADOVANO

Mi riceve seduto nella poltrona del salotto di casa, mentre sorseggia un tè, in abiti “borghesi” – non quelli paludati, da concerto – e dalla sala di musica giungono  attenuate le note del flauto di Clementine Hoogendoorn, la moglie, che sta “studiando”.
Com’è nata la Sua passione per la musica?
Da quella di mia madre che ha sempre frequentato ambienti musicali raffinati, fra cui la famiglia di Toscanini al cui seguito fu in numerosi viaggi. Voleva far di me un direttore d’orchestra, inconsapevole, forse, delle grandi difficoltà da superare  per giungere ad un podio direttoriale. Ed il mio pensiero, commosso per l’alto riconoscimento attribuitomi, è andato a Lei  allorchè a Venezia, alla Fenice, mi venne attribuito nel 2008 dall’Associazione Rubinstein il premio “Una vita nella musica”, vero e proprio Nobel musicale.
Vissi le prime, elementari esperienze musicali da bambino e da adolescente , quindi un serio inizio al tempo del liceo con il pianoforte e lo studio della composizione  sotto la guida esperta di Arrigo Petrolo, quindi per tre anni  allievo di direzione d’orchestra  del grande direttore greco Dimitri Mitropoulos, poi l’inizio di carriera   anche nel variegato mondo dello spettacolo, apparizioni televisive a Canzonissima e selezioni al Festivalbar  con l’attribuzione del 1° premio nel 1970.
Quando il primo concerto a Padova?
55 anni fa, il 28 ottobre 1959 nel vecchio auditorium Pollini. Alcuni orchestrali: primo violino, Luigi Ferro, il violinista Pino Donaggio che conquistò poi grande notorietà in un diverso ambito musicale, Chiampan al violoncello. Non era facile, all’epoca, reperire buoni componenti per l’orchestra, la disponibilità era molto limitata a causa della scarsa diffusione dello studio musicale: solo 12 i Conservatori in tutta Italia e solo quando se ne aggiunsero altri 30 la situazione migliorò sensibilmente, fino a giungere ai giorni nostri in cui l’offerta è abbondante e la selezione è molto più facilitata. Intanto, per desiderio di mio padre che avrebbe voluto far di me un buon avvocato, con un futuro più sicuro di quello musicale ben più aleatorio, mi iscrissi alla facoltà di Giurisprudenza del Bò superando 18 esami con esito brillante (tutti 30): ma, per l’impossibilità di seguire contemporaneamente  due importanti percorsi, la scelta fu inevitabile. Poi, l’Università di Padova attribuendomi recentemente la laurea “Honoris Causa” in Giurisprudenza ha realizzato anche il sogno di mio padre di avere un giurista in famiglia.
Lei si caratteristica per un particolare stile di direzione d’orchestra molto sobrio e contenuto, diverso da quello di altri direttori usi talora a sbracciarsi ed accalorarsi. Pare che Ella con la Sua figura austera, quasi ieratica, emetta un fluido particolare con il quale affascina l’orchestra e le trasmette le Sue emozioni.
Ogni direttore ha un suo stile particolare, ma penso che il cenno direttoriale piccolo e limitato, ma concentrato,  sia anche più potente ed intenso dell’altro. Toscanini, molto moderato nel gesto, trasmetteva però un’energia tale da incantare gli orchestrali.
Come giudica l’attuale livello musicale della nostra città?
Sembra che l’Università, così ricca del proprio eccezionale patrimonio culturale e scientifico, abbia finito per comprimere gli spazi destinati all’arte e dunque anche alla musica. Le risorse dedicate da un pur ristretto ma affezionato nucleo di appassionati alle  iniziative musicali  sono assai inferiori a quelle di cui dispongono altre città del Veneto quali Verona che dalla stagione dell’Arena trae benefici turistici e quindi economici rilevanti, o Venezia che, già favorita dalla straordinaria collocazione ambientale, ha dedicato e dedica all’eccellenza della Fenice, vero primato musicale in  Italia, un’attenzione che dona alla città un ulteriore motivo d’attrazione.
La musica in famiglia giova al matrimonio? E, a questo proposito, lo considera  istituto ancora valido?
Una moglie che condivida appieno la passione per la musica, e che anche la esercita mirabilmente, costituisce per un matrimonio ulteriore arricchimento. I suoi consigli e lo scambio di idee hanno certamente contribuito al miglioramento della mia personalità di uomo e di artista. Ma può accadere che, dal podio, il marito direttore in forza della sua autorità e responsabilità, debba esprimere alla moglie, orchestrale fra gli orchestrali, raccomandazioni e, anche se raramente ciò avviene, formulare richiami.
Circa il matrimonio, lo ritengo un’istituzione basilare per l’individuo e per la società, tanto più per chi, come me, lo vive nell’ambito della religione cattolica.
Maestro, da quanti anni è sposato con Clementine?
Da 49.
Ed ecco un piccolo “scoop”: il 2015 sarà l’anno delle nozze d’oro di Claudio Scimone, padovano, fondatore dei “Solisti Veneti” noti in tutto il mondo, e della di lui moglie, la gentile Clementine Hoogendoorn. Dalla “Difesa del Popolo”, fin d’ora, per primi, i voti augurali più vivi e sentiti.           
                                                                                                                                    Giovanni Zannini   
   





mercoledì 15 ottobre 2014

Dal "Trattato di Zurigo" - UNA LEZIONE DI POLITICA INTERNAZIONALE

Il “Trattato di Zurigo” firmato nella città elvetica il 10/XI/1859 fra l’Imperatore d’Austria  Francesco Giuseppe e Napoleone III Imperatore de’ Francesi ebbe numerosi  contenuti.
Anzitutto pose fine alla sanguinosa guerra (denominata dalla nostra storiografia la “Seconda guerra d’indipendenza”) combattuta quell’anno fra l’Austria e l’alleanza di Francia e  Piemonte.
Esso fu pure l’occasione per un vero e proprio trattato di pace tra le due grandi potenze europee dell’epoca per cui “Vi sarà per l’avvenire pace ed amicizia tra Sua Maestà l’Imperatore de’ Francesi e Sua Maestà l’Imperatore d’Austria come ancora tra i loro eredi e successori, i loro Stati e sudditi rispettivi”.
Oltre a ciò, i due illustri contraenti si arrogarono  la facoltà di intervenire e di  porre ordine nella confusa situazione politica dell’epoca in Italia. Con l’art.18, infatti, essi “si obbligano a favorire con tutti i loro sforzi la creazione di una Confederazione fra gli stati italiani che sarà posta sotto la presidenza onoraria del Santo Padre e lo scopo della quale sarà di mantenere l’indipendenza e l’inviolabilità degli Stati confederati, di assicurare lo svolgimento de’ loro interessi morali e materiali e di garantire la sicurezza interna ed esterna dell’Italia con l’esistenza di un’armata federale”.   
Infine, il trattato contiene un’esplicita “raccomandazione” che costituisce una vera e propria tirata d’orecchi a Papa Pio IX. L’art. 20 è esplicito:” Desiderando vedere assicurati la tranquillità degli stati della Chiesa ed il potere del S.Padre… Sua Maestà l’Imperatore dei Francesi e Sua Maestà l’Imperatore d’Austria uniranno i loro sforzi per ottenere da Sua Santità che la necessità d’introdurre nell’amministrazione de’ suoi Stati le riforme  riconosciute indispensabili sia presa dal suo governo in seria considerazione”.  
E’ innegabile che, a prescindere dalla mancata legittimazione in capo ai due imperatori, di intervenire, all’epoca,  nelle questioni interne di uno stato terzo,  la loro sollecitazione ad attuare riforme politiche e sociali rivolta allo Stato Pontificio rimasto  ad un livello medievale rispetto a quello sia pure imperfetto delle principali potenze europee dell’epoca, appare, oggi,  obbiettivamente opportuna.
Questo precedente storico  porta a considerare il dovere di una legittima autorità internazionale quale l’ONU di intervenire nelle questioni interne di stati che non si conformino ai principi di civiltà universalmente riconosciuti  contenuti nello stesso statuto dell’ONU.
Perché non è con le armi che si pone rimedio a situazioni  intollerabili (vedi Gheddafi in Libia e Saddam Hussein in Irak) ma con la diplomazia, il consiglio, la raccomandazione, il suggerimento,  la mediazione dell’autorità internazionale e dei suoi  consiglieri giuridici ed economici,  per convincere, con pazienza e costanza, capi di stato ignoranti o corrotti, fornendo loro aiuti e finanziamenti in cambio di riforme di civiltà e di progresso.
La semplice eliminazione di capi di  stato per quanto feroci, ignoranti o corrotti essi siano, con le armi, non risolve i problemi, ma  anzi li aggrava provocando il caos laddove il loro  potere  riusciva a mantenere un  ordine formale sia pure basato sulla violenza e, spesso, sul  terrore.
                                                                                                                  Giovanni Zannini  










  









venerdì 3 ottobre 2014

Il segreto della "Quietas" - ULTRAVIRES 100

RACCONTO

Situata sopra un colle un po’ isolato, lontano dal centro abitato, con un accesso stradale non comodissimo (ma sufficiente per i pochi che vi si recavano) la casa di riposo “Quietas” godeva di un’ottima fama in grado di  tranquillizzare i parenti che, impossibilitati a tenerli in famiglia, vi ricoveravano i loro anziani.
Fama che le derivava dalla notorietà e professionalità del  Primario, il Prof.Gianni Lanzan,  ottimo geriatra,  che le aveva dato efficienza sotto il  profilo sanitario, organizzativo e dei rapporti umani, e dei suoi assistenti, giovani medici che vi si alternavano per il praticantato.
Gli infermieri e tutto l’altro personale  addetto al buon funzionamento della struttura, volonterosi e gentili; ottimo il vitto; curato con scrupolo l’igiene; utilizzata, nei limiti del possibile, la moderna palestra ed anche una piscina; oltre a molte iniziative ricreative e perfino culturali grazie all’intervento di giovani volontari che si prodigavano per far passare il tempo agli ospiti tentando anche di tenere sveglie le residue, anche se scarse, capacità intellettive degli ospiti.  
Tutto ciò per merito di suor Benedetta, una suora  intelligente e dotata di eccezionali capacità organizzative in grado, nonostante la giovane età,  di controllare, con la competenza di un  “manager” e l’abilità di un buon regista ogni meccanismo di quell’esemplare istituto per la sanità degli anziani denominato  “Quietas”.
Così, dopo che il Lanzan l’aveva ideato e messo in moto, l’attivismo di suor Benedetta aveva poi gradatamente sollevato il Primario da molte incombenze che avrebbe dovuto continuare a dedicargli consentendogli così di passare (vantaggiosamente) la maggior parte del  tempo nel suo studio privato.
La sua attività di Primario si limitava ormai a fugaci apparizioni nell’istituto e, più spesso, a veloci contatti telefonici con l’assistente e, soprattutto,  con la suora che era divenuta in realtà la sua sostituta-factotum,      
Il ricambio del personale sanitario era molto frequente perché, dopo  il praticantato i medici se ne andavano per altri lidi e per altri incarichi non ritenendo appetibile un’ulteriore permanenza alla “Quietas”
E fu la volta di un giovane medico di fresca laurea, Giovanni Diurno, ad approdarvi.

                 Un risultato straordinario

Dotato di ingegno vivace e di una volontà ferrea, appassionato  studioso e desideroso di affermarsi nel campo della geriatria,   si era prefisso di rendere quanto più possibile “vivibili” gli ultimi anni di vita  dei vecchi e, se possibile, di incrementarli.
Quello che per tutti i medici transitati in quella struttura era stato solo un provvisorio periodo di apprendistato in attesa di evadere per altri più appetibili lidi, divenne invece per il dott. Diurno una grande occasione per approfondire i suoi studi operando  su di un prezioso materiale umano a sua completa disposizione e, praticamente, senza rischio alcuno.    
Se, infatti, a seguito delle sue ricerche, avesse dovuto incorrere in qualche “incidente”, nessuno se ne sarebbe accorto, non certamente il Primario il quale, dopo anni ed anni di professione, si era convinto che la fine dei vecchi fosse dovuta soprattutto alla volontà del Signore, e men che mai i parenti che, assai spesso, non aspettavano altro: insomma, il timore della “malpractis” che turba oggidì i sonni dei sanitari di tutte le altre specializzazioni, era, alla “Quietas”, praticamente nullo.
Serio, determinato, aggiornatissimo sulle più recenti acquisizioni scientifiche, alieno da ogni distrazione che pur alla sua età sarebbe stata comprensibile, il giovane assistente conduceva una vita al limite dell’ascetismo dedicata solo ed esclusivamente alla salute dei vecchi affidati alle sue cure.
Il laboratorio dell’istituto, fino ad allora poco o nulla utilizzato, fu, per le sue insistenze, ampliato e dotato di molte moderne attrezzature divenendo così la sede ideale per i suoi studi.
Fino a che, sulla base delle migliori acquisizioni della scienza medica geriatrica e dell’attenta lettura delle più autorevoli riviste in materia, impegnandosi allo stremo ed in gran segreto  ad evitare ogni fuga di notizie, i suoi studi approdarono ad un medicinale destinato, a suo avviso, al sensazionale risultato non solo di migliorare la vita dell’anziano, ma, addirittura, di allungarla.
Lo battezzò “Ultravires 100” (“Oltre i 100 anni”) e, con grande trepidazione, si accinse alla sperimentazione.
Fu dunque distribuito inizialmente ad alcuni ospiti un flaconcino contenente un liquido bianco, trasparente, che i vecchi assumevano volentieri dato il suo gradevole sapore d’arancio.
Al Primario che, in occasione di una delle sue rare visite, aveva chiesto informazioni in proposito, fu risposto che si trattava di un ricostituente, e ciò fu più che sufficiente ad appagare la sua curiosità  ed a tranquillizzarlo pienamente.
In assenza di effetti negativi sul primo campione, la cura fu estesa a tutti i ricoverati per un mese intero, ed il suo effetto  fu sconvolgente.
Piaghe da decubito si rimarginarono, menti intorpidite  ripresero vivacità, muscoli ormai rattrappiti rinvigorirono, chi in passato soffriva di inappetenza riscoprì il piacere della tavola, organi vitali già compromessi si rimisero in moto, vistose zoppie scomparvero, uditi fuori uso si rimisero in funzione, occhi pressoché spenti rividero  la luce, e, perfino, infermiere e portantine, e la stessa suor Benedetta (con suo comprensibile disagio), furono oggetto di attenzioni fino ad allora inconsuete.
I parenti degli ospiti, increduli; il Primario, gongolante, ad attribuirsi meriti che non gli spettavano, ed i pubblici amministratori, avidi di voti elettorali,  a vantarsi degli straordinari risultati ottenuti alla “Quietas”.
Ottenuto questo primo effetto, la cura prodigiosa ebbe anche quello – che era lo scopo principale delle ricerche del Diurno - non solo di migliorare la salute degli anziani, ma addirittura quello di allungarne la vita.
Tutti i ricoverati superarono abbondantemente il secolo e la loro morte avvenne sempre in condizioni ottimali, senza sofferenze ed in condizioni generali ottime, senza quella drammaticità fisica e psichica che assai spesso è ad essa connessa.
Purtroppo, dal punto di vista economico, l’”Ultravires 100” non arrecò al dott.Diurno, oltre alla soddisfazione, anche quel beneficio economico che si sarebbe atteso.
L’autorità sanitaria, in sede di controllo, constatò che una componente del farmaco era altamente cancerogeno e ne vietò per questo la messa in commercio.
Le proteste del Diurno e di molti ambienti medici i quali  mettevano in rilievo che, anche ammessa la pericolosità del farmaco, esso, agendo su di un organismo ormai vecchio, non avrebbe avuto il tempo di manifestare effetti negativi prima della  sua morte, furono vane, e dato che ripetuti, approfonditi studi avevano confermato la cancerogenità dell’”Ultravires 100”, ne fu inesorabilmente vietata la produzione e la vendita e, dopo qualche tempo, cessati i clamori, non se ne parlò più.

                 Una strana reazione

Intanto, la fascia dei vecchi della “Quietas” che avevano assunto l’”Ultravires 100”, pur dopo aver fruito dei suoi straordinari effetti che avevano  condotto alcuni addirittura sulla soglia dei 110 anni, si era esaurita, ed i nuovi ricoverati tornarono ai consueti acciacchi ed alle tribolate dipartite.
Ma all’occhio attento di suor Benedetta, che aveva intensamente vissuto l’avventura dell’”Ultravires 100”, non sfuggì un particolare: Carletto Ripamonti, letto n.26 del padiglione B, di anni 88, era deceduto un anno dopo aver bevuto il nuovo medicamento, all’età di “soli” (in confronto alle “performances” dei suoi colleghi) 89 anni.
Nessuno ci aveva fatto caso, non il Primario immerso nella cura dei suoi ricchi pazienti,  né tampoco potè accorgersene  il dott.Diurno che, pur dopo l’insuccesso della sua scoperta aveva lasciato la “Quietas” per approdare, grazie al clamore suscitato, ad una prestigiosa università statunitense.
Inoltre, la suora aveva notato lo strano effetto che la cura del Diurno stava ottenendo su Cosimo Mangiapane detto Manolo, nato a Napoli, ex impiegato, di anni 95 al momento dell’assunzione della medicina, il quale non solo stava benissimo in salute, ma pareva essersi fermato al giorno del suo novantacinquesimo compleanno.
Non gli era cresciuto, come si suol dire, neppure un anno: e col passare del tempo, anziché invecchiare, ringiovaniva.
Sapete come si dice quando si vuol fare un complimento a qualcuno molto in avanti con gli anni:”Ti trovo benone! Sei ringiovanito!”
Nella maggior parte dei casi non è vero, lo si fa per tener su di morale il vegliardo, insomma, è una bugia a fin di bene, di quelle che i teologi definiscono “aporie morali”, ossia bugie per le quali non si commette peccato perché dette a fin di bene.  
Ma nel caso del Cosimo Mangiapane non era una bugia, era proprio vero: ringiovaniva!.
Dopo cinque anni, allorché anagraficamente  toccò il secolo, Cosimo denotava l’età di un arzillo settantenne e,  dopo altri 5 anni, allorché avrebbe dovuto, conti alla mano, averne centocinque,  aveva l’aspetto di uno che di anni ne ha solo una cinquantina.
La suora, a quel punto, pregò Iddio che la illuminasse a chiarire il mistero e l’aiutasse a non farle perdere la testa.
La sua preghiera venne evidentemente esaudita, perché le venne in mente che  il Cosimo durante tutta la sua permanenza alla “Quietas” aveva occupato il letto n.25 del padiglione B, accanto a quello n. 26 del povero Carletto Ripamonti, quello morto all’età di soli 89 anni, l’unico al quale la cura del dott. Diurno non aveva fatto effetto. Allora, pur dubitando di ottenere una qualche risposta dato il gran tempo trascorso,  chiese al Cosimo se si ricordasse di aver bevuto quella buona medicina dal sapore d’arancio distribuita tanti anni  prima, per un mese di seguito.
“Eccome se me lo ricordo” rispose l’altro, ridendo “era talmente buona che mi sono bevuto anche quella di quel fesso del Carletto che, pace all’anima sua, è restato all’asciutto, e non me l’ha mai perdonata……”.
Mancò poco che alla suora venisse un colpo quando dalla risposta del Manolo ebbe conferma dei suoi neri presentimenti:  evidentemente, l’”Ultravires 100” presa nella giusta dose arrecava eccezionale benessere all’uomo e ne prolungava la vita mentre, al contrario,  l’”overdose” ne avrebbe provocata la regressione e, quindi, la morte per dissoluzione. La morte, quindi,  non per il trascorrere del tempo, ma per l’inversione del processo vitale.
Quante volte la suora aveva udito i suoi vecchi rimpiangere il passato - la  gioventù, i primi amori, il lavoro operoso, l’affetto delle mamme, delle spose e dei figli, gli svaghi semplici, perfino ricordi di guerra che il tempo aveva ingentilito - e colto il loro sogno irrealizzabile di poterlo rivivere.
Ora quel sogno diveniva, per il Cosimo, drammatica realtà.
Era, pensò la donna, come se nell’organismo di quell’uomo si fosse innestata un’assurda retromarcia che, a sua insaputa,  da vecchio l’aveva trasformato in  anziano e poi in uomo maturo: ora, assurdamente, davanti a lui stavano la giovinezza, l’adolescenza, l’infanzia e poi… mio Dio, e poi? si chiedeva disperata la buona donna.
Da allora un pensiero fisso prese ad ossessionare la sua mente: fermare quell’abnorme, orrendo processo messo in moto dalla disordinata assunzione dell’ ”Ultravires 100”.
Ma come, e chi avrebbe potuto?
Pensò che il dott.Diurno sarebbe forse stato in grado di trovare un antidoto per bloccare quell’allucinante processo e riportare Cosimo sul binario di una vita normale rivolta al futuro e non, assurdamente, in corsa verso il passato.
Dopo lunghe ricerche riuscì finalmente a trovare l’indirizzo ed il numero telefonico del Diurno negli Stati Uniti e, facendosi coraggio, lo chiamò.
Il medico, inizialmente lieto di risentire la sua voce, mutò immediatamente registro allorchè suor Benedetta lo informò della drammatica situazione che si stava manifestando alla “Quietas”.
Anzitutto mise in dubbio quanto gli veniva riferito, attribuendolo ad un’allucinazione. Che se poi fosse stato vero, non avrebbe saputo che farci perché, dopo tutte le complicazioni che la sua scoperta gli aveva arrecato, non voleva assolutamente andare incontro ad altre che avrebbero potuto compromettere la sua carriera. Ed il breve colloquio terminò lì.
Allora suor Benedetta, sconvolta, atterrita, si rivolse, in cerca di aiuto, al suo confessore, don Luciano, un anziano sacerdote che saliva ogni tanto alla casa di riposo per dare un saluto ai vecchi ricoverati, ascoltare i loro improbabili peccati e, più spesso, per impartir loro l’estremo saluto.
“Figlia mia” le disse il prete dopo aver ascoltato il drammatico racconto, “se quanto mi dici è vero , e mi pare impossibile, non resta che pregare il Signore affinchè intervenga con la sua potenza ad eliminare il disordine provocato da quell’infausta scoperta. Prega, prega, figlia mia, intensamente, e la Provvidenza provvederà a rimettere le cose a posto”. La benedisse e, terminate le sue incombenze, riprese la via del ritorno.
Allora, in attesa che l’intervento della Provvidenza si manifestasse, non restò a suor Benedetta che pensare ad organizzarsi nel frattempo.
Fortunatamente, grazie al totale disinteresse  di tutti (dal primario all’assistente di turno, agli  infermieri ed al personale di servizio) nessuno si era accorto di quanto stava accadendo.
Terrorizzata dallo scandalo che si sarebbe verificato qualora il caso fosse divenuto pubblico, preoccupata di un suo possibile coinvolgimento nella vicenda, suor Benedetta prese la decisione.
Arredò alla meglio una stanzetta al terzo piano disabitato dell’istituto adibito ad un archivio che in realtà era un cumulo disordinato di carte impolverate sparse dovunque e dove nessuno andava mai, e vi relegò Cosimo con l’incarico di mettervi un po’ d’ordine, e di non farsi vedere da nessuno, assicurandolo che si sarebbe presa cura di lui. Raccontò all’uomo, che le chiedeva il motivo di tale trattamento, che lo faceva per evitare che lo cacciassero dalla “Quietas” dato che da anni nessuno veniva a pagare la sua retta. Era una bugia, ma siccome era detta a fin di bene, non arrecò, per il motivo di cui sopra si è parlato, nessuno scrupolo alla coscienza della buona suora.

               Un processo irrefrenabile

Intanto il “ringiovanimento” dell’uomo procedeva inesorabile e la tragica, assurda situazione era divenuta per la suora un incubo ed una preoccupazione che neppure la preghiera riusciva a placare.
Al contrario il Manolo non aveva percezione alcuna della drammatica situazione in cui si trovava: anzi, avendo una certa familiarità con le scartoffie che aveva maneggiato in vita come impiegato, campava sereno, soddisfatto dell’incarico che lo sottraeva alla monotonia dei giorni fino ad allora trascorsi.
Lo scorrere della sua esistenza “al contrario” era percepito con naturalezza e non suscitava in lui turbamento alcuno: così come per i comuni mortali è naturale nascere e divenire, via via  infanti, bambini, adolescenti, ragazzi e poi giovani uomini, adulti e quindi anziani e vecchi, così per quell’uomo era naturale l’abbandono del bastone, la ricrescita dei capelli, il recupero della vista e dell’udito, la tonicità della muscolatura, lo scomparire delle rughe, la voglia di muoversi,  il mutare dell’alimentazione e dei gusti, la ripresa della funzionalità sessuale e così via.
Cosicchè lo scalare inconsapevole delle età che andava gradualmente raggiungendo nel suo allucinante cammino a ritroso nel tempo, non provocava in lui trauma alcuno ed il suo comportamento non denunciava alcuna problematica psichica.
Solo, una totale dipendenza da suor Benedetta che dell’uomo divenne madre, sorella, confidente, consigliera e protettrice.
             
               Un assistente troppo curioso

L’arrivo di un nuovo assistente, il dott. Franco Galluzi, fu fatale.
Al contrario di quelli che l’avevano preceduto (con l’eccezione, si è visto, del dott. Diurno), egli prese molto sul serio il suo incarico e, appena arrivato, volle conoscere a fondo tutto quanto riguardava la “Quietas” ed i suoi ospiti esaminando con cura i registri della casa anche allo scopo di stilare certe statistiche utili per uno studio sulla sopravvivenza umana cui si stava dedicando.
Fu così che, con sua grande sorpresa, dall’esame dei registri rilevò che tal Cosimo Mangiapane che avrebbe dovuto avere ben 115 anni, risultava tuttora “in forza” alla “Quietas”.
Di sicuro, pensò, dal momento che quell’uomo  risultava tuttora sui registri dell’istituto perché nessuno l’aveva mai “depennato”, da qualche parte ci doveva pur essere, a meno di una clamorosa disattenzione del personale addetto che egli non avrebbe mancato di mettere in evidenza ed, anche, di sanzionare.
Allora, sottopose tutti i ricoverati, ed anche il personale addetto, a stringenti interrogatori.
Inizialmente non ne cavò nulla, neppure da suor Benedetta che con il cuore in gola, piena di paura, se l’era cavata dicendo che quanto accadeva nell’ufficio amministrativo dell’istituto non era di sua competenza perché ben altre, diverse ed importanti erano le sue incombenze.
Ma da un cuoco da poco assunto venne a sapere di uno strano tipo da lui ritenuto un poveraccio cui era consentito per pietà di consumare i resti dei pasti della mensa, che, mentre tutti erano affaccendati a mettere ordine nelle cucine, arrivava quatto quatto, arraffava un po’ di cibo avanzato e quindi se ne andava così com’era venuto.
Mentre l’Annetta Bonacasa, donna delle pulizie, raccontò che una volta l’anno andava a dare una spazzata al terzo piano e che in tale occasione aveva visto aggirarsi fra gli armadi polverosi un uomo che non aveva mai visto e che alla sua vista si era rapidamente eclissato senza dire una parola.
Allora il Galluzi, deciso a battere ogni pista pur di chiarire il caso che, anche, cominciava ad interessarlo, diede ordine di ricercare dappertutto l’uomo misterioso e di portarlo davanti a lui.
Lo trovarono, e gli portarono un giovanotto sulla trentina di buon aspetto che, richiesto delle sue generalità, rispose, senza esitare:”Sono Cosimo Mangiapane detto Manolo” snocciolando altresì il nome del padre e della madre per avvalorare la sua identità anagrafica.
Il medico pensò che quello lo volesse prendere in giro e s’arrabbiò. “Senta, giovanotto – gli disse, guardandolo male – se ha voglia di scherzare questo non è il momento: mi dica chi è e perché si trova qui!”.
E quello a ripetere, per filo e per segno, quanto aveva appena detto.
A suor Benedetta stava venendo male.
E quando, pur sicuro di trovarsi di fronte un pazzo, il dott.                  Galluzzi ebbe effettuato un rapido controllo nell’ufficio amministrativo della casa, restò interdetto: tutto quadrava con le notizie che Cosimo Mangiapane aveva fornito alla segreteria della “Quietas” tanti anni prima all’atto del suo arrivo alla “Quietas”.
Oltre al cognome, nome e soprannome, corrispondevano perfettamente  cognome, nome e età di suo padre, della madre e della defunta moglie, oltre all’attività lavorativa svolta come impiegato presso un’impresa di costruzioni e, sul ventre, la cicatrice di un’operazione di appendicite rilevata a seguito di una visita attenta e scrupolosa effettuata al momento dell’accoglienza nella casa di riposo. Una cosa sola non quadrava: quel giovane uomo avrebbe dovuto avere 115 anni!
A quel punto, subodorando qualcosa di poco chiaro, il dott. Galluzzo decise di informare il Primario che, dopo avergli  dato una lavata di capo (“Ma chi gliel’ha fatto fare di mettere in piedi tutto sto casino”?), si affrettò, a sua volta, ad informare l’autorità sanitaria dalla quale la “Quietas” dipendeva.
Gli ispettori incaricati, resisi conto del fenomeno, si affrettarono a nominare una Commissione d’inchiesta composta da luminari e cattedratici illustri di medicina i quali entrarono subito in azione.
Il povero Manolo, sempre più confuso, fu sottoposto ad ogni genere di indagini, girato di sopra e di sotto, pesato, misurato, radiografato, immerso nell’acqua calda e poi in quella fredda, fatto roteare su di un sedile come quello usato per la preparazione degli astronauti, sottoposto ad elettroshok, costretto ad ingoiare liquidi disgustosi. Insomma, tribolato senza alcuna pietà.
Ma non ne cavarono nulla salvo la conferma che la persona “in oggetto” era la stessa che, entrata alla “Quietas” all’età di 65 anni, ne doveva avere, a conti fatti, 115, ma, a occhio, ne dimostrava una trentina.
Sulle cause del fenomeno, buio completo e la Commissione così concluse i suoi lavori:”In considerazione che il fenomeno oggetto della presente indagine è, allo stato, inspiegabile,in attesa di una nuova nominanda Supercommissione, si dispone che il soggetto “de quo” sia trattenuto nell’ambiente  ove ha fin qui vissuto ed affidato alle cure personali della Direttrice della Casa di  Riposo “Quietas” signora Angelica Diotallevi al secolo suor Benedetta, che sarà responsabile della sua vigilanza”.
                       
                Una drammatica rivelazione

Ma i discorsi fatti in sua presenza, senza alcuna discrezione, dai commissari che lo avevano visitato, evidentemente privi di tatto e di umanità di fronte ad una situazione anomala e delicatissima, ed i titolo cubitali e le cronache dei giornali che impazzavano sul caso, rivelarono al povero Manolo la tragedia che stava vivendo, e la sua esistenza ne fu sconvolta.
Cominciò a deperire, rifiutò il cibo nonostante le affettuose insistenze di suor Benedetta che si esibì in gustosi manicaretti, ammutolì, divenne insonne e cadde in una profonda depressione.
A nulla valsero le parole di conforto della suora che accusava i membri della commissione esaminatrice di essere degli incompetenti, di non capire nulla,  e di dir solo sciocchezze.
“E se, invece, tutto quello che affermano fosse vero? Fin che ci sei tu, Benedetta, non ho paura: ma dopo? Chi si prenderà cura di me quando sarò tornato ragazzo, bambino, infante e poi…” concludeva scoppiando in un pianto irrefrenabile e rifugiandosi nella braccia consolatrici della donna “sfumare nel nulla?”.              
A sua volta la povera suora si trovava in una situazione altrettanto angosciosa, senza poter fare alcunché per fermare l’assurdo destino che incombeva su quel pover’uomo.          
Unico conforto, per entrambi, le preghiere che recitavano spesso chiedendo al Signore che ponesse fine alla loro pena.
Purtroppo, la situazione divenne sempre più tragica.
Assurdamente, la prospettiva del ringiovanimento che per  ogni uomo sarebbe fonte di gioia, costituiva per Cosimo Mangiapane un drammatico avvicinamento al momento della sua completa dissoluzione.

                         La Provvidenza

Benedetta quel giorno d’estate salì come di consueto al terzo piano per salutare Manolo e portargli un po’ di cibo.
Giunta davanti alla porta della sua cameretta bussò ma, non avendo ricevuta alcuna risposta, l’aprì piano piano e vide l’uomo che, in piedi davanti alla finestra aperta, nel trionfo di un tramonto estivo, con il sole, enorme, che calava sempre più all’orizzonte, guardava, fissamente, verso il basso.
L’uomo non si era accorto della sua presenza, e solo quando la donna, avvicinatasi, lo salutò, si girò di scatto guardandola con occhi allucinati: quindi, con mossa altrettanto repentina, tornò a girarsi appoggiando le mani sulla soglia della finestra con il chiaro intento di scavalcarla.
Con una prontezza di cui ella stessa si sorprese, suor Benedetta, con un grido disperato “Noo!” si lanciò sull’uomo riuscendo ad abbrancarlo per gli stinchi.
Si ingaggiò allora una violenta lotta fra l’uomo, ormai fuor di senno, e la donna, avvinghiata a lui che lo chiamava per nome nel vano tentativo di farlo recedere dal suo folle proposito.
Ma la furia dell’uomo che scalciando violentemente cercava di liberarsi dalla stretta di Benedetta che non mollava la presa, il peso del suo corpo ormai quasi completamente penzolante nel vuoto agitando scompostamente le braccia, quasi un assurdo nuotare nell’aria per favorire la caduta verso il basso, ebbero la meglio ed entrambi precipitarono.
Benedetta si stupì di quante cose le venivano in mente nel breve attimo in cui, prima di schiantarsi a terra, rimase librata nell’aria.
“E’ vero, oh se è vero che c’è la Provvidenza!” pensava inconsapevolmente echeggiando le parole del Manzoni nei “Promessi sposi”. “Tu, Signore hai ascoltato le nostre preghiere  ed ora stai rimettendo ordine in questo dramma. Hai  avuto pietà di questo pover’uomo ponendo fine alla sua assurda esistenza, e di certo perdonerai il folle gesto causato dalla sua mente sconvolta. Ed io metto fine ai miei timori, alle mie paure, al tormento per aver allora imprudentemente acconsentito ad una sperimentazione che aveva l’ardire di modificare il corso della vita e sconvolgere l’ordine da te stabilito. Ma tu sai, Signore, che le mie intenzioni erano buone e sono certa che nella Tua misericordia perdonerai anche me”.
La tragica fine della vita di Cosimo Mangiapane                ebbe una vasta eco anche al di fuori degli italici confini. Pagine e pagine di giornali, servizi in radio e televisione, convegni e dibattiti.
Ma il mistero dell’uomo che “viveva all’indietro” come scrisse coloritamente un noto giornalista,  è rimasto insoluto:  nonostante ripetute e attente autopsie il caso,  rimasto insoluto turbò la mente di scienziati, filosofi, religiosi.
Non mancò neppure chi lavorò perfidamente di fantasia e, commentando la circostanza di quella religiosa e di quel giovane uomo precipitati abbracciati dalla finestra del terzo piano di una casa di riposo, adombrò il dubbio della tresca.
Da allora, però, alla “Quietas” (e, per quanto si sappia, nel mondo) non si verificarono più  casi di uomini che “campavano” come scrisse quel giornalista, “all’indietro”,  cosicchè i suoi ospiti continuarono a vivere rivolti verso il futuro ed a  morire, regolarmente, come vuole il Signore, guardando avanti.   G.Zannini
                                                       
                                                                 






mercoledì 1 ottobre 2014

IL "CORPO AEREO ITALIANO" (CAI) NELLA BATTAGLIA D'INGHILTERRA

Nell’agosto 1940 fu costituito in Italia, con reparti aerei fino ad allora impegnati nella guerra contro la Francia che si era arresa in luglio,  un corpo di spedizione aereo denominato C.A.I. – Corpo Aereo Italiano – avente lo scopo di cooperare con la Luftwaffe alla “Battaglia d’Inghilterra”.
L’organico, tratto dal volume di Rosario Abate “Storia dell’Aeronautica Italiana” (Casa  Editrice Bietti  - Milano 1974) era il seguente:
- 2  stormi da bombardamento con 75 bimotori Fiat B.R.20;
- 1 stormo da caccia su due gruppi  con 50 biplani Fiat C.R.42 e 48 monoplani Fiat G.50;
- 1 squadriglia da ricognizione strategica con 5 trimotori Cant Z-1007 bis.
Gli aerei, riconoscibili da una striscia gialla sulla carlinga, furono schierati sugli aeroporti di Espinette, Chièvres, Melsbroek, Maldegern ed Ursell, tutti in territorio belga, e d’intesa con i tedeschi fu loro assegnata una zona d’operazioni così delimitata: a Nord dal 53° parallelo N; a Ovest dal 1° meridiano W Gr; a Sud dal fiume Tamigi.
Il gruppo operò  dal 22 ottobre al 23 dicembre 1940 ed il  rientro si concluse nel gennaio 1941. Solo il gruppo da caccia  dei Fiat G.50  si trattenne in Belgio con compiti di difesa dalle incursioni aeree britanniche  sui territori belgi ed olandesi  fino alla metà di aprile 1941.
A parte l’abnegazione degli aviatori italiani ed il loro valore spesso, come si vedrà, eroico, l’apporto del C.A.I. alla “Battaglia d’Inghilterra” fu piuttosto modesto sul piano militare e Rosario Abate, nel volume più sopra citato,  scrive di “inconsistenza dei risultati ottenuti” e definisce quella del C.A.I. una “operazione dimostrativa di nessuna utilità pratica”.  
Molte le cause di questa “inconsistenza”. Anzitutto, le condizioni ambientali avverse caratterizzate dall’estrema variabilità delle condizioni metereologiche  specie nella stagione invernale alla quale gli italiani, normalmente operanti in clima mediterraneo, non erano – e non sono – avvezzi.
E proprio le avversità atmosferiche  spesso proibitive furono la causa  di molti incidenti verificatisi fin dal viaggio di trasferimento dall’Italia al Belgio, cosicchè su 34 vittime della spedizione 20 furono dovute ad incidenti e  14 a combattimenti, mentre gli aerei perduti per incidenti di volo furono 26 e 10 quelli in combattimento.    
Altra causa,  la netta inferiorità, rispetto agli avversari, per  le condizioni in cui i piloti italiani erano costretti ad operare e per la  qualità degli aerei in dotazione. Il  sergente Luigi Gorrini, pilota da caccia, medaglia d’oro, 24 apparecchi abbattuti, in un suo racconto autobiografico ricorda:”…i caccia Fiat  G.50  non parteciparono ad alcuna azione perché non avevano autonomia e passata la Manica dovevano tornare subito indietro…Eravamo in braghe di tela e non avevamo riscaldamento sugli aerei che peraltro erano aperti…Alle 11 di mattina  i poveri specialisti si attaccavano alle eliche degli aerei che non riuscivano a far girare perché l’olio era diventato duro…Le piste erano fangose ed i piloti mancavano d’addestramento… Ossigeno che si bloccava, senza radio… Non avevamo neppure le carte…”. E  conclude, melanconicamente:”…Francamente, avevamo solo gli occhi per piangere, abbiamo fatto la guerra in queste condizioni…”.
Talmente penose che gli alleati tedeschi si sentirono in dovere di fornire al C.A.I. le stufe catalitiche per scaldare i motori, le combinazioni di volo, i guanti ed i caschi nuovi (perché i nostri avevano ancora il caschetto di tela), le strumentazioni per il volo senza visibilità, i dispositivi di protezione contro la formazione del ghiaccio, ed a “corazzare” in qualche modo i nostri fragili velivoli.
Ma  i nostri piloti diedero sempre prova di grande coraggio e di spirito di sacrificio:  valga, per tutti, la drammatica descrizione dell’incursione dell’11 novembre 1940 emergente dalla relazione dattiloscritta del defunto col.Alessandro Citterio di Milano,  allora giovane tenente venticinquenne, gelosamente custodita dal figlio avv.Paolo.
Ad ore 12, il decollo. Partono, agli ordini del t.col. G.Battista Ciccu,  due squadriglie di B.R.20: la 242a del cap.Nicola Volpe con 5 aerei, e la 243a del cap.Agostino Rabino anch’essa con 5 aerei. Alla 243° appartiene il B.R.20  MM 21879 del ten.Citterio con equipaggio: 2° pilota s.ten.Angelo Cattaneo, motorista 1° aviere Enrico Giannesini, armiere  1° aviere Umberto Cucino, marconista 1° aviere Giuseppe Gaspardi. Obbiettivo la città di Harwich con i suoi impianti industriali ed il porto.
La partenza di sorpresa a mezzogiorno conta sul fatto che i caccia inglesi, provati da precedenti interventi, non si sarebbero alzati: ma la previsione è errata perché, appena giunti in territorio inglese, gli “Spitfire” non tardano ad apparire ed a mitragliare con tiro micidiale gli aerei italiani privi di qualsiasi corazzatura. Anche se, per la verità, una corazzatura c’era. Scrive infatti Citterio:”…Ad annullare lo svantaggio della mancanza di corazzatura,  abbiamo in capo un bell’elmo d’ acciaio che è quello in dotazione alla fanteria. Dobbiamo proprio essere ridicoli  con quest’arnese di guerrieri di terra a sostenere una battaglia in quota!...”.
Gli “Spitfire” e la contraerea non perdonano: tutti gli aerei della 243° sono colpiti, e due abbattuti. Pure quello di Citterio incassa colpi: una raffica colpisce il 2° pilota che si accascia, e lui è costretto, pilotando con una mano, a liberare con l’altra i comandi dal corpo del ferito. Poi è la volta del marconista e del motorista ad essere colpiti, mentre l’armiere, ferito ad una mano e non in grado di maneggiare l’arma, si trasforma in puntatore ed urla le correzioni di rotta.
Neppure Citterio scampa alla mitraglia, è ferito alla coscia destra ma non è grave e continua, in quell’inferno, a pilotare. La macchina è di nuovo ferita: i proiettili  raggiungono il cruscotto, i motori hanno forti vibrazioni, la pressione di alimentazione diminuisce ed il pilota dubita che l’apparecchio ce la faccia a mantenersi in volo. A questo punto, proseguire o invertire la rotta? La decisione è presa: avanti!  La caccia inglese, esaurita l’autonomia di volo, fortunatamente scompare ed il B.R. 20, raggiunto l’obbiettivo, molla il suo carico di bombe, alleggerendosi. Il puntatore comunica di aver colpito le navi, ma non è il momento di rallegrarsene, perché Citterio deve ora riportare alla base il suo apparecchio  carico di uomini insanguinati e dei loro lamenti, senza sapere se i motori  riusciranno a percorrere i 200 chilometri che da essa li dividono. Allora, la tentazione di un attimo:  l’atterraggio  di fortuna sul suolo nemico, e la resa.
“Ma” scrive Citterio “mi riprendo subito. Preferisco affrontare ogni difficoltà pur di non cadere in  mano nemica” e giunge, con il cuore che pulsa disperatamente, sul continente ove  occorre atterrare ad ogni costo perché il carburante è agli sgoccioli. Le nubi ostacolano la visibilità del pilota che, pur privo di altimetro, le buca per esplorare, disperatamente, il territorio sottostante. Si prepara al rischio dell’atterraggio fuori campo  allorchè gli pare di vedere  la pista di un areoporto, l’armiere  spara un razzo ed ecco che “compare a terra la freccia di segnalazione  per la direzione del vento  e delle fumate si accendono rapide…”.  L’aereo pur esausto, risponde fiducioso agli ordini del suo comandante che, stremato, lo conduce a toccar terra, “ed i motori si arrestano di colpo. Mi sembra che il mito della Madonna di Loreto divenga realtà”. E’ accolto da un ufficiale tedesco:” Con l’elmo in testa – scrive Citterio -, maglione e guanti lordi di  sangue e la combinazione stracciata,  devo avere un aspetto ben grottesco”. Pur intontito, si preoccupa dei feriti e così conclude, senza enfasi (il virgolettato è di chi scrive, per evidenziarlo) il suo drammatico racconto: ”Il volo è durato più di tre ore e mezzo e la prova è stata “abbastanza” dura. La ferita mi brucia e penso di non sentirmi “troppo” bene. Riesco a raccogliere , in un estremo sforzo, codici e cifrari,  poi cado a terra sfinito”.
L’equipaggio è decorato con la croce di ferro dai tedeschi ammirati  che gli italiani  abbiano il coraggio di compiere simili imprese di giorno e con i B.R.20 ben diversi dai loro possenti “Messerschmit”. Da parte sua l’Italia decora l’equipaggio con tre medaglie d’argento ed una di bronzo. All’aereo, malconcio, cambieranno tutti e due i motori e gli impennaggi di coda.
                                                                                                         Giovanni Zannini

lunedì 29 settembre 2014

Nella prima Guerra Mondiale - GRAZIE AI RUSSI ALLEATI GENEROSI

IL 21 giugno 1916 l’arciduca Eugenio d’Asburgo comandante della  11° e 13° Armata austriaca inviò ai suoi soldati impegnati nella Strafexpedition (l’offensiva punitiva contro l’Italia accusata di tradimento nei confronti dell’Austria) un proclama nel quale si affermava tra l’altro:”…Proprio quando vi accingevate… alla   battaglia  che doveva aver ragione dell’ultima linea nemica  sui monti ed aprirvi  completamente la via per la pianura, con la morte nel cuore dovetti ordinarvi di fermarvi … Considerazioni di livello superiore hanno richiesto da voi questo sacrificio in  modo che i confini della nostra grande Patria potessero meglio essere difesi in un  altro teatro di guerra…“.
Ma quali erano  le “considerazioni di livello superiore” che avevano fermato la corsa dei soldati austriaci
 (sorpresi ed increduli degli ordini ricevuti) verso la pianura padana  che si apriva, dalle ultime balze dell’altopiano, ai loro occhi avidi di vittoria e di prede? 
Per rispondere a tale interrogativo occorre, esaminando il panorama della 1° guerra mondiale nel 1916, spostarsi dal fronte sud che dalla Svizzera giungeva al mare, ove si fronteggiavano italiani ed austriaci,  a quello orientale che si estendeva dal Baltico alla Romania ove gli austriaci si dovevano difendere dai russi.
E’ qui, infatti,  che si verificarono quegli avvenimenti che determinarono indirettamente il fallimento della Strafexpedition e la fine di un’avanzata austriaca, che pareva inarrestabile.
Sul fronte russo, dopo i primi successi ottenuti,  era prevalsa negli austriaci  la sensazione che  l’esercito russo non costituisse più un grave pericolo a causa delle gravi perdite ad esso arrecate, e ciò li portava ad escludere  la possibilità che essi prendessero iniziative offensive.
Questa erronea supposizione indusse il Quartier Generale austriaco a trasferire nella primavera del 1916 da quello russo al fronte sud,  nel  Trentino e sull’Altopiano di Asiago, le sue migliori divisioni (quelle miste - in sigla K.u.K. – composte da soldati austriaci ed ungheresi, ben diverse da quelle composte da soldati  slavi cechi e ucraini  politicamente poco  affidabili perché la Russia, tramite il panslavismo, aveva un pericoloso potere di attrazione nei loro confronti),  e gran parte dell’artiglieria per rinforzare  quella  Strafexpedition che avrebbe dovuto dare una dure lezione agli italiani e punirli per il loro tradimento.      
Ma tale situazione fece scattare l’alleanza  stipulata fra Italia, Francia, Inghilterra e Russia in base alla quale sarebbe stato portato aiuto all’alleato il cui territorio fosse stato invaso dal comune nemico:  e da parte sua la Russia onorò tale impegno dando inizio nella tarda primavera del 1916 ad un’offensiva in Bucovina  avente lo scopo di  alleggerire la pressione austriaca nel fronte sud contro l’alleato italiano, e che pose in pericolo i confini stessi dell’Austria.
L’offensiva russa ottenne un inaspettato successo iniziale contro l’esercito austriaco  imprudentemente debilitato   dal trasferimento delle sue migliori truppe (soprattutto austriaci e magiari) e di gran parte dell’artiglieria, sul fronte italiano. Truppe e artiglieria precipitosamente ritirate dal fronte italiano e ritrasferite in tutta fretta sul fronte orientale (si pensi ai problemi organizzativi derivanti dai ripetuti  spostament di grandi masse di militari) per fronteggiare l’imminente pericolo russo, con evidente sollievo sul fronte italiano con il fermo  di una   Strafexpedition che pareva inarrestabile. 
Ebbe così inizio, sul fronte orientale,  la “Battaglia di Luck” (località della Bucovina) che dal giugno all’ottobre del  1916 costituì una delle più grandi su tutti i fronti della 1° guerra mondiale, con una spaventosa perdita di vite umane: pur fra dati discordanti, si parla di un milione e duecentomila fra morti e feriti nell’esercito russo e di due milioni nell’esercito degli imperi centrali.                         
L’attacco russo aveva avuto un completo successo iniziale con l’apertura di una breccia ampia 85 chilometri e profonda 48 che nella sua  avanzata poneva in pericolo la stessa patria austriaca. Ma, alla fine, l’offensiva   esaurì il suo slancio e per la tardiva resistenza avversaria che, come visto sopra,  aveva in fretta e furia fatto rientrare le sue truppe migliori dal fronte italiano, e per la mancata collaborazione delle altre  armate russe  che restarono pressoché inattive.
A seguito di ciò il successo iniziale si tramutò in una battaglia di esaurimento nella quale i russi subirono perdite enormi  che influirono sul morale delle truppe turbate anche dalle  voci inquietanti che provenivano dal fronte interno e che alla fine portarono alla drammatica resa della Russia nel 1917.
E’ dunque doveroso manifestare riconoscenza alla Russia  di allora per  il sacrificio di così tanti suoi soldati morti nella “Battaglia di Luck” che provocò l’arresto di quella   Strafexpedition in procinto di dilagare nella pianura padana e, forse, di compromettere l’esito finale dell’immane conflitto.           Giovanni Zannini
                                                                                                                          

 



  
  







La guerra sull'Altopiano di Asiago - VISTA CON GLI OCCHI DEL NEMICO

L’opera scritta a due mani da P.Pozzato e R.Dal Molin “DALL’INTERROTTO ALL’ORTIGARA – La Maginot austriaca sull’Altopiano dei 7 Comuni”(stampato presso  Cierre Grafica  - Caselle di Sommacampagna  (VR) – Ed. Marzo 2012) contiene il diffuso, dettagliato rapporto dei fatti d’arme avvenuti nel 1916 sull’Altopiano di Asiago redatte dal Magg.Gen.Rudolf Mulller che comandò la 12° brigata di fanteria K.u.K. (mista, composta da soldati austriaci, Kaiserlich, imperiali, e ungheresi, Koneglich, regi) sull’Altopiano di Asiago.
In esso viene rievocata la brusca frenata della sin ad allora vittoriosa Strafexpedition che aveva portato gli austriaci  fin sul bordo estremo dell’altopiano di Asiago pronti a dilagare nella sottostante pianura padana, resa necessaria nella tarda primavera del 1916 dalla necessità di trasferire  sul fronte orientale russo (ove infuriava la sanguinosa “Battaglia di Luck” che poneva in pericolo gli stessi  confini della madrepatria austriaca) le migliori divisioni  “K.u.K” che avevano fin  ad allora partecipato alla travolgente avanzata che dovette, per tal motivo, essere arrestata.
La nuova situazione impose al Comando austriaco di conservare il terreno strappato agli italiani durante la travolgente avanzata e quindi  di spostare il proprio fronte dal limite estremo dell’altopiano prospiciente la pianura, poco difendibile,  e di arroccarsi, arretrando per circa 4/6 chilometri, su di una linea di resistenza più corta che andava dal Monte Interrotto al Monte Ortigara. Fu quindi necessario costruire una linea di resistenza a oltranza munita di fortificazioni campali che gli autori del libro non esitano a paragonare alla francese Linea Maginot della 2° guerra mondiale. In realtà, essa non fu  mai infranta nonostante i ripetuti, accaniti, sanguinosi, furibondi contrattacchi degli italiani che, in ossequio  ad ordini che oggi si possono ben definire criminali, furono massacrati a migliaia dinanzi alle invalicabili trincee austriache.
Una linea che si dimostrò robusta ed inattaccabile, ricca di ricoveri, caverne e trincee ben allestite  ma che essendo prima ed anche unica perché priva di altre linee arretrate, doveva essere difesa ad ogni costo e con qualsiasi mezzo, ivi comprese le forche che erano state erette all’inizio della Val Galmarara, monito per chi avesse cessato la resistenza e scelta la via della fuga dinanzi al nemico.
E’ certamente merito degli autori di aver pubblicato il rapporto  Muller scritto poco dopo la fine del conflitto allorchè i ricordi erano ancora ben vivi nella sua mente, che consente di conoscere da un nemico sostanzialmente obbiettivo e che non esita talora a riconoscere cavallerescamente il valore del soldato italiano, atti ed avvenimenti poco e forse per nulla noti in Italia.
Ci limitiamo qui a riportarne alcuni. 
Apprendiamo così che durante la terribile, imponente  nevicata dell’inverno 1916/1917 che scaricò sui monti dell’Altopiano di Asiago fino ad 8 metri di neve, gli austriaci, anziché spalarla dalle trincee, operazione lunga ed improba, preferirono ricavare nelle trincee stesse una serie di tunnel nei quali ad intervalli di 20 passi venivano aperti pozzi verso l’alto per far passare luce ed aria ed installare posti di osservazione.
Sfruttando tale modalità gli austriaci, durante lo stesso inverno, “per ravvivare la guerra di posizione e dare al nemico tutti i grattacapi possibili” mossero  alcuni originali attacchi contro le difese italiane creando  piccoli gruppi di incursori–assaltatori composti di  7/8 uomini armati, ad imitazione dei nostri “arditi”, di sole bombe a mano, pugnali e rivoltelle.
Furono scavate per essi, durante la notte, nella neve alta 8 metri, delle gallerie ad altezza d’uomo che arrivavano a ridosso delle trincee italiane ed a quel punto gli assalitori emergevano dai pozzi di uscita dai tunnel aggredendo di sorpresa i nostri soldati in trincea seminando morte e distruzione.
In uno di questi tentativi si verificò un fatto singolare che pur nella sua drammaticità assume aspetti umoristici.
Per infliggere più gravi danni al nemico con un maggior numero di assaltatori,  fu in un caso studiato un piano di attacco che prevedeva, per poter raggiungere le trincee italiane distanti 500 passi,  lo scavo di tre gallerie  correnti a distanza di  50 passi l’una dall’altra.
I due uomini addetti allo scavo della galleria di centro udirono ad un certo punto con sorpresa e preoccupazione il rumore di altre pale che scavavano nella neve e ritennero trattarsi di italiani che, informati delle loro intenzioni, stavano scavando una contro-galleria. Ecco il racconto del Col. von Ventour comandante del 17° Reggimento di fanteria che aveva autorizzato l’impresa :”…i due decisero di starsene tranquilli, con il pugnale in mano ed attendere fino a che non fosse comparso l’italiano per saltargli subito al collo finchè si udì chiaramente il rumore vicinissimo delle pale e dopo pochissimo tempo fece la sua comparsa una pala sulla quale, con rapida decisione, uno degli uomini si gettò afferrandola saldamente per trattenere l’italiano e poi gettarsi su di lui, allorchè dall’altra parte risuonò un inequivocabile ”Preklet hudic!” (maledetto demonio) e quando cadde il muro di neve che ancora li separava due soldati austriaci dello stesso 17° reggimento di fanteria si trovarono uno di fronte all’altro”.
 Cos’era successo?
 I due uomini addetti allo scavo di una delle gallerie a fianco di quella centrale, avevano “sbagliato strada”  e, invece di tirare diritto, avevano deviato verso quella centrale fino ad impattarla, con le conseguenze sopra descritte. Superato l’incidente, l’azione proseguì e, purtroppo per gli italiani, ebbe, secondo il comandante austriaco,  esito positivo mentre gli incursori austriaci ebbero a lamentare la perdita di un caporale.
“In questi mesi” scrive Muller, soddisfatto, “le nostre pattuglie d’incursori  ottennero splendidi successi sull’intero fronte italiano”.
Ma altri particolari sconvolgenti emergono dal suo rapporto.
Dopo uno dei loro disperati, inutili attacchi, i fanti italiani si ritirarono lasciando nel tormentato terreno denominato “terra di nessuno” esistente fra le trincee austriache e quelle italiane, un  gran numero di morti che spargevano un odore nauseabondo e penetrante per cui  ”…nella notte sul 10 luglio (1916) il nemico li cosparse di benzina e diede loro fuoco. Simili a delle fiaccole fiammeggianti queste colonne di fuoco illuminarono per tutta la notte la terra di nessuno”.
Poi, un inedito “affumicamento” provocato dagli italiani per tentare di snidare gli austriaci dalle loro trincee. “Nel settore nord dopo un fallito attacco il nemico,  in corrispondenza della zona della 9° compagnia, diede fuoco con i lanciafiamme  al bosco che la notte precedente aveva innaffiato con liquido infiammabile. Tra crepitii, scoppiettii e tuoni  il bosco bruciò per l’intera giornata…ma l’obbiettivo italiano non venne raggiunto perché la valorosa 9° compagnia resistette con coraggio…”.
Tra l’altro, da un episodio riportato nel rapporto, apprendiamo come, nella 1° guerra mondiale, i cani collaborarono con i soldati italiani nella difesa della patria.
 “…Nelle ore serali il caporalmaggiore Neumann cercò di snidare un saliente nemico. Si portò con i suoi uomini  fino a 30 passi dagli italiani. Tradita troppo presto da un “cane da trincea” e scoperta, la pattuglia dovette ripiegare dopo la morte del suo caporalmaggiore che tanto spesso si era distinto…”.
Evidentemente, gli italiani erano riusciti a militarizzare perfino i cani.
Ma fra tanta ferocia, anche qualche segno d’umanità.
Dopo un’ intensa giornata di feroci combattimenti,  “…la notte una serie di ambulanze italiane si portò attraverso Rodighieri e  Bosco fin davanti alla nostra linea per recuperare gli innumerevoli feriti e sgomberare i cumuli di cadaveri: neppure un colpo austriaco” sottolinea la relazione, “disturbò questo nobile dovere cameratesco”.
Infine, la pietà.
Così il Magg.Gen. Muller conclude la sua rievocazione: “Fu grazie all’intima collaborazione  del Cappellano Steiner, dei Ten. Loschnig e Wurtinger,  e di molti volontari, che venne realizzato un grazioso cimitero sull’Interrotto. In una radura solatia ed amena, curati ed assistiti dall’amore dei camerati, dormivano il loro sonno  i fedeli, indimenticati eroi del reggimento. Il Ten.Loschnig…venne proposto dal reggimento  per la croce d’onore  per gli ufficiali di II classe della croce rossa  col rango di cavaliere”.
Se la proposta fu accettata,  mai medaglia fu più meritata.
                                                                                                                                      Giovanni Zannini     

          

domenica 24 agosto 2014

PER SCONFIGGERE LO STATO ISLAMICO

La decisione dell’Europa e dell’Italia di armare le milizie che si oppongono all’avanzata dei rivoluzionari dell’ISIS che intendono istituire in Irak e nei confinanti stati mediorientali  lo “Stato islamico dell’Irak e del Levante” è certamente da approvare. Anche il Papa ha affermato che è legittimo fermare con le armi la violenza di chi vuole imporre con la forza un regime assoluto violatore della libertà altrui che non esita ad uccidere senza pietà chiunque non condivida la religione islamica o, meglio, quello che essi, erroneamente, affermano essere la religione dell’Islam.
Ciò premesso, si ritiene che la decisione presa (l’invio delle armi ai controrivoluzionari) non sarà in grado di risolvere da sola gli scottanti  problemi che assillano attualmente tutto il medio oriente se non sarà nello stesso tempo accompagnata da interventi mirati ad eliminare le cause che a quella inumana, feroce violenza, hanno dato origine.        
Infatti, scopo dichiarato dell’autoproclamatosi Califfato è quello di instaurare in Irak e Siria e, successivamente, in tutto il medio-oriente, lo stato islamico, una società perfetta modellata secondo i dettami del Corano e quindi priva di quelle ingiustizie sociali, politiche ed economiche attribuite al mondo occidentale.
Se dunque fosse proprio quest’ultimo ad eliminare con la cooperazione internazionale le ingiustizie sopra denunciate dagli estremisti dell’ISIS ecco che sarebbero  ad essi  sottratte quelle motivazioni che spingono molti musulmani a seguirli ed a compiere orrendi delitti.         
Andare, quindi, all’origine, per comprendere quali sono le cause scatenanti della barbara violenza degli estremisti, per combatterle ed eliminarle. Una politica del doppio binario, dunque, fermare con le armi la violenza ma poi agire sul piano politico sociale in aiuto a popolazioni  miserabili perchè la sola resistenza armata all’estremismo avanzante, e la sua sconfitta,  non servirebbe a risolvere le problematiche della società medio-orientale, ma solo a coprirle lasciandole, irrisolte,  ardere sotto la cenere.
Un discorso, questo, che la società internazionale dovrà decidersi, finalmente,  a recepire, e che saremmo lieti di sentir fare dal nostro Presidente del Consiglio aduso ad affrontare problematiche incancrenite e per troppo tempo tollerate: che le battaglie sin qui intraprese in campo internazionale per motivi umanitari si vincono non solo sul piano militare ma anche, e soprattutto, su quello della giustizia.


                                                                                                               Giovanni Zannini   

GIORNALISTI CONDOTTIERI NEL RISORGIMENTO

Al giorno d’oggi i giornalisti possono seguire come inviati le operazioni militari dalle retrovie delle truppe combattenti,  con molte limitazioni, quindi,  rispetto a quei corrispondenti di guerra  che nel passato riuscivano spesso ad andare in prima linea con tutti i rischi relativi.
Nel nostro Risorgimento, soprattutto nell’ambiente garibaldino, particolarmente vivace, vi furono almeno due casi nei quali giornalisti dotati di grande coraggio e di spirito d’avventura seppero impugnare, oltre alla penna, anche la spada con risultati assai brillanti anche dal punto di vista militare.
Uno di questi fu Nandor Eber  (1825-1885) di origine ungherese naturalizzato inglese, patriota che si era battuto per la libertà dell’Ungheria dall’Austria e che, falliti i tentativi insurrezionali, si era rifugiato con altri compatrioti in Italia combattendo per la sua libertà e dando vita, assieme al col. Istvan Turr, alla valorosa “Legione ungherese” che si battè agli ordini di Garibaldi in molte sue imprese.
Nel 1860 lo troviamo accreditato come corrispondente inglese del “Times” a Palermo e grazie ad informazioni acquisite in tale veste, è in grado di fornire a Garibaldi giunto in vista di Palermo l’esatta dislocazione delle truppe borboniche poste a difesa della città. Ciò facilita la sua conquista ed in premio della preziosa collaborazione Garibaldi lo nomina sui due piedi colonnello brigadiere e gli affida, in sostituzione del col. Turr ammalato, il comando della 15° divisione - della quale fa parte la “Legione ungherese” – che attraversato il centro dell’isola  passando per Caltanisetta e Castrogiovanni, raggiungerà  il 25 luglio 1860 Catania già abbandonata, dopo averla saccheggiata, dai Borboni.
La “Legione” parteciperà poi in maniera così determinante alla battaglia campale del Volturno da far dire a Garibaldi:” La “Legione Ungherese” che ho l’onore di comandare ha dato prova di dedizione e di eroismo sulla scia della gloria del suo popolo”.
Altro protagonista di tale singolare filone giornalistico-militare risorgimentale fu Antonio Gallenga (1810-1895) nato a Parma,   figlio di un ufficiale piemontese dell’esercito napoleonico.
Personaggio esuberante condusse in giro per il mondo una vita colta e peripatetica, movimentata e piena d’avventure.
Negli Stati Uniti  insegnò italiano a New York ed a Boston, in Inghilterra ebbe la cattedra d’italiano al Quenn’s College di Londra e della Nuova Scozia, insegnò a Eton, tenne corsi su Dante a Manchester, in Italia insegnò a Firenze, tenne conferenze e scrisse un libro.
Come giornalista lavorò per il “Times” che alla fine lo utilizzò come inviato all’estero.
Intraprendente in campo sentimentale seppe mettere a profitto il cuore con gli interessi e un paio di buoni matrimoni gli assicurarono ottime rendite inducendolo a prendere la cittadinanza britannica vivendo fra gli agi.
Politicamente inquieto, in gioventù antimonarchico, aveva progettato di assassinare il re Carlo Alberto al grido di “Lunga vita all’Italia, e muori!”: ma il regicidio era fallito…perché l’attentatore non era riuscito a procurarsi l’arma  per metterlo in atto.      
 Però il comportamento di Vittorio Emanuele II a favore dell’Unità d’Italia gli fece cambiare opinione, ne divenne entusiasta sostenitore tanto da partecipare alla spedizione garibaldina in Sicilia.
Era giunto a Messina a bordo del piroscafo “Washington” mandato dal “Times” per sostituire Eber che, forse troppo impegnato dal comando della sua 15° Divisione, aveva un po’ trascurato la penna.
E siccome anche Antonio Gallenga di guerra, di armi e di soldati se ne intendeva per aver menato le mani nel 1848 a Milano ed a Mantova, e per aver raccontato (sempre per jl “Times”) la campagna d’Italia del 1859, Garibaldi nominò anche lui colonnello e gli affidò, assieme ad un altro colonnello inglese, John Whitehead Peard , il comando di una colonna di volontari inglesi (la “Legione inglese”) con l’incarico di precederlo, dopo il passaggio dello stretto di Messina, nella marcia di risalita della penisola.
Occorre premettere che, stando a quanto riferisce lo stesso Gallenga, “per Garibaldi era la norma impartire ordini di marcia e poi partire lui stesso in testa con quelli del suo seguito , dando per scontato che il suo esercito sarebbe arrivato subito dopo, ma ponendosi di rado il problema di accertare se lo facesse o no”. Pare strano, ma così scrive l’autorevole firma del “Times”. L’avanzata di Garibaldi da Reggio a Napoli avvenne dunque con la seguente modalità: avanti a tutti la ”Legione inglese”  che precedeva anche di 150 chilometri il Generale accompagnato da un modesto seguito, staccato, a sua volta, dal grosso dei suoi uomini  che lo seguiva a distanza.
Il col. Peard, un pezzo d’uomo grande e grosso, con una gran barba, spesso con il “poncho” e con in capo un cappello piumato (indossato anche dai suoi uomini che taluni chiamarono perciò i “bersaglieri inglesi”), assomigliava molto a Garibaldi ed è  ricordato come “l’inglese di Garibaldi”.
Accadeva così che, scambiandolo per Garibaldi, i borbonici, terrorizzati dalla sua fama, se la davano a gambe: ed in tal modo il col.Peard ottenne ad Auletta la resa di ben 10.000 di loro comandati dal gen.Calderelli.     
Ed a Gallenga va il merito di aver convinto, grazie alle sue conoscenze in campo avversario, il governo napoletano a lasciare Salerno senza combattere  e ad arroccarsi a Capua al riparo del Garigliano  e del Volturno.
Se dunque Garibaldi potè giungere a Napoli con sorprendente rapidità, lo si deve anche alla “Legione inglese” che, condotta dal gigantesco col.Peard e dal suo collega Gallenga contribuì poi anche alla vittoria garibaldina nella battaglia del Volturno che segnò la fine del Regno delle due Sicilie.
Resta da dire sulle virtù giornalistiche dei due. Pare che Nandor Eber come corrispondente di guerra alla quale partecipava in prima persona non fosse ovviamente molto imparziale anche perché si sospetta che se si fosse dimostrato  neutrale molti lettori  del “Times”, grandi ammiratori di Garibaldi, se ne sarebbero dispiaciuti: quindi…
Per quanto riguarda Antonio Gallenga la sua specializzazione, prima di divenire inviato all’estero, doveva essere stata quella di commentatore politico  a giudicare dai violenti editoriali sul “Times” contro Mazzini al quale rimproverava l’avversione alla monarchia sabauda.
Parliamo, infine, di compensi.
Non risulta quanto fosse pagato Eber, ma per quanto riguarda Gallenga si sa che per raccontare la seconda guerra d’indipendenza italiana del 1859 il “Times” gli versò ben 80 sterline al mese che per l’epoca era una cifra enorme, per cui si ritiene che gli onorari incassati  per i suoi  servizi sull’impresa dei Mille  (oltre al soldo spettantegli per il suo servizio militare) abbiano costituito un importo assai ragguardevole.
Ci si rende quindi conto come i guadagni della sua attività giornalistica sommati alla rendita di 1000 sterline annue derivantegli dalla morte della moglie Juliet Schunck ( ricca ereditiera di famiglia ebraica) gli abbiano consentito di acquistare il castello di Llandogo  nel Galles ove si riposò fino all’età di 85 anni dalle fatiche accumulate  durante la sua lunga, movimentata vita.
                                                                                                     Giovanni Zannini