martedì 28 aprile 2015

LA PRIMA "CAMPAGNA" DEGLI EBREI IN PALESTINA

La conquista della Palestina da parte del popolo ebreo è esaltato nella Bibbia come episodio glorioso e segno della benevolenza divina.
Eppure si trattò di una grave ingiustizia: la lotta del popolo ebreo per impadronirsi di territori abitati da altri popoli considerati nemici da sconfiggere e sterminare per far posto al loro.
Le pagine della Bibbia grondano di elogi per le battaglie sostenute dagli ebrei e da espressioni di ammirazione per il loro coraggio nello sconfiggere i nemici, in realtà popoli che cercavano disperatamente di salvare la propria libertà ed il diritto di esistere nella loro terra.
Val dunque la pena di seguire quella che si potrebbe chiamare la “Prima Campagna di Palestina” combattuta secoli fa dagli ebrei provenienti dall'Egitto per impadronirsi della terra promessa loro dal Signore.
Dopo la lunga marcia nel deserto guidati da Mosè in continuo contatto con il Signore che li guida dall'alto, essi raggiungono finalmente il fiume Giordano: ma qui Mosè, dopo aver avvistato da lontano la meta tanto agognata, muore.
Allora, il comando del popolo e dell'esercito che lo accompagna passa a Giosuè ( figlio di Nun, ministro di Mosè) ed il Signore lo invita a passare il fiume.
Prima, però, Giosué manda avanti due esploratori per rendersi conto di come stanno le cose al dilà del fiume, e quelli trovano accoglienza presso Raab, “una donna” dice la Bibbia, “di malaffare”, ma molto generosa, presso la quale “riposarono” per tutto il tempo della loro missione, ragione per cui quale compenso per l'ospitalità offerta ottiene l'assicurazione che non avrebbe avuto alcuna seccatura una volta che fossero arrivati gli ebrei vincitori.
Intanto i due esploratori, felicemente rientrati, riferiscono a Giosué che tutti gli abitanti al dilà del fiume “erano abbattuti dallo spavento” dovuto alla fama di grandi guerrieri di cui godevano gli ebrei che stavano per attaccarli.
Tranquillizzato, Giosué si prepara all'attraversamento, ma il fiume è ingrossato dallo scioglimento delle nevi del monte Ermom, per cui l'impresa é oltremodo difficoltosa: che fare?
Ci pensa il Signore a trarlo d'impaccio. Memore della strategia usata sul mar Rosso per far fuggire gli ebrei dall'Egitto, utilizza lo stesso metodo per far loro attraversare il Giordano. Per questo incarica i sacerdoti che portano “l'arca dell'alleanza” di metter piede nell'acqua del Giordano, ed ecco che “le acque che scendevano di sopra si fermarono in un sol luogo alzandosi come un monte (una vera e propria montagna d'acqua - n.d.a.)...e quelle che andavano in giù seguitarono verso il mare del deserto (detto ora Mar Morto) e sparirono del tutto”. In tal modo “tutto il popolo passò per il letto disseccato del Giordano” assieme a 40.000 dei 100.580 soldati che formavano l'esercito degli ebrei, mentre gli altri 60.580 restarono a difendere da eventuali aggressioni la Transgiordania già conquistata.
Da parte sua il Giordano, appena i sacerdoti con l'arca dell'alleanza furono usciti dal fondo disseccato, riprese il suo corso regolare.
Finalmente, la terra promessa è a portata di mano! All'attacco, dunque: primo obbiettivo, la città di Gerico.
Per la verità, non é gran fatica conquistarla, perchè grazie all'arca dell'alleanza che vi aveva fatto molti giri attorno, alle potenti trombe di robusti sacerdoti ed alle grida altissime di tutti gli ebrei come ordinato da Giosué, “le mura caddero subito” ed allora gli ebrei “uccisero tutto quello che vi era, dall'uomo alla donna, dal fanciullo al vecchio. Misero a fil di spada anche i buoi , le pecore, gli asini...e diedero fuoco alla città ed a tutto quello che vi era dentro eccettuato l'oro, l'argento, i vasi di rame e di ferro che consacrarono all'erario del Signore.” .
Ma i vincitori mantengono la parola, e salvano la vita a “Raab meretrice con tutti quelli che sono in casa con lei ...perchè essa nascose gli esploratori da noi mandati”. Non solo, ma apprendiamo pure, da una nota in calce alla suddetta Bibbia, che “la famiglia di Raab verrà ammessa a far parte del popolo d'Israele” e che “é ritenuta dai Padri come una figura della Chiesa”.
L'offensiva procede. Da Galgala, che é la base operativa ove ha posto il suo quartier generale, Giosué punta sulla città di Ai per la quale il Signore ordina di fare tutto quello che era stato fatto alla città ed al re di Gerico: unica eccezione, questa volta, non dovevano accoppare gli animali.
E così avviene: tutti i 12.000 abitanti di AI, fra donne e uomini, sono uccisi e, in più, il re sconfitto è crocifisso ed a sera il cadavere é gettato all'ingresso della città e ricoperto da un mucchio di sassi
E' la volta di Gabaon i cui abitanti, atterriti dalla fama guerriera degli ebrei, si arrendono ed anzi si alleano con loro suscitando la reazione dei re di Ebron, di Ierimot, di Lachis e di Eglon che muovono contro di loro per punirli. Ma anche questa coalizione viene sonoramente battuta dagli ebrei che riducono a pezzi gli avversari, e quelli che scampano sono fatti fuori dalle pietre che il Signore scaglia dal cielo su di loro.
I cinque re sono scoperti in una caverna, impiccati e poi sepolti proprio nella caverna nella quale avevano tentato di salvarsi.
La “Campagna” militare di Giosué prosegue vittoriosa, tutti i 31 re , elencati ordinatamente come in un moderno bollettino di vittoria, sono sconfitti e uccisi, ed alla fine tutta la Palestina è in mano agli ebrei.
Missione compiuta.
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Abbiamo riassunto il “Libro di Giosué” (scritto, secondo la Bibbia dei Paolini Ed. 1945, non prima del regno di Davide - 1012/972 - e non dopo l'epoca del re ACAB – 878/857 -) che narra la storia dell'occupazione della Palestina da parte degli ebrei sotto la direzione prima di Mosé e poi di Giosué, sempre guidati dall'alto dal Signore.
Dalla sua lettura abbiamo appreso interessanti informazioni che val la pena commentare.
Anzitutto: il fatto straordinario delle acque del Mar Rosso che si aprono per far passare gli ebrei in fuga dall'Egitto, si verifica tal quale con il fiume Giordano le cui acque sono bloccate fino a che gli ebrei son passati sul suo letto disseccato per conquistare la “terra promessa”. Forse pochi lo sapevano.
Poi, che lo stato d'Israele, il popolo prediletto del Signore, è sorto sul genocidio degli abitanti di Gerico, Ai, Maceda, Lebna, Lachis, Gazer, Eglon, Ebron, Dabir, Asedot e di molte altre città, tutti passati a fil di spada assieme ai loro re “senza lasciarvi alcuno” e uccidendo “tutto quello che poteva respirare”.
Fortunati i cittadini di Gabaon che salvarono la pelle impegnandosi però per tutta la vita a “tagliar legna e portar acqua...a servizio di tutto il popolo” d'Israele.
Circa la famosa frase pronunciata da Giosué “fermati o sole!” - che così grande importanza ebbe nel processo a Galileo Galilei – riteniamo sia stata motivata dal fatto che con il permanere più a lungo della luce solare, la mattanza degli Amorrei sarebbe riuscita meglio.
Infine, non può non stupire quel Signore che, in continuo contatto verbale con loro, guida dal cielo l'invasione degli ebrei in Palestina proteggendoli ed incitandoli ad agire con feroce determinazone.
S.Agostino, di fronte a passi della Bibbia che suscitano perplessità, dice: ”Qui, o c'è uno sbaglio di copista, o il traduttore non ha reso bene l'originale, o io non capisco”.
E noi siamo di quelli che non capiscono perchè un Signore che dovrebbe essere saggio, giusto, buono e misericordioso, abbia potuto appoggiare e guidare un'impresa così violenta e criminale che rammemora altre invasioni ed altri eccidi avvenuti tanti secoli dopo, giustamente condannati dal mondo intero.

Padova 25-4-2015                                                                                                  Giovanni Zannini


mercoledì 22 aprile 2015

SOMMERGIBILI PORTAEREI GIAPPONESI NELLA II GUERRA MONDIALE

L’innegabile ingegno dei tecnici giapponesi si manifestò nella 2° Guerra Mondiale anche con la costruzione di sommergibili che costituirono il mezzo più sofisticato prima dell’avvento dei sommergibili nucleari: i sommergibili-portaerei.
Si trattava di due categorie di grandi sommergibili “Sen Toku” aventi caratteristiche assai simili (dislocamento a nave vacante tonn.2.919, a pieno carico tonn.4150, l’una; tonn.2.589/3.654 l’altra; entrambe lunghezza oltre m.110 , equipaggio oltre 100 uomini, armati di un cannone, mitragliere anti-aeree, 6 tubi lanciasiluri - veri e propri incrociatori subacquei ) sui quali al centro del ponte veniva collocato un “hangar” capace di contenere la carlinga di un piccolo idrovolante con le ali ripiegabili.
Sopra di esso veniva installata la consueta torretta di comando: una struttura, quindi, che si elevava notevolmente in altezza e che dava certamente l’impressione di una torre navigante.
Giunto il momento dell’impiego, la carlinga veniva estratta dal suo abitacolo, le ali dispiegate e quindi l’aereo, scagliato da una catapulta, decollava.
L’aereo era un piccolo idrovolante da ricognizione “Yokosuka” categoria “Glen” con un equipaggio di uno o due uomini, lungo m.8,54, apertura alare m.11, velocità massima kmh 246, armato di una mitragliatrice da 7,7 millimetri, in grado di trasportare sulle ali due bombe da 70-80 chilogrammi.
Evidente la pericolosità di questa macchina da guerra in grado di avvicinarsi notevolmente, inosservata, al territorio nemico e quindi di lanciare l’aereo prima che la difesa contraerea si allarmasse; e se anche la modestia del materiale esplosivo trasportato rendeva l’offesa molto limitata, l’effetto doveva essere tuttavia soprattutto psicologico e influire negativamente sul morale della popolazione civile(si pensi alla paura provocata in Italia dalle incursioni del famoso “Pippo”).
Circa il suo impiego, è conosciuta l’operazione compiuta dal sommergibile I-25 alla fine di agosto 1942 contro il territorio statunitense in località Wheeler Ridge, 4 miglia a sud-est di Mount Emily sulla costa dell’Oregon.
Emerso a poca distanza da Capo Blanco il sottomarino lanciò l’aereo pilotato dal Ten.Fujta Nobuo con a bordo due bombe sub-alari al fosforo da 76 chilogrammi che vennero sganciate su di una fitta foresta incendiandola: terminata la missione, il velivolo venne recuperato senza problemi.
Oltre a ciò pare, ma non è certo, che lo stesso aereo abbia effettuato un secondo “raid” nell’Oregon, pur esso con risultati assai modesti: sta però di fatto che l’allarme provocato indusse gli americani a dislocare nella regione una squadriglia di aerei da caccia.
I danni arrecati in questo caso al nemico dall’impiego di sottomarini-portaerei furono assai limitati, ma l’effetto fu traumatico per gli americani che, sicuri dell’inattaccabilità del proprio territorio, si resero invece conto che anche la loro fortezza poteva essere violata: ed a guerra terminata i giapponesi riconobbero l’errore di non aver insistito maggiormente su tale tipo di offesa.


Bibliografia
E.ROSSLE = U-BOAT = F.lli Melita Editori – La Spezia 1993

ALBERTO ROSSELLI “Le operazioni dei sommergibili giapponesi lungo le coste occidentali statunitensi 1941/1942” – su Internet

lunedì 20 aprile 2015

A difesa della patria - IN TRINCEA E NEI CIELI

Rientrato, dopo lo scoppio della guerra, in Italia dalla Russia ove si era recato per lavoro, Arturo Zannini da Borso del Grappa, classe 1887, è arruolato ed assegnato il 17 novembre 1915 al 1° Reggimento Granatieri di Sardegna. Inviato in zona di guerra nel febbraio 1916, partecipa come soldato semplice ai duri combattimenti sull'Altopiano di Asiago, sul S.Michele e, infine, da ufficiale, sull'Hermada ove il 10 giugno 1916 è ferito ad un ginocchio e quindi trasferito per cure all'Ospedale Vignola di Milano.
Durante la malattia e la convalescenza è “ispirato” scrive in una sua lettera, “dal valore dei nostri piloti”, ed è desideroso di “tutelare con le mie ali i granatieri” nelle trincee ove ha a lungo combattuto. Perciò, appena guarito, chiede ed ottiene di entrare a far parte del nuovo “Corpo Aeronautico Militare” all'epoca ancora dipendente dall'Esercito: solo il 28 marzo 1923, infatti, veniva istituita la “Regia Areonautica”come Arma indipendente da Esercito e Marina.
Il corpo era composto da ufficiali provenienti dalle diverse armi dell'esercito che mantenevano le proprie divise caratterizzandosi solo per un'aquila sul braccio destro. Il ten.Zannini potè così continuare a fregiarsi degli alamari (un girocollo bianco, residuo delle sgargianti divise dei granatieri creati da Vittorio Amedeo II di Savoia) che nella sua corrispondenza definisce “sacri” così come li esaltava all'epoca lo spirito di corpo dei granatieri.
Inizia così il 5 aprile 1918 la sua scuola di volo presso il “Battaglione scuola aviatori” del campo d'aviazione di Venaria Reale (Torino) ed il “Libretto personale di volo” rintracciato fra le carte custodite dal figlio, costituisce un prezioso documento sugli inizi dell'aviazione militare italiana.
Il rischio per i partecipanti alla scuola era altissimo (si parla di un rischio morte del 35% e forse più) causato e dalla scarsa affidabilità dei velivoli e dall'accelerata istruzione degli allievi per fornire al più presto uomini al nuovo corpo solo recentemente costituito.
“Cappellano Militare e ambulanza della Croce Rossa erano sempre presenti in areoporto al bordo delle piste” ricordava Zannini. Ed in proposito citava come, rientrato, un pomeriggio, da una breve commissione a Torino, ebbe la traumatica notizia della morte del collega con il quale condivideva la camera, dalla divisa insanguinata gettata con noncuranza militaresca, sul suo letto.
Gli incidenti si verificavano soprattutto in fase di atterraggio, ed il “Libretto di volo” del giovane allievo ne attesta uno, fortunatamente non grave, avvenuto l'8 maggio nel corso della lezione n.23. L'istruttore annota infatti:”Qualche volta atterra picchiato. Arriva lungo e va contro un altro apparecchio rompendo un rotatore ed un montante”.
Il programma didattico prevedeva inizialmente il “rullaggio” a bordo della carlinga di un aereo privo di ali (definito in gergo “Checca”) sul quale l'allievo vagolava sul campo per prendere confidenza con il motore ed il timone di direzione.
Successivamente, il rullaggio su veri aerei, il “Bleriot“ (36 HP) ed il “Caudron” (ben 80!), poi, il 27 aprile, il primo “decollaggio”: la strada del cielo si è aperta. E si vola : la quota raggiunta l'11 maggio è di 400 metri; il 13 si sale a 800; il 20, a 1050; il 21, nello stesso giorno, in tre lezioni, si raggiungono i 1300 metri, poi i 1500, infine, i 2200.
Così, in 41 giorni, dopo 45 lezioni e 6 ore e 53 minuti di volo, l'allievo ottiene il 1° Brevetto di pilota il giorno 23 di maggio.
Per perfezionarsi è trasferito, alla stessa data, al campo di Cascina Costa (vicino a Busto Arsizio) ove dal 29 maggio al 17 luglio vola su aerei “Aviatich” e “Nieuport” ottenendo il 2° Brevetto, dopo di che è di nuovo trasferito sul campo di Furbara (vicino a Roma) per lezioni di acrobazia e tiro su sagome in mare ove Zannini, tutto preso dalla mira, sta per finire, e solo una brusca virata ed il suo sangue freddo lo salvano.
Ottenuto il 30 agosto il 3° Brevetto, il tenente pilota Arturo Zannini è pronto per l'impiego ed il 23 settembre è destinato al Campo d'Aviazione di Terni al comando della 306a squadriglia: l'ordine è di opporsi a possibili incursioni nemiche miranti a colpire le famose acciaierie ove si costruiscono i cannoni tanto necessari al fronte.
Il 4 novembre la guerra finisce, ed il Ten.Arturo Zannini, inviato in congedo il 26-8-1919 sale per l'ultima volta sul suo fedele “Nieuport” che, ricorda fieramente, “porta dipinta sull'ala l'aquila che fra gli artigli ghermisce i Sacri Alamari sormontati dalla fiamma del I Reggimento Granatieri”.




martedì 14 aprile 2015

Maggio 1915 - ANATOMIA DI UNA CALDA PRIMAVERA

I primi 23 giorni del mese di maggio 1915 furono, metaforicamente, se non i più caldi, certamente fra i più caldi della storia d'Italia. Furono essi, infatti, a maturare con una velocità impressionante gli avvenimenti che portarono l'Italia ad entrare nella Grande Guerra scoppiata in Europa il 28 luglio 1914.
Fu un susseguirsi di colpi di scena internazionali, e, in Italia, il frenetico contrasto fra gli interventisti eccitati dai proclami di Gabriele d'Annunzio, ed i neutralisti capeggiati da Giolitti restii ad entrare in un conflitto che si annunciava immane ed incerto.
Per questo, abbiamo voluto analizzare quei terribili giorni prendendo le mosse dalla situazione internazionale in cui l'Italia si trovava a seguito delle trattative intercorse nei mesi precedenti alla sua discesa in guerra sia con le potenze dell'”Intesa” (Francia, Inghilterra, Russia) che con l'Austria-Ungheria e la Germania, facenti parte della Triplice Alleanza alla quale apparteneva, allora, l'Italia.
Avvertendo, per la chiarezza, che nel corso dell'analisi che segue le parti in contesa saranno come sopra denominate “Intesa” e “Triplice”.


Le trattative con la “Triplice”.
L'Italia che già dal 3 agosto 1914 aveva dichiarato la propria neutralità nel conflitto mondiale scoppiato il 28 luglio dello stesso anno, aveva dal dicembre 1914 iniziato trattative con l'Austria condizionando la propria neutralità ad una serie di richieste territoriali che non erano state però accolte nonostante la mediazione del tedesco principe Bulow, già Cancelliere tedesco, buon conoscitore ed amico dell'Italia, in missione a Roma per evitare la rottura della Triplice Alleanza e la conseguente entrata in guerra dell'Italia a fianco delle potenze dell'Intesa. Ma la missione era fallita e di conseguenza l'Italia, con dichiarazione 4 maggio 1915 aveva posto fine ad ogni trattativa denunciando contemporaneamente l'alleanza che la legava all'Austria-Ungheria. La motivazione di tale decisione era stata la mancata informazione da parte dell'Austria della sua intenzione di dichiarare guerra alla Serbia a causa dell'omicidio avvenuto il 28 luglio a Serajevo dell'arciduca Francesco Ferdinando, ed il turbamento che ne era derivato allo “statu quo” esistente nei Balcani, come pattuito nell'alleanza stessa.


Le trattative con l'”Intesa”.
L'Italia aveva allacciato, fin dal 4 marzo 1915, trattative segrete con il ministro degli esteri inglese Grey quale esponente delle potenze dell'Intesa al quale era stato fatto pervenire un “memorandum” in XVI punti contenenti le nostre condizioni per scendere in guerra al loro fianco.
Anche qui le trattative furono laboriose, con alti e bassi, ma alla fine i rappresentanti delle potenze dell'Intesa siglarono a Londra il 26 aprile 1915 un accordo che recependo tutte le richieste contenute nel “memorandum” italiano portava l'Italia a schierarsi con l'Intesa.


Da tutto quanto sopra emerge indiscutibilmente che per un certo periodo l'Italia aveva contemporaneamente trattato sia con le potenze dell'Intesa che con l'Austria e ciò aveva suscitato le sue aspre accuse di doppiezza nei nostri confronti.
Da parte sua il presidente del Consiglio italiano Salandra nel suo libro “L'intervento” (Casa Editrice A.Mondadori – 1930) dal quale sono tratte molte delle informazioni qui riportate, riconosce la fondatezza dell'accusa ma scrive “potrei rispondere senz'altro: quel governo che non ha mai trattato da due parti tiri la prima pietra”. E cita, in proposito, Metternich e Bismarck.
Ma torniamo alla situazione esistente in Italia nelle bollenti giornate del maggio 1915.
Ricordiamo: il 26 aprile l'Italia aveva sottoscritto a Londra un accordo che la impegnava a scendere in guerra a fianco dell'Intesa avendo essa accettato tutte le pretese da essa avanzate con il noto“memorandum” in XVI punti; ed il 4 maggio l'Italia aveva rotto l'alleanza con l'Austria che non aveva invece aderito alle sue richieste.
A turbare questa situazione che pareva chiara e stabilizzata, interviene un fatto nuovo: le lettere 10 e 11 maggio 1915 dell'ambasciatore di Germania a Roma principe Bulow infaticabile nello sforzo di evitare il conflitto fra Italia ed Austria ma dimentico che già i rapporti diplomatici con quest'ultima si erano interrotti.
Esse accompagnavano le dichiarazioni pari data sottoscritte dal Bulow stesso nella sua qualità di Ambasciatore di Germania in Italia e dal suo collega ambasciatore d'Austria in Italia barone Macchio, illustranti le definitive concessioni che l'Austria-Ungheria era disposta a fare all'Italia.
Tali concessioni che in realtà quasi nulla aggiungevano a quelle già fatte in precedenza, diedero origine ad un'offensiva in Parlamento dei neutralisti italiani capeggiati da Giolitti con la sua famosa teoria del “parecchio” secondo la quale era opportuno accontentarsi delle ultime offerte austriache pur di evitare il flagello di una guerra dall'esito incerto, mentre gli interventisti infiammati dall'oratoria di D'Annunzio (suo il famoso discorso del 12 maggio dal balcone dell'Hotel Regina a Roma) spingevano per la discesa in campo a fianco dell'Intesa contro l'Austria-Ungheria.
Questa situazione pose in grave difficoltà il presidente del consiglio Salandra il quale, di fronte all'ipotesi di dover rinnegare l'accordo già raggiunto con l'Intesa - che sollecitava gli impegni presi con essa il 26 aprile a Londra - consegnò il 13 maggio le dimissioni nelle mani del re che il 16 maggio le respinse. Non restò allora che rimettersi alle decisioni del parlamento che convocato per il 20 maggio, avrebbe dovuto prendere la suprema decisione: pace o guerra?
Ritengo a questo punto opportuno segnalare quanto emerge a pag. 297 del libro di Salandra.
Scrive infatti l'autore:””... Il 18 (maggio) il ministro Riccio (Vincenzo - poste e telegrafi – n.d.a.) mi scriveva: ”In questo momento l'avv.Carlo Patriarca mi dice che è incaricato da Sua Santità di fare un' urgente comunicazione; ed è che l'Austria è disposta ad accettare tutte le richieste dell'Italia dandovi esecuzione immediata. Sua Santità vuole che un membro del governo ne sia informato. Ho risposto che non credo sia il caso di riferire la cosa al Presidente del Consiglio e che io non l'avrei riferita”. Il Patriarca era un professionista serio e stimato, con larga clientela negli ambienti cattolici. Aveva pure domandato di essere ricevuto da me; ma, forse scoraggiato da Riccio, non insistette””.
E' strano che l'autore abbia scritto quanto sopra senza rendersi conto che ciò avrebbe potuto evidenziare una sua gravissima omissione ed un atto di accusa contro di lui: non aver approfondito la notizia pervenutagli nel timore che si evidenziasse una circostanza che sarebbe andata a favore delle tesi neutraliste e fatto crollare quelle interventiste da lui sin ad allora tenacemente perseguite. Le preoccupazioni per la sua carriera politica prevalsero dunque sull'interesse della nazione?
Ma chiudiamo questa inquietante parentesi non senza aver prima messo in tutta evidenza che da quanto sopra emerge ancora una volta il fattivo, generoso interessamento sempre manifestato dalla Santa Sede per evitare il sanguinoso conflitto.
Oramai gli avvenimenti precipitano.
20 maggio 1915: nella seduta alla Camera dei Deputati il ministro degli esteri Sonnino presenta il “Libro Verde” con il quale si ripercorrono le trattative intercorse fra Italia ed Austria-Ungheria dal 9 dicembre 1914 al 4 maggio 1915. Quindi il disegno di legge in un solo articolo con il quale si conferiscono al governo del re “poteri straordinari in caso di guerra” viene approvato con il seguente risultato: votanti 482, 407 a favore, 74 contrari, un astenuto. Solo i socialisti e pochi altri che con un discorso di Turati si confermano neutralisti, votano contro: gli altri si sono volatilizzati.
21 maggio: il Senato approva lo stesso disegno di legge con 281 voti a favore su circa 300 presenti: anche qui, i neutralisti sono sfumati.
22 maggio. Non doma, l'Austria-Ungheria, con il ministro degli esteri Burian, consegna al duca di Avarna, ambasciatore d'Italia a Vienna, una lunga nota in risposta alla denunzia dell'alleanza notificatagli fin dal giorno 4. “Un bel caso” commenta Salandra “di tardigrada burocrazia diplomatica”.
23 maggio: in risposta, Avarna, ambasciatore d'Italia a Vienna, presenta la dichiarazione di guerra dell'Italia all'Austria-Ungheria.
24 maggio: le truppe italiane varcano la frontiera austriaca.

8 aprile 2015 Giovanni Zannini


venerdì 10 aprile 2015

Racconto - UNA POLIZZA TROPPO GENEROSA

“Guarda, sto porco!” dice un giorno il dr. Franco Liconti, impiegato all'ufficio sinistri della Compagnia di Assicurazioni “Tranquilli & Sicuri” al collega della scrivania accanto. “Il rag.Modesto Faibene lo conosco perché è stato mio capufficio. Tutto casa e chiesa, attenti a come si parlava, vietate le barzellette sporche, di bestemmie neanche parlarne, guai se uno si prendeva confidenze con una collega, o se quella si metteva la minigonna o era troppo scollata. Ma adesso che ha 74 anni, è dirigente in pensione, e vedovo, si è trasformato in un mandrillo che cambia donna anche un paio di volte l’anno! E non guarda tanto per il sottile, per lui vanno bene tutte, dalle ventenni alle cinquantenni e anche oltre! Non c’è che dire, un bell’esempio di “cattolico praticante”, come lui si vantava di essere!”.
In effetti, le prove del dissoluto comportamento sessuale del Rag. Faibene, in netto contrasto con i principi religiosi da lui sempre professati, c’erano tutte, inequivocabili, ed erano fornite dalle “denunce di sinistro” con successiva richiesta di rimborso che egli inviava con una certa frequenza alla Compagnia di Assicurazioni ”Tranquilli & Sicuri” presso la quale la ditta ove aveva lavorato per ben 42 anni aveva stipulato una polizza contro le malattie e gli infortuni a favore dei propri dirigenti dopo il pensionamento.
La copertura assicurativa era molto vasta e riguardava i ricoveri, gli interventi chirurgici, le degenze, le assistenze domiciliari post operatorie, le spese per esami di laboratorio, radiografie, cure riabilitative, spese oculistiche, odontoiatriche, infermieristiche ecc.ecc., insomma i benemeriti datori di lavoro presso cui il Faibene aveva lavorato (e l’auspicio è che anche molti altri seguano il loro esempio) si erano preoccupati di sollevare i propri ex dirigenti, che tanto avevano collaborato alle fortune dell’azienda, da ogni e qualsiasi spesa derivante dalle magagne di salute cui essi, per l’età, erano fatalmente destinati ad andare incontro. E, si badi bene, tale assistenza così completa era prestata non solo a favore dell’ex dirigente, della moglie e dei figli, ma addirittura dell’eventuale “convivente more uxorio”: più ampia di così!
“Guarda qua”, dice lo scandalizzato Liconti mentre snocciola al collega le prove dell’insaziabile attività sessuale del pio Faibene.
“Il 12 ottobre 2011 chiede il rimborso di una fattura dell’importo di Euro 3. 100,00 da lui pagate alla clinica “Supersalux” per un intervento di appendicectomia - con relative rette di degenza – effettuato su tal Cristina Brambilla, di anni 55, casalinga, chiaramente qualificata sua “convivente more uxorio”.
Ma la Cristina era succeduta, sempre come “convivente more uxorio”, alla Angelica Coletta di anni 19, barista, che l’11 marzo dello stesso anno , a seguito di frattura tibio tarsica da incidente stradale, era stata sottoposta, nella stessa clinica, ad operazione chirurgica di osteosintesi per la quale il Faibene aveva sborsato ben 4.421 Euro dei quali chiedeva all’ assicurazione il rimborso.
L’anno precedente, ossia il 2010 – prosegue lo scandalizzato racconto dell'attento impiegato dell'Ufficio Sinistri - il Faibene aveva presentato la richiesta di rimborso di Euro 2.500,00 da lui pagate per un chep-up completo effettuato in data 1 settembre sulla sua “convivente more uxorio” Diomira Recalcati, di anni 70, pensionata che, evidentemente, aveva voluto dare una controllatina al suo stato di salute. Nel 2009  la sua “convivente more uxorio” di turno, Carla Paz, messicana di anni 28, operaia, si era  fatta cavare un paio di denti sostituiti con altri due, con una spesa di 3400,00 Euro che il Faibene aveva pagato al dentista e che l’assicurazione gli aveva rimborsato. Mentre è il 2008 che, francamente, impressiona, perché prima, il 2 febbraio, chiede il rimborso di € 3.100,00 da lui anticipate per un intervento di ulcera gastrica effettuato sulla “convivente more uxorio” dell’epoca, Caterina Conquelli, di anni 60, insegnante, e poi, solo pochi mesi dopo, il 7 agosto, di € 4.888,00 da lui anticipate per pagare cure ospedaliere (sempre nella migliore clinica cittadina) e rette di degenza a seguito di una polmonite patita dalla nuova “convivente more uxorio”, Mariolina Sveglia, di anni 19, studentessa della facoltà di filosofia.
E quello che stupisce - conclude l’attento impiegato rivolto al collega, piuttosto perplesso, anche se un po’ ammirato per le “performances” amorose del vecchio dirigente - in tutto questo tempo, manco mezzo euro di spese per la sua salute, ma migliaia per curare quella delle sue scalognate “conviventi more uxorio” che, se avessero saputo che portava iella, si sarebbero ben guardate, in futuro, dall’andare a letto con lui.
Ma quello che fece traboccare il vaso fu l’ impudente richiesta di rimborso, avanzata dal Faibene, della fattura di Euro 4.400,00 datata 20 febbraio 2012 emessa dalla solita clinica “Supersalus” relativa alla cura di una depressione in cui era caduta la Carmela L. – il nome non si può dire perché, come si vede, è una cosa delicata - educatrice, di anni 44, pur essa “convivente more uxorio”, che in realtà, a seguito dell’attenta lettura della cartella clinica effettuata dal dr.Liconti, emerse essere nientemeno che la madre Badessa di un convento di suore che gestivano l’ Asilo Infantile “Casa degli Angeli”.
Di fronte ad un tale scandalo l'impiegato si rivolse per istruzioni al suo direttore che lo lodò per l’attenzione dimostrata e lo incaricò di un’approfondita indagine (“discreta, per carità”) su tutta la faccenda.
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Alla fine, dalla diligente inchiesta del dr.Liconti emerse che il Faibene, anziché erotomane incallito, e seduttore di pie donne come tutto sembrava dimostrare, era in effetti un sant’uomo, da porre, alla sua morte, sugli altari.
Rimasto, solo dopo pochi mesi dal pensionamento, vedovo, si era dato alle opere di bene e, approfittando delle generose garanzie della polizza stipulata dal suo ex datore di lavoro a favore dei suoi ex dirigenti, ed in particolare della clausola relativa ai “conviventi more uxorio”, era divenuto il benefattore di tante donne, monache comprese, che o prive di assistenza sanitaria, o perché non in grado di pagare i “tikets”, o perché necessitanti di ricoveri urgenti senza dover sottostare ad infinite attese, o per altre gravi necessità, egli faceva passare per sue “conviventi more uxorio” consentendo loro di godere (si fa per dire) di una pronta assistenza sanitaria , oltrettutto, di prima qualità.
Vorrei vedere, si era detto con un sorrisetto, come anche il più zelante impiegato dell'Ufficio Sinistri potrebbe controllare se io con le sinistrate ci vado a letto regolarmente, “more uxorio”: ed aveva con tranquilla coscienza iniziato la sua benefica attività di falso “convivente more uxorio” a fin di bene.
Il direttore dell’Ufficio Sinistri della “Tranquilli & Sicuri”, ricevuta la diligente relazione del suo impiegato - che ebbe una promozione - si affrettò ad informarne il collega dell’Ufficio Assunzioni (quello che vigila sull’andamento delle polizze, ossia quanti sinistri producono e quanti soldi fan pagare) ed insieme si recarono dal Direttore Generale per un lungo, approfondito consulto alla fine del quale, per evitare che altri generosi ex dirigenti seguissero l’esempio del loro pio collega, e che la polizza divenisse una specie di pronto soccorso per donne bisognose con problemi di salute, si decise di eliminare dalla polizza incriminata la famigerata (per la Compagnia) clausola relativa ai “conviventi more uxorio”.
A seguito di ciò il Faibene fu costretto a sospendere, con rammarico, la sua proficua attività umanitaria, ma il peggio toccò a quei ex dirigenti che una “convivente more uxorio” ce l’avevano sul serio, e che da quel momento furono costretti a pagare di tasca propria le magagne delle loro amanti.

Giovanni Zannini.

LA "IPSEFOBIA"

RACCONTO                                                

Il prof. Pio Tranquilli, docente di filosofia nella locale Università, era un uomo sui trent’anni piuttosto piccolo, robusto, ma agile ed asciutto, con il viso austero, solenne, e gli occhi scuri, profondi. Una figura che non poteva sfuggire  a chi avesse un minimo di spirito d’osservazione  perché denotava un notevole contrasto  fra il capo, da pensatore,  ed il corpo, da pugile della categoria  dei pesi mosca.
Gentilissimo, salutava tutti, anche quelli che non  conosceva; scapolo, viveva da solo in un appartamentino ove meditava e scriveva libri assai apprezzati quando non era impegnato nelle aule accademiche, in convegni, dibattiti o tavole rotonde.
Dato il soggetto innegabilmente interessante, decisi di saperne di più e gli chiesi un’intervista che mi concesse immediatamente con la consueta cortesia.
Gli posi quindi una serie di domande  alle quali rispose in termini chiari e comprensibili , cosa assai rara per un filosofo, confermando una preparazione ed una cultura in tutto degni della sua fama.
Ad un tratto la biro che si rigirava, parlando, fra le mani, cadde per terra, infilandosi nel poco spazio esistente sotto la scrivania dietro la quale stava seduto.
Lo vidi alzarsi di scatto mentre i tratti del suo volto si alteravano e, messosi a quattro zampe, gattoni, sul pavimento, ricercare affannosamente la penna che, nonostante i suoi sforzi, continuamente gli sfuggiva.
”Maledetta”, urlò allora con voce carica d’odio, “ti distruggerò, ti massacrerò” e, allorchè, a forza d’improperi riuscì ad agguantarla, la spezzò con ira in due e la gettò, trionfante, nel cestino della carta.
Dopo di che, tornato amabile e serafico, “Dove eravamo rimasti?” mi chiese; ed avendogli ricordato il punto in cui il discorso si era interrotto, lo riprese portandolo, con la consueta razionalità, a termine.
Trascorsa una buona mezz’ora in un conversare assai interessante, mi propose un caffè che accettai di buon grado.  Si alzò per andare in cucina a prepararlo e, forse ancora immerso nei suoi pensieri, passando, in sala da pranzo,  accanto al tavolo  urtò sbadatamente  contro un suo  spigolo accusando, di conseguenza, un forte dolore.
Si fermò e guatò con odio il mobile sibilando:” Infame!”. Quindi, zoppicando, tornò alla scrivania e, afferrato un grosso martello, quasi un mazzuolo, che vi era sopra, si riavvicinò al tavolino e gli inferse due o tre violenti colpi che lo ridussero a mal partito.      
Aduso, per la mia professione di giornalista, a vederne di tutti i colori, feci finta di nulla, ma l’altro si accorse del mio stupore.
“Vedo che è sorpreso – mi disse sorridendo, mentre sorseggiavamo il caffè  - e le spiegherò il perché del mio comportamento”. Quindi, assunta un’aria professorale, proseguì: ””Lei ha certamente constatato  che la vita quotidiana ci espone, di continuo,  a contrasti, a scontri con i nostri simili. Orbene, la morale cristiana che impone di considerare gli altri come fratelli, e, per chi non crede, la buona educazione, vietano ogni reazione violenta contro il tuo prossimo.
Le farò degli esempi assai banali, per non parlare di altri casi ben più importanti, in cui la nostra pazienza e la nostra tolleranza  sono messi a dura prova.
Pertanto, a chi ha  piazzato la sua vettura  davanti al tuo garage impedendoti di entrarvi, mica puoi dire, come peraltro avresti tanta voglia, “Togliti di lì, villano”, ma ti rivolgerai a lui, sforzandoti di rimanere tranquillo, e  con il sorriso sulle labbra, dicendogli: ”Ehi, amico, sii cortese, sposta la tua vettura affinchè io possa accedere alla mia autorimessa”.
Ed a chi, mentre tu, pazientemente, alla stazione, stai facendo la fila per il biglietto, senza tanti complimenti ti supera con la scusa che ha il treno in partenza, non puoi, come sarebbe tuo vivo desiderio, allungargli un manrovescio, ma, al più, gli dirai:” Birbantello, te ne prego, rispetta la coda” e chiuso lì.
Ma tutto questo, a lungo andare, rischia di rovinarti la salute perché gli psicologi dicono che in tal modo, continuando a sopportare pazientemente gli altri, si accumulano in noi le cosiddette “scorie” che sono alla base di quelle malattie psicosomatiche e di quelle depressioni oggi così diffuse.  
Perciò, dicono sempre gli specialisti, queste scorie bisogna, assolutamente, eliminarle.
Ecco dunque perché Sgarbi che vive insultando a destra e manca, e fa gli urlacci, maledicendo chiunque dica o faccia qualcosa che non gli va, in depressione non ci andrà mai.
Ma noi, poveracci, che crediamo nella carità cristiana e nella buona educazione, dovremo tutti finire nelle cosiddette case di salute, ed ingozzarci di psicofarmaci?””.
Si arrestò perché si era accorto che le sue parole cominciavano a procurarmi una certa angoscia.
Poi, con mio grande sollievo, proseguì:” Per fortuna, ho da pochi giorni eleborata una teoria per risolvere questo problema  che affligge le persone educate come noi”.
La cosa si faceva interessante  e gli chiesi di illustrarmela.
“”Ho dunque scoperto – rispose – che la violenza, sia verbale che fisica, le ingiurie, le minacce ed il turpiloquio sono riprovevoli solo se rivolte verso altre persone. Nulla vieta, invece,  di ingiuriare e percuotere  le cose inanimate. Ecco perché ho definito “resfobia” – che tradotto significa “fobia, avversione per le cose” – la mia nuova teoria. Come ha visto, distruggendo quella biro  e menando martellate al tavolo ho immediatamente eliminato ogni “scoria” nociva tornando, grazie a ciò, immediatamente, tranquillo e sereno. Ci provi, all’occorrenza – concluse – e mi sappia dire se la mia teoria funziona””.
Glielo promisi, ed in effetti una pacca al televisore che non funzionava e la messa fuori uso della bicicletta che mi aveva lasciato a terra per una foratura, furono le vittime sacrificali per eliminare alcune “scorie” che avevo accumulato.
Circa un mese dopo l’intervista, incontratolo per strada, il professore, dopo avermi salutato con la consueta cortesia, mi chiese di venirlo a trovare perché aveva importanti cose da comunicarmi.
Acconsentii di buon grado  e l’indomani eccomi a casa sua.
Mi venne ad aprire un uomo in tuta da lavoro che si presentò dicendomi:” Sono il riparatore di fiducia del professore” e che mi accompagnò da lui.
““Debbo onestamente riconoscere – iniziò il filosofo con un certo imbarazzo – che qualcosa, nella mia teoria sulla “resfobia” non funziona. Qualche giorno dopo esserci visti, mentre facevo la doccia, a seguito di un guasto venni investito  da un getto d’acqua bollente che mi mandò su tutte le furie. Rivolsi al boiler le ingiurie più sanguinose poi, afferrato il mazzuolo che tengo sempre pronto sulla mia scrivania, lo presi a martellate. Un altro giorno aprendo il frigorifero mi presi una scossa che quasi mi mandò al Creatore:  appena rimessomi dallo spavento, misi fuori uso anche lui””.      
“Ma le scorie – gli chiesi, interessato – le ha eliminate?”.
“Per questo – rispose – la resfobia funziona a meraviglia, ma sa quanto mi costa? Si figuri che ho dovuto assumere in pianta stabile  quell’uomo che ha visto entrando  che, per fortuna, s’intende di tutto: elettricità, idraulica, falegnameria, costruzioni e quant’altro. Ma a causa del suo stipendio, compresi i contributi di legge,  francamente sto andando in rovina”.
“E allora?” gli chiesi preoccupato.
“”Ho riveduto la mia teoria: non più “resfobia”, ma “ipsefobia”, ossia avversione per sé stessi. Se, mi son detto, non è possibile offendere né, tanto meno, percuotere il nostro prossimo, e se, per motivi economici, neppure è consentito sfogarsi con le cose,  con chi prendersela, allora, per eliminare quelle maledette scorie? Dopo lunga meditazione, finalmente è fiorita nella mia mente la soluzione: ma con sé stessi, perbacco, ed è così che è nata la “ipsefobia”.  Essa non prevede la violenza fisica su se’ stessi che potrebbe avere altre conseguenze nocive per la propria salute, ma non pone alcun limite a quella  verbale.
Ti prendi una multa per eccesso di velocità? Mica puoi insultare il poliziotto che, poveraccio, fa il suo lavoro. Basterà dirsi: ”Pio, sei un perfetto imbecille ed anche un gran cretino”.  E se ti accade  d’inciampare su di un gradino e di cadere, per questo, rovinosamente a terra, non c’è più bisogno di farlo a pezzi. Sarà sufficiente dirsi: “Ben ti sta, deficiente! Un’altra volta guarda dove metti i piedi”. E, Le assicuro, quelli che Le ho riferito sono insulti da educande, in confronto a quelli che normalmente mi rivolgo per combattere le famigerate scorie””.
““Ma i risultati di questa “ipsefobia” – gli chiesi – come sono?””
“Ottimi – rispose – Pio è docile, non reagisce mai, incassa tutto,  così le scorie vanno via che è un piacere, senza bisogno di tranquillanti o psicoterapeuti: soprattutto, evitando di avere falegnami, elettricisti, tubisti e affini continuamente fra i piedi, con quel che costano”.
                                                                                                                             Giovanni Zannini      

mercoledì 1 aprile 2015

L'ALTANA ANTIAEREA

L’”altana” è una piattaforma di assi di legno appoggiata sui tetti e retta da pilastrini, una singolare terrazza assai diffusa a Venezia (ma ve ne sono anche in altre città) sulla quale i veneziani salgono per ammirare dall’alto il panorama della loro meravigliosa città o prendere il fresco nelle calde sere d’estate.
Ma chi avrebbe mai pensato di adattarla a fini guerreschi durante la prima guerra mondiale?
Eppure è proprio così, ed all'altana è stata pure dedicata una medaglia datata 1915 che la immortala con attorno una solenne dicitura latina ad esaltarne i meriti:” Urbis tutamen fastigium imbelle”, ossia “Pacifica sentinella protettrice della città”.
Questa struttura insolita costituì per Venezia, nel primo conflitto mondiale , un punto strategico, una piattaforma per posizionare i fucilieri addetti alla difesa aerea della città, costituendo uno dei primi esempi di difesa urbana contro le incursioni nemiche.
E’ lì, infatti, che veniva fatta salire una squadra di soldati che aprivano contemporaneamente il fuoco (una specie di “bordata” di fucileria) provocando una rosa di proiettili che aumentava la probabilità di colpire aerei, ma anche dirigibili, provenienti dal cielo per bombardare la città.
L’arma utilizzata era il vecchio ma sempre valido fucile mod.91 dotato di una gittata molto lunga e quindi in grado di colpire obbiettivi assai distanti, adattato ad uso contraereo applicando sullo zoccolo dell’alzo ordinario una mira a tre tacche studiata per colpire l’aereo in avvicinamento, in allontanamento o proveniente da destra o da sinistra.
Un mezzo, come si vede, piuttosto rozzo ma che costituì per gli italiani la nascita della difesa contraerea urbana raffigurata sul verso della medaglia da un fiero leone con corona sormontata da corno dogale, circondato dal motto “Per l’aria buona guardia”.
E a Padova? La città che risulta fra le più bombardate della 1a guerra mondiale subì 20 incursioni aeree che provocarono 140 morti e 110 feriti.
Per proteggersi da tali attacchi  fu realizzata la  difesa antiaerea che prevedeva anzitutto un sistema di avvistamento con il servizio di vedette appostate sugli edifici più alti e sui campanili. Furono poi posizionate batterie contraeree al Bassanello, a Mortise e Montà, una sezione di artiglieria a Terranegra, 4 gruppi di mitragliatrici presso la stazione  ferroviaria, il ponte delle Torricelle, la chiesa di S.Sofia e le officine della Stanga, nonchè due picchetti di fucilieri in via S.Massimo ed al campo sportivo comunale. Anche a Padova dunque la difesa antiaerea fu in parte affidata ai fucili anche se  non risulta se essi fossero azionati da terra o da strutture sopraelevate come le altane a Venezia.
L’efficacia della difesa antiaerea fu nella 1a guerra mondale certamente molto modesta, ma vi è da dire che nei rari casi di successo questo fu dovuto anche al fatto che all’epoca gli aerei, costruiti in tela e legno, non offrivano alcuna protezione al pilota: e fu proprio la fucilata sparata da una trincea austriaca che stava sorvolando a bassa quota ad abbattere l'asso dell'aviazione italiana Francesco Baracca.
Stupisce che il “fucile antiaereo” che si riteneva arma antiquata della 1a Guerra Mondiale sia stato invece utilizzato anche nel corso della 2a.
Infatti un articolo de “Lenciclopedia” su Internet cita, fra le armi antiaeree usate “dopo la 1° Guerra Mondiale”, i “fucili di difesa aerea” accanto a “pezzi antiaerei, palloni di sbarramento e aerei da combattimento”.
Mentre è certo che “fucili antiaerei” furono utilizzati dagli inglesi durante la strenua difesa di Londra contro i bombardieri tedeschi, anche se non se ne conoscono le caratteristiche certamente più evolute rispetto ai precedenti.
                                                                                            Giovanni Zannini