sabato 19 ottobre 2019

Una storica seduta parlamentare - L'EPICO SCONTRO FRA GARIBALDI E CAVOUR


Se taluno si volesse dilettare a stilare una classifica per stabilire quale sia stato il dibattito più importante per contenuto e drammaticità nella storia parlamentare italiana, quello avvenuto il 28 aprile 1861 meriterebbe, se non il più alto, certamente uno dei gradini più alti.
Si tratta dello scontro fra Garibaldi e Cavour innescato dalla sorte di quell’”esercito meridionale” composto tutto da volontari che il Generale si era costruito per liberare l’Italia del Sud dai Borboni e che voleva fossero inseriti nell’esercito regolare al che i suoi capi si opponevano, timorosi che quei militari improvvisati ne inquinassero la disciplina e la professionalità.
Grandi le differenze fra i due principali artefici del Risorgimento italiano.
Garibaldi gran combattente, coraggioso, impulsivo, lineare determinato a raggiungere ad ogni costo gli obbiettivi prefissati senza troppo preoccuparsi delle conseguenze che ne potessero derivare senza ricorrere ad artifizi e raggiri, imbattibile sui campi di battaglia, un po’ pasticcione nelle aule parlamentari, un “guerriero impolitico” come taluno lo definisce.
Cavour gran patriota, che si batte anch’egli per l’unità d’Italia non con la spada ma con la politica di cui è maestro: manovriero, cauto, prudente, sottile, medita ogni sua mossa valutandone e prevedendone i rischi, disposto ad usare - come scrive Maurizio Palèologue nel suo “Cavour” - la violenza, la frode, la perfidia, la ciarlataneria, la subornazione, l’impostura, convinto che, come Machiavelli dice, “ Uno spirito saggio non condannerà mai un uomo per gli atti d’eccezione cui ha dovuto far ricorso nell’interesse supremo della patria”.
L’uno che morirà a 75 anni dopo una vita di violenze fisiche, di lotte, di combattimenti, di fatiche inenarrabili; l’altro che finirà cinquantenne il 6 giugno 1861 stroncato dalle ansie, dalle preoccupazioni, dalle paure – oggi diremmo dallo “stress” – che gli procurano i suoi armeggi e le sue manovre arrischiate, forse anche per le conseguenze di quel famoso scontro. E’ egli stesso, infatti, a confidare in maggio ad un amico di non sentirsi affatto bene e che “dopo quella terribile disputa con Garibaldi non riesco più a rimettermi”.
Ed eccoli, uno contro l’altro, in Parlamento.
Rievoca l’avvenimento sulla “Illustrazione Italiana” del 27-5-1877, con un tono piuttosto ampolloso, classicamente ottocentesco, quel tal “Doctor Veritas” sotto il cui pseudonimo si celava Leone Fortis – vedasi su questo stesso “blog” il post “Leone Fortis, il Dr.Veritas padovano” - brillante giornalista che nella rubrica tenuta per molti anni sulla rivista dell’Editore Treves si occupava di cultura, di politica e di attualità, anche mondana. Con questa sua “Conversazione” (così intitolava i suoi articoli) egli trasmette realisticamente al lettore la drammaticità dell’evento definito “un cozzo tremendo, un urto” che faceva temere “un grande sfasciamento, la rovina irreparabile di tutto ciò che si era amato, sognato, voluto in mezzo secolo di affetti terribili, di sogni grandiosi, di volontà sublimi e consacrate nel sangue”.
Insomma, il percorso dell’unità d’Italia era in pericolo.
Garibaldi, eletto a Napoli nelle elezioni del gennaio 1861 pur non avendo posto la sua candidatura, va in Parlamento a perorare la causa dei volontari del suo “esercito meridionale” la cui sorte, conclusa l’avventura dei Mille, è incerta.
Ed ha inizio la disfida.
Il Nizzardo, dal più alto banco della sinistra, “…colla camicia rossa, il mantello grigio – il famoso “poncho” sudamericano - un po’ teatrale, solenne, imponente” prende la parola. Il suo discorso non è particolarmente interessante, anzi, noioso, tratta “di scarpe, di galloni, di uniformi” e qualcuno dei suoi avversari sogghigna di fronte a quell’intervento così poco brillante benché supportato da un suo fido, tal Zupetta, che “agitava febbrilmente nelle mani alcuni foglietti rettangolari di carta e che li passava a lui ad uno ad uno”. Ma ad un certo momento Garibaldi ha un sussulto, la voce prima monotona “si era fatta tonante” allorchè, ignorando il suggeritore, affronta, a braccio, l’argomento che da tempo covava in petto e che improvvisamente esplode: il rancore per la cessione di Nizza – sua città natale – e della Savoia alla Francia, il premio barattato da Cavour quale compenso per l’aiuto prestato dall’Imperatore Napoleone III nella guerra del 1859 che fruttò al Piemonte l’annessione della Lombardia.
Con il dito proteso verso il banco ministeriale ove sedeva Cavour, ““pronunciò poche parole ma che avevano il lugubre fragore di una mina:”Voi volete la guerra fratricida”” ed affermò che mai stringerà la mano dell’infame rigattiere che ha fatto un ignobile traffico della sua città natale.
Cavour (quasi presago della tempesta), lo aveva ascoltato, nervoso e, irrequieto: “giocherellava con il tagliacarte d’avorio, apriva e chiudeva un libro che aveva davanti, si agitava sulla sua poltrona come se fosse ovattata di spine, “tamburinava” (sic) febbrilmente con le dita della mano sinistra sul tavolo, di tanto in tanto si passava la destra sulla fronte tergendone col bianco fazzoletto il sudore”.
Sentite quelle parole, “a Cavour tutto il sangue rifluì alla testa, il suo volto si fece di bragia, gli occhi fiammeggiavano…Nell’emiciclo erano scesi molti deputati apostrofandosi con parole irritate. Due gruppi si formarono subito, l’uno attorno a Cavour, l’altro sui banchi di sinistra accanto a Garibaldi”. Dopo una diecina di minuti la bagarre si placa e Garibaldi, fuori di sé, grida, di nuovo: ”Si, la guerra fratricida”.
“Fu il finimondo…Cavour s’era fatto terribile anche lui…battè col pugno sul banco ministeriale facendo sussultare le carte, i libri del tavolo e gli animi dell’Assemblea”. Cairoli si slanciò al posto di Garibaldi, Bixio “livido e due grosse lagrime gli irrigavano le guance abbronzite (sic) si precipitò giù dagli alti scranni della sinistra e afferrò nelle sue mani le due mani di Cavour parlandogli rapido, concitato, affannoso…”.
E qui stupisce, favorevolmente, il comportamento di quel Nino Bixio, violento, sanguigno e spietato combattente in guerra che, eletto in Parlamento, si prodiga come conciliatore cercando di attenuare le dure parole del suo generale.
Infatti, tutti, si erano accorti, con sgomento, che “il guanto della guerra civile era stato gettato in mezzo all’emiciclo. Guai fosse stato raccolto! Cavour si slanciò per afferrarlo. Fu un lampo e si arretrò. Chi teneva lo sguardo su di lui potè notare il trabalzo dell’impeto primo e la forza e lo sforzo della riflessione poderosa, sublime, che lo frenò”. Si lascia condurre fuori dall’aula da alcuni amici, fra cui lo stesso Bixio, e poco dopo rientra “trasfigurato: il volto, prima rovente, s’era fatto pallido, la ruga della fronte era più profonda”. Prende la parola con voce ferma e accento vibrato:” Io comprendo e rispetto il dolore che rende sì amare le parole del generale Garibaldi. Egli non sa perdonarmi di aver segnato il trattato che dà la sua città nativa al nostro alleato di Magenta e di Solferino. Dal dolore che io provai, misuro il suo. Se io fossi in lui, sentirei come lui. Al mio posto, ho la coscienza di aver compiuto un grande e tremendo dovere”.
Dopo di che Garibaldi replica brevemente come chi ha fretta di finirla con una situazione penosa e si allontana scortato dai suoi fidi.
A questo punto il cronista non esita ad esprimere il suo giudizio sul comportamento dei due contendenti concludendo che “Cavour fu in quel giorno assai più grande di Garibaldi. L’onore della giornata fu suo, giornata campale contro sè stesso sostenuta e vinta in nome dell’Italia e per l’Italia”.
Pochi giorni dopo la drammatica seduta secondando un augusto desiderio vi fu, in una sala del palazzo reale, un abboccamento - che Cavour descrive in una sua lettera “cortese senza essere affettuoso” - fra i due autori del drammatico scontro. Egli espone la condotta che il governo avrebbe tenuto nei riguardi dell’ Austria e della Francia. Garibaldi dichiara di accettare quel programma impegnandosi a non contrariare il procedere del governo, e chiede “che si facesse qualche cosa per l’esercito meridionale” al che l’altro non fa alcuna promessa ma dichiara che “ mi sarei occupato per cercare un mezzo per assicurare più completamente la sorte dei suoi uffiziali”. Alla fine, scrive sempre Cavour, “noi ci siamo separati se non amici, almeno senza nessuna irritazione”.
Ed il Dr.Veritas così conclude la sua “Conversazione” sull’Illustrazione Italiana: ”Certo, in quel giorno Garibaldi si sentì più sconfitto che non lo si sentisse poi ad Aspromonte ed a Mentana ma, come ad Aspromonte e poi a Mentana non si sentì umiliato dalla sconfitta perché chi vinceva era sempre la patria”.

Padova 1-10-2019                                                                                            Giovanni Zannini


mercoledì 9 ottobre 2019

SULLA PROSTITUZIONE: LA FRANCIA INSEGNA?


Può sorprendere che la Francia, considerata piuttosto libertina, abbia recentemente adottato, in materia di prostituzione una legge che è attualmente la più avanzata in Europa (e, forse, nel mondo) sotto il profilo giuridico e sociale, nella difesa dei diritti delle persone prostituite.
Infatti, già il 13-4-2016 l'Assemblea Nazionale Francese ha approvato la legge n.2016-444 che sancendo “il divieto di acquisto di atti sessuali e la punibilità del cliente che li ottiene in cambio di denaro” ha avuto l'effetto di una vera e propria rivoluzione rispetto alla legislazione fino ad allora in vigore in Francia e che venne duramente contestata da quanti traggono vantaggio dal turpe sistema della prostituzione, che fecero il possibile per bloccarla.
Con essa, infatti, viene abolito il reato di adescamento che puniva la prostituta e, al contrario, sancendo il divieto di acquisto dell'atto sessuale, istituisce un reato punito con una multa – da 1500 euro ad un massimo di 3750 in caso di reiterazione – per chi desidera comperare l'atto sessuale ricorrendo alla prostituzione altrui.
In sostanza, non viene punita la prostituta che offre la disponibilità del proprio corpo, sibbene chi, in cambio di denaro, le richiede tale disponibilità.
La legge n.2016-444 era stato il frutto di un acceso dibattito fra quanti, in nome di un esasperato concetto di libertà sostenevano fosse legittimo per la prostituta offrire il proprio corpo, e per il richiedente acquistarlo, e chi invece sosteneva che nessuno ha il diritto di sfruttate la precarietà e la vulnerabilità di un'altra persona attraverso la richiesta – che è in sé atto di violenza ed ostacolo alla parità fra uomo e donna – di un atto sessuale in cambio di denaro.
Oltre a queste argomentazioni aveva influito sull'approvazione della legge in questione anche il cosiddetto”Modello nordico” adottato con buoni risultati da nazioni come Svezia, Norvegia, Islanda
ed Irlanda del nord – ma anche in Canada - secondo le quali i clienti delle prostitute sono penalizzati nella convinzione che per combattere la prostituzione occorre punire chi intende fruirne in cambio di denaro mentre invece paesi come la Germania e l'Olanda che hanno sostenuto il principio del “Sex work”, ossia la legalizzazione del mercato del sesso, ha fatto aumentare drammaticamente il mercato dello sfruttamento sessuale.
Finalmente, il Consiglio Costituzionale francese – la nostra Consulta – ha l'1 febbraio scorso definitivamente sancito la costituzionalità della legge 2016-444 che prevede, fra l'altro, un Fondo per la prevenzione della prostituzione e la fornitura di un supporto per recuperare le sue vittime, nonché una politica d'informazione nazionale diretta in particolare agli istituti scolastici che illustri la realtà della prostituzione ed i pericoli della commercializzazione dei corpi.
Saggiamente, l'art.22 , l'ultimo, della legge prevede che a due anni dall'entrata in vigore il governo francese presenti al Parlamento un rapporto di valutazione dei suoi risultati: sarà questa l'occasione per stilare un primo bilancio sulla sua efficacia e, in caso positivo, consentire ad altri paesi, fra i quali l'Italia, di inserire i suoi principi nella propria legislazione.

Padova 3-9-2019 Giovanni Zannini

giovedì 26 settembre 2019

UN SUGGERIMENTO A ISRAELIANI E PALESTINESI

Un mio conoscente palestinese ha prospettato la seguente ipotesi per dare una soluzione alla fin qui irrisolta drammatica crisi fra israeliani e palestinesi:

"Premesso che l'occupazione della Palestina da parte degli israeliani rende legittima la lotta di liberazione dei palestinesi contro gli invasori, così come lo è stata, ad esempio, quella italiana contro l'invasore tedesco.
 1) La lotta della Palestina contro l'invasore è dunque legittima, ma provoca morte e distruzioni ad entrambe le parti in conflitto.
 2) Per ristabilire una situazione di legalità internazionale si potrebbe allora ricorrere al principio del "risarcimento": si mantenga la "statu quo" ma Israele risarcisca adeguatamente la Palestina per averle sottratto parte del suo territorio e per i danni causati dall'occupazione .
 3) Ottenuto tale risarcimento dovrebbe avvenire la pacificazione: la Palestina riconosca l'esistenza di Israele e rinunci alla sua politica di odio di vendetta contro di lei.
 4) Tale soluzione sarebbe utile ad entrambe la parti in causa: infatti, avvenuta la pacificazione, gli israeliani vivrebbero in pace e senza l'incubo di aggressioni e di attentati,  ed i palestinesi potrebbero iniziare a vivere una vita degna di essere vissuta. Infatti, grazie al beneficio economico derivante dal "risarcimento", i palestinesi potrebbero dedicarsi ad opere di pace  addirittura avvalendosi dell'esperienza degli israeliani che, grazie al loro spirito ed alla loro laboriosità (sia pure supportata dai  miliardi degli ebrei americani), hanno saputo creare uno stato moderno  nel quale il deserto è stato reso abitabile  e spesso trasformato in fertili coltivazioni. "

Da parte mia osservo che tale soluzione avrebbe un precedente interessante. Infatti la interminabile crisi   fra Italia e  Santa Sede a seguito della "Presa di Roma" del 20 settembre 1870 fu risolta dal Concordato dell' 11 febbraio 1929 mediante il quale la Santa Sede ottenne un
"risarcimento" di 2 miliardi e 7oo milioni di lire per la perdita del suo territorio e per i danni conseguiti a seguito dell'invasione dello stato Italiano.

Padova 26-9-219                                                                    Giovanni Zannini

ROSA LA MERETRICE SANTA


In tempo di guerra poteva capitare che si presentassero nelle case di tolleranza soldati che, avendo riportato in combattimento ferite particolarmente gravi, avevano, dopo la guarigione, un aspetto che provocava orrore e repulsione.
A causa di ciò vi fu spesso la reazione di prostitute impressionate dalla visione di corpi devastati e orripilanti: non che ce l'avessero con quei poveretti, ma la vista di tremende lesioni – moncherini di braccia o di gambe amputate, arti privi di mani o di piedi, la cecità, volti sfregiati ridotti a tragiche maschere, orecchie mozze, corpi ricoperti di ferite, nasi rifatti alla meglio - impediva loro di assolvere le funzioni cui erano adibite.
In una di quelle “case” si presentò un giorno, condotto da un compagno, un giovane divenuto cieco a seguito dello scoppio di una granata che aveva ridotto il suo volto, nonostante lo sforzo dei medici, un' orribile maschera inutilmente celata da un grosso paio di occhiali neri.
La cosa provocò confusione perchè nessuna delle ragazze, paralizzate da quella sconvolgente vista, aveva il coraggio di accudire quel poveretto, seduto in paziente attesa.
Alla fine la tenutaria, assai preoccupata che si diffondesse la voce che nella sua “casa” c'era poco patriottismo, con possibile revoca della licenza, ebbe un lampo:”Chiamate la Rosa! Quella – pensò - dopo averne viste e fatte tante, ce la fa”.
C'era, fra le sue “dipendenti”, la Rosa, una donna sulla sessantina – e anche oltre - che, giunta a fine carriera, dava una mano all'andamento della comunità, per la pulizia e, all'occorrenza, anche in cucina.
La vita le era stata crudele: il marito se l'era svignata lasciandola con tre figli che, appena cresciuti, se n' erano andati per i fatti loro senza occuparsi in alcun modo di lei. Malmenata da conviventi occasionali nei quali tentava di trovare un rifugio, tacciata di ladra per aver rubato per fame una pagnotta, aveva dovuto, per sopravvivere, adattarsi ai lavori più umili e pesanti fino a che stanca, sfinita, abbandonata da tutti, ritenne che, in fondo, a fare quel “mestiere”, il vitto , l'alloggio e quattro soldi erano assicurati.
Messa al corrente della grave situazione, la donna si disse disponibile (e la capa trasse un sospiro di sollievo) a risolvere, per il buon nome della “casa” alla quale oramai si era affezionata, il problema; anche perchè, alla fine, quel richiamo in servizio, sia pure per un caso tanto particolare, costituiva per lei il riconoscimento che ancora qualcosa sussisteva della sua femminilità.
Riassestatasi alla meglio i capelli (chi sa perchè, pensarono le altre, tanto quello non la vede), e indossato un vecchio vestito lungo (che le stava ahimè, troppo stretto) ricordo della passata carriera, con una profonda scollatura che evidenziava, nonostante l'età, un seno ancora in grado di suscitare qualche emozione, vinta la repulsione che l'orrenda visione provocò anche in lei, andò incontro al ragazzo salutandolo con un festoso “Ciao, sono la Rosa”. Lo abbracciò stretto accarezzando quel capo martoriato, poi. staccatolo a fatica da sé, perchè il giovane sembrava non voler perdere neppure un attimo del piacere di quell'abbraccio, la Rosa lo prese per mano e salirono la scala che portava al luogo del piacere.
Il giovane tornò altre volte sempre richiedendo di lei fino a che, trasferito ad un altro ospedale per un ennesimo tentativo di migliorare, per quanto possibile, il suo aspetto, venne il momento dell'addio: un lungo interminabile abbraccio mentre le lacrime bagnavano l'anziano volto della donna e quello devastato del giovane.
Solo loro sapevano che, spinto da un desiderio di piacere sopravvissuto allo strazio del suo corpo, il giovane aveva trovato in quella “casa” non colei che avrebbe dovuto soddisfarlo, ma l'unica donna che, dominando il pur legittimo orrore , ne era divenuta, l'amica, la confidente, la consolatrice.
L'unica che, seduta accanto a lui su quel divanello destinato ad ospitare ben diverse emozioni, tenendolo stretto fra le braccia, accarezzandone il capo devastato e stringendo la sua mano, ascoltava i suoi tormenti, il ricordo terribile della guerra, i dolori insopportabili del suo ferimento, il dramma della morte civile provocata dal suo aspetto orripilante che gli impediva di godere la giovinezza, gli negava l'amore della donna, e lo condannava ad una vita disperata, un inferno di sacrifici e di rinunce denso di preoccupazioni e di nere previsioni.
L'unica che sapesse rasserenarlo, confortandolo con parole che lasciavano intravvedere un avvenire meno fosco e qualche bagliore che la vita avrebbe ancora potuto offrirgli.
E vi furono altri giovani, che orribilmente storpiati nel corpo e devastati nello spirito, varcata la soglia di quella “casa” in cerca del piacere dei sensi vi trovarono la pietà, l'umanità e il cuore della Rosa, la Meretrice Santa.

Padova 21-5-2019 Giovanni Zannini


mercoledì 13 marzo 2019

I ROMANI ED IL RISORGIMENTO

La fama dei cittadini romani tendenti al mantenimento dello “status quo” e non portati a reagire contro coloro che li governano anche se malamente (tanto son tutti eguali – dicono – è inutile, non cambia mai nulla) trova conferma nella scarsa collaborazione da essi prestata alle vicende risorgimentali che portarono all'unità d'Italia.
Tra gli altri, a conferma di questa tendenziale “apatia” del loro carattere, esistono due episodi che, oltretutto, manifestano singolari analogie.
Il primo riguarda il tentativo di Garibaldi che nel 1867 capeggiò una spedizione di volontari con l'intento di liberare Roma sostituendosi all'inerzia del re Vittorio Emanuele II che, temendo di entrare in collisione con la Francia - con la quale si era impegnata, con la Convenzione del 15 Settembre 1964 a difendere lo Stato Pontificio da ogni aggressione - non osava farlo.
Tentativo all'inizio segretamente appoggiato dal governo che avrebbe certamente gradito
se l'impresa fosse andata a buon fine, ma che poi, di fronte all'accorrere dei francesi in difesa del Papato, per motivi di politica estera non esitò a condannarla.
Ciononostante Garibaldi insistette nel suo tentativo che fu stroncato il 3 novembre 1867 dalla sconfitta subita nella drammatica battaglia di Mentana.
Fra i tanti commenti dedicati a questa impresa spicca la testimonianza del garibaldino Adamo Ferraris (fratello del più noto Galileo, famoso scienziato, e poi medico personale di Garibaldi nella spedizione in Francia del 1870/1871) che partecipò all'impresa.
Dunque, Garibaldi è giunto nei pressi di Roma e, scrive il Ferraris nella sua lettera 1 novembre 1867 al padre, “il Generale ci fece bivaccare tre giorni a due miglia da Roma, nella notte fece accendere dei gran fuochi. Ci fece percorrere due volte tutto il lato nord est della città stessa con tutto l'intero corpo dei volontari di Menotti (figlio di Garibaldi - ndr) forte di circa 8000
uomini, e tutto ciò con l'evidente scopo di invitare i romani ad insorgere, ovvero anche i papalini a venire a battaglia, ma tutto inutilmente. I DEGENERI ROMANI NON FECERO UN MOTO (il maiuscolo è di chi scrive) ed i papalini, dopo una ricognizione offensiva in cui spararono 25 cannonate, si ritirarono nella città facendo saltare dietro di loro i ponti...”.
Per la verità, vi furono romani che, in occasione di quella che fu chiamata la “Campagna dell'Agro Romano”, collaborarono con i liberatori, ma furono due soli con altri pochi compagni: Gaetano Tognetti e Giuseppe Monti, muratori, che, avuta notizia dell'avanzare di Garibaldi alla volta della capitale, il 22 ottobre 1867 fecero saltare in aria con una mina parte della Caserma Serristori in Roma causando la morte di alcuni zuavi pontifici, e che, processati e condannati a morte, furono decapitati.
Nè miglior sorte ebbe il generoso tentativo dei fratelli Cairoli Enrico e Giovanni e dei loro eroici 68 compagni .
Rotti gli indugi degli altri comandanti garibaldini costituitisi a Terni in Comitato d'insurrezione per la liberazione di Roma, che attendevano, prima di muoversi, l'arrivo di Garibaldi - rocambolescamente evaso da Caprera ove il governo italiano l'aveva confinato per evitare che combinasse guai - il gruppo di ardimentosi si mise in marcia
Partiti da Terni la notte del 22 ottobre, l'indomani attraversarono il confine dello stato pontificio e quindi, disceso il Tevere con alcune imbarcazioni, sbarcarono alle porte di Roma nei pressi del Ponte Molle occupando poi sul Monte Parioli la vigna e la villa di proprietà dell'ing. Vincenzo Glori ove attesero il verificarsi dell'annunciata insurrezione dei cittadini romani che invece mancò.
Dopo questa vana attesa, mentre meditavano sul da farsi, furono intercettati e attaccati da gran numero di zuavi, pur dopo un feroce impari combattimento in cui rifulse il valore dei giovani garibaldini e che vide la morte del loro comandante Enrico Cairoli – e, l'anno dopo, del fratello Giovanni (“Giovannino”) a seguito delle gravi ferite riportate - essi furono costretti alla resa e fatti prigionieri.
Il secondo episodio accaduto qualche anno dopo confermò l'apatia dei romani per le vicende risorgimentali italiane.
Approfittando dell'esito della guerra franco-prussiana risoltasi con il dissolvimento dell'impero francese dopo la sconfitta subita a Sedan l'1 settembre 1870, il governo italiano - sciolto dagli impegni assunti con la Francia con la Convenzione di Settembre 1864 che lo obbligava
a difendere l'indipendenza del Papato - colse al volo la fortunata combinazione offertagli dalla sconfitta francese e affrontò immediatamente e senza preoccupazioni il problema della liberazione di Roma per farne la capitale del Regno.
E solo 10 giorni dopo Sedan, l'11 settembre, il generale Cadorna, alla testa di 5 divisioni invade il territorio pontificio e, giunto alle porte di Roma, ancora un volta si arresta in attesa di una insurrezione popolare che offra il pretesto di entrare pacificamente nella città per ristabilire l'ordine pubblico.
Ma, ancora una volta, come scrive lo storico inglese Denis Mack Smith, “...l'indifferenza o, addirittura, l'ostilità della cittadinanza romana, e la fede e l'interesse che la spingevano a restare fedele a Pio IX...” impedì che ciò accadesse.
Fu allora necessario ricorrere alla forza dei cannoni che il 20 settembre 1870 aprirono la breccia di Porta Pia attraverso la quale i bersaglieri italiani dilagarono in Roma.
E il fatto che la città fu conquistata dopo soli venti giorni dalla provvidenziale sconfitta di Napoleone a Sedan, fa dire a molti storici (e fra questi il Mack Smith) che ciò “avvenne in maniera del tutto casuale come effetto secondario della vittoria prussiana”, in tal modo ridimensionando la gloria italiana della battaglia di Porta Pia.
Padova 21-2-2019 Giovanni Zannini









giovedì 7 febbraio 2019

LE "CONCERTAZIONI" FRA VITTORIO EMANUELE II E MAZZINI


Francesco Bertolini (1836-1909) storico, professore di storia all'Università di Bologna, nel suo imponente volume (ben 827 pagine) “Risorgimento Italiano” (Ed. F.lli Treves – Milano - 1899) che copre il periodo che va dall'inizio delle “Restaurazioni” (1815) fino alla liberazione di Roma (1870), scrive di un tentativo di accordo avvenuto nel 1864 fra Vittorio Emanuele II e Mazzini per la liberazione di Venezia e del Veneto.
Notizia innegabilmente sorprendente e poco nota, che l'autore trae dal libro “Politica segreta italiana” con il quale nel 1880 l'editore Roux di Torino rese noti documenti dai quali emergeva che “il Re d'Italia non isdegnasse valersi della popolarità e dell'influenza di Giuseppe Mazzini per ottenere la liberazione della Venezia; e il Mazzini, pur di addivenire al realizzamento del suo pensiero sommo, la unificazione della patria italiana, non isdegnasse, dal canto suo di accettare la cooperazione di un Re”.
Le trattative, secondo il Roux non avvennero direttamente fra il re e Mazzini, avvenimento clamoroso che sarebbe stato difficile tenere segreto, ma per interposta persona: “un ingegnere Muller, agente mazziniano, e un avvocato G.Pastore, persona di fiducia del Re”.
Esse miravano a concertare un moto insurrezionale provocato da Mazzini nel Veneto che avrebbe giustificato un intervento del Regno d'Italia in soccorso degli insorti.
Ed a conferma della notizia, il Roux pubblica una nota autografa 3 marzo 1864 del re al Muller, che fa riferimento alle trattative in corso allorchè afferma che “...sono disposto a concertare come si chiede, ma assumendo io e il mio Governo, quando si avrà ombra di possibilità,
il glorioso mandato dell'opera finale della patria nostra.... ma guai a tutti noi se non sappiamo ben farlo abbandonandoci ad impetuose, intempestive frenesie....”.
Ossia d'accordo a “concertare” con Mazzini, ma deciderò io, e alla larga da sue eventuali mattane.
Ed alla teoria del tentato complotto Vittorio Emanuele/Mazzini per la liberazione del Veneto, Francesco Bertolini aggiunge un'ulteriore prova.
Egli riferisce infatti che Enrico Tavallini, biografo di Giovanni Lanza, afferma che dalle sue poche carte emerge che “Vittorio Emanuele si compiacesse di fare il cospiratore” e che, “caduto il Ministero Minghetti e succedutogli quello La Marmora, Lanza trovò già avviata una corrispondenza con alcuni emigrati stranieri da cui risultava di intimi accordi e di sussidi dati per l'organizzazione di parecchi comitati (evidentemente di ispirazione Mazziniana – n.d.r.) che si andavano provvedendo d'armi e preparavano una insurrezione la quale ad un ordine del governo italiano doveva scoppiare in alcuni stati e nel Veneto. Lanza continuò quell'opera e la favorì di consigli e di danaro contenendola nei limiti di ordinata preparazione.... Ma dopo il ritiro del Lanza pare che i successori di lui (Natoli e Chiaves) non abbiano più coltivato alacremente quel disegno; e La Marmora, com'ebbe stretto alleanza con la Prussia, disdegnò tutti gli altri elementi di forza (moti di popolo e insurrezioni mazziniane – n.d.r.) che non fossero quelli dell'esercito”.
Quanto alle “concertazioni” tra Vittorio Emanuele e Mazzini - conclude Francesco Bertolini - , dopo essere state condotte per oltre un anno, senza alcun risultato, furono bruscamente spezzate per il fatto della “Convenzione di settembre”.
Evidentemente Mazzini, sdegnato, non volle avere più nulla a che fare con Vittorio Emanuele reo di aver sottoscritto il 15 settembre 1864 con Napoleone III una Convenzione con la quale da una parte la Francia s'impegnava a ritirare le sue truppe a protezione dello Stato Pontificio, ma dall'altra l'Italia si assumeva la responsabilità di difenderlo da ogni attacco da qualsivoglia parte provenisse e prometteva di trasferire la propria capitale da Torino a Firenze, con ciò dimostrando il proprio  disinteresse a fare di Roma la capitale d'Italia, il sogno che Mazzini aveva coltivato per tutta la vita.

Padova 10-3-2019                                                                          Giovanni Zannini