domenica 29 gennaio 2012

ALBERTO CAVALLETTO IL "GARIBALDI PADOVANO"

Così il padovano Carlo Leoni (1812-1874), figura rappresentativa degli intellettuali risorgimentali patavini, nella sua “Cronaca segreta dei miei tempi” relativa agli avvenimenti accaduti nell’arco di tempo che va dal 1845 al 1874, definisce Alberto Cavalletto: ma, precisa, “non tanto perché gli assomigliasse come personalità, ma perchè Cavalletto fu, nei confronti della storia del Risorgimento patavino quello che Garibaldi fu per l’intero Risorgimento Italiano”.
Pietro Galletto, infatti, nel suo “Alberto Cavalletto – Una vita per la Venezia e per l’Italia”, (opera egregia di storia non solo padovana, ma pure italiana, grazie al testo e ad una grande ricchezza di note che ne fanno una piccola enciclopedia dell’intero periodo risorgimentale), nel descrivere la vita del patriota padovano prende in esame gli aspetti che lo fanno rassomigliare all’Eroe dei due mondi, ma anche quelli che lo differenziano.

Con la spada in pugno

La prima parte del libro, dunque, parla di un Cavalletto che, dopo aver iniziato l’attività lavorativa come ingegnere idraulico, il 24 marzo 1848, all’indomani del ritiro degli austriaci da Padova, non esita ad arruolarsi in un corpo franco di volontari chiamati i “Crociati padovani”, cittadini desiderosi di “combattere in nome della libertà sotto l’auspicio della Fede”; e, in riconoscimento della capacità organizzativa di cui ha dato prova in occasione di inondazioni ed altri dissesti idraulici, è nominato aiutante maggiore del colonnello comandante. Si reca a Vicenza ed assieme ai “Crociati” vicentini, a quelli di Treviso, pure accorsi, ed a truppe pontificie inviate da Pio IX (inizialmente liberaleggiante, ma poi, sappiamo, cambiò idea anche, si dice, per il timore di uno scisma in Austria), si appresta a difendere la città contro gli austriaci che, ottenuti rinforzi, da Verona ove si erano asserragliati, muovono alla riconquista dei territori precedentemente abbandonati.
Nonostante la disperata resistenza, dopo alcuni successi iniziali, i “Crociati” vicentini, padovani e trevigiani, ed i pontifici, sono sconfitti alle porte di Vicenza, e costretti a ritirarsi. Cavalletto, che ha combattuto coraggiosamente in prima linea alla testa dei suoi volontari, rientra con essi a Padova deciso a difendere la città, d’accordo con il “Comitato provvisorio dipartimentale” ivi sorto, contro il nemico che incalza. Ma il Governo della Repubblica Veneta nata dopo il ritiro degli austriaci, che ha autorità anche sulla provincia di Padova, lo ritiene impossibile ed ordina di rinunciarvi e di concentrare tutte le forze esistenti a difesa della città lagunare. Cavalletto tenta disperatamente ma invano di opporsi all’ordine ed alla fine, contrario per principio ad ogni forma di disobbedienza all’autorità legittima, nella notte fra il 12 ed il 13 maggio 1848 alla testa dei suoi uomini lascia Padova diretto a Venezia ove già si erano rifugiati circa 4000 patrioti di città venete ricadute in mano austriaca dopo un effimero breve periodo di libertà.
Giunto nella città lagunare, il maggiore Cavalletto assume il comando del II battaglione della “Legione Bacchiglione Brenta” composto da circa 700 volontari di Padova e provincia e partecipa alla disperata difesa contro l’austriaco assediante. Inoltre, eletto deputato nell’Assemblea Permanente della rinata (ahimè per poco) “Repubblica di S.Marco”, si batte energicamente contro coloro che auspicavano la resa. Ma alla fine, di fronte alla preponderante forza nemica, alla fame ed alle malattie, il 22 agosto 1848 Venezia cede e Cavalletto, rinfoderata la spada, grazie alla decisione austriaca di lasciar partire quanti non volevano restare, lascia la città dai volontari padovani valorosamente difesa (29 i caduti) ed il 26 agosto rientra a Padova di nuovo in mano agli austriaci.
Perso, per il suo patriottismo, l’incarico di ingegnere idraulico comunale, si dedica alla libera professione che gli consente un tenore di vita assai modesto e continua però a coltivare il suo ideale di libertà costituendo con altri patrioti padovani una specie di unione segreta d’ispirazione mazziniana pronta ad intervenire contro gli austriaci “in caso di avvenimenti straordinari che commovessero naturalmente le popolazioni”, fino a che il suo comportamento cospirativo reso noto da un traditore, e l’accusa di aver acquistato 6 cartelle del “Prestito Nazionale ” aperto dal Comitato Nazionale Italiano fondato da Mazzini , provoca, il 7 luglio 1852, il suo arresto. Rinchiuso in un primo tempo nelle carceri politiche di Venezia, viene poi trasferito nella terribile prigione del castello di Mantova chiamata “La Mainolda” ove giunge il pomeriggio del 22 luglio. In questa prigione Alberto Cavalletto condivide per due mesi la cella con Tito Speri patriota bresciano animatore delle “Dieci giornate di Brescia” e fra i due si stabilisce un fraterno rapporto di idee e di sentimenti che, per opera del Cavalletto (lui, accusato di anticlericalismo, ma lo vedremo in seguito), porta il compagno di sventura a riconciliarsi con la religione.
Nel processo del 3 marzo 1853 Cavalletto (imputato di “pregiudicatissima condotta politica per essere stato
in cognizione dell’esistenza del Comitato Rivoluzionario veneto, di aver avuto ed accettato l’incarico da uno dei capi del Comitato veneto ad organizzare un comitato figliale rivoluzionario in Padova e di avere mediante acquisto di cartelle mazziniane cooperato a conseguire i mezzi per la sommossa”), Speri ed altri 23 imputati vengono condannati a morte dalla Corte Marziale austriaca: ma in secondo grado la pena di morte viene confermata per tre imputati, tra i quali lo Speri, e per gli altri 20 commutata nel famigerato “carcere in ferri”.
A seguito di ciò, Cavalletto, con pesanti catene ai piedi, alla fine di un tragico viaggio di sei giorni viene rinchiuso nella fortezza di Josephstadt ( in Boemia, vicina a Sadowa, che diverrà famosa per la battaglia ivi combattuta il 3 luglio 1866 tra austriaci e prussiani, risoltasi con la vittoria di questi ultimi) e soggetto per ben due anni ad un trattamento disumano simile a quello raccontato da Silvio Pellico nella sua famosa opera che egli legge a suo conforto. A causa delle precarie condizioni di salute derivate dalla durissima detenzione, è trasferito nelle prigioni del Castello di Lubiana ove il trattamento è meno feroce e dalle quali esce finalmente grazie all’amnistia concessa il 2 dicembre 1856 dall’imperatore Francesco Giuseppe che, in visita a Venezia, nel tentativo di arginare il crescente odio contro l’Austria, libera 72 detenuti politici italiani fra i quali il Cavalletto. Così l’11 dicembre 1856 dopo 6 anni e 5 mesi di detenzione egli rientra a Padova ove rimane, non domo, cospirando, per i tre anni successivi, contro gli austriaci occupanti. Alla fine, per sfuggire alla occhiuta polizia austriaca che non lo perde d’occhio, ed in vista di una guerra del Piemonte con la Francia alleata contro l’Austria, lascia ancora una volta la città per raggiungere clandestinamente, nel gennaio 1859, Torino, ove dà vita ad una “Associazione dei popoli della Venezia” - avente lo scopo di estendere il Veneto “Dall’Alpe al Quarnero” inglobando anche il Trentino e l’Istria – rappresentativa di quelle migliaia di patrioti Veneti che avevano passato il confine emigrando in Piemonte per trovare libertà loro negata dall’oppressore austriaco.
Il 27 aprile 1859 scoppia la guerra fra Piemonte e Francia alleati contro l’Austria per liberare Lombardia e Veneto ed annetterli al Regno di Sardegna: ma nonostante le vittorie di S.Martino e Solferino in cui gli austriaci sono sconfitti, e che avrebbero aperto agli alleati la strada per Venezia, i francesi di Napoleone IIl (inorridito per la carneficina verificatasi che suscitò nel filantropo Henry Dunant l’idea di fondare in Svizzera, nel 1864, la “Croce Rossa Internazionale”) preferiscono abbandonare la guerra venendo a patti con Francesco Giuseppe, lui pure impressionato dall’immane massacro verificatosi. Così, alla conclusione del Congresso di Zurigo (8 agosto-10 novembre 1859) che definì il nuovo assetto politico dell’Italia, lo Stato Sardo ottenne un risultato solo parziale e con una procedura umiliante: la Lombardia viene assegnata alla Francia di Napoleone III che la cede a sua volta al Regno Sabaudo in cambio di Nizza e della Savoia, ma lascia ancora il Veneto sotto il giogo austriaco.
Questo “tradimento” dei francesi suscita l’indignazione e la protesta di tutti i patrioti ed in particolare di Alberto Cavalletto che a nome della “Associazione dei Popoli della Venezia” invia una lettera a Cavour riaffermando il fermo desiderio dei Veneti di unirsi al nuovo stato italiano in via di formazione.

Ed ora ordine, legalità, democrazia

La proclamazione del Regno d’Italia decretata dal primo Parlamento Italiano il 27 marzo 1861 a seguito dell’esito dei plebisciti nei territori liberati, provoca in Cavalletto quel mutamento di cui si parlava all’inizio, che trasforma la sua mentalità sino ad allora coincidente con l’azione di Garibaldi fatta di audacia, di iniziative coraggiose anche spregiudicate, di lotte e combattimenti con le armi in pugno, e lo induce ad un atteggiamento più prudente, legalitario e democratico che lo allontana dalla “filosofia” garibaldina. Egli pensa infatti che con la proclamazione del Regno d’Italia il periodo storico delle insurrezioni, delle avventure, dei colpi di mano e delle spedizioni (come saranno, ad esempio, quelle di Garibaldi al grido di “Roma o morte” del 1862 stroncata dalle truppe regolari sull’Aspromonte, o la “Campagna dell’Agro Romano”, pure garibaldina, del 1867, sempre mirante alla liberazione di Roma, o le insurrezioni a Sarnico - 1862 - ed in Friuli – 1864) -) sia terminato e che le iniziative per addivenire alla piena unità d’Italia con la liberazione di Roma e del Veneto spettino ormai solo alle decisioni del parlamento italiano democraticamente eletto e del governo legittimo sua emanazione.
Altre iniziative che avrebbero potuto provocare all’Italia complicazioni di politica estera in Europa sarebbero state, secondo Cavalletto, “non solo un’avventataggine, ben’anco un delitto”, e scrivendo poi ad un amico nel 1863 afferma che “io desidero che presto finisca il martirio della Venezia…..ma non desidero che si rinnovino le dolorose sventure dell’anno decorso (chiara allusione ai fatti dell’Aspromonte dell’anno prima – n.d.a.) che fecero sostare e quasi arretrare l’Italia nel compimento dei suoi destini. Un popolo veramente civile e libero rispetta la legge: chi questa infrange apre il varco all’anarchia, alla guerra civile e, senza volerlo, prepara la rivincita ai dominatori stranieri”.
Tale atteggiamento moderato che lo pose in contrasto con il Partito d’Azione dell’epoca d’ispirazione mazziniana (rinato poi in Italia durante il periodo fascista, attivo partecipe alla Resistenza e, nel dopoguerra, per alcuni anni, alla vita politica repubblicana italiana – n.d.a.), che parteggiava invece per un’azione più audace e spregiudicata pur di addivenire alla completa unità italiana, danneggiò l’attività politica del Cavalletto che, nella sua veste di veneto in esilio, era stato ammesso alle competizioni elettorali piemontesi.
Nelle elezioni del gennaio 1864 il Partito d’Azione, per combattere la sua azione di liberale democratico gli oppose, nel Collegio di Casalmaggiore nientemeno che Giuseppe Garibaldi: e Cavalletto fu, naturalmente, sconfitto.
Riprese allora la sua attività lavorativa dalla quale traeva un magro guadagno, ciononostante rifiutando un contributo economico offertogli dal governo e, allorchè Firenze diviene capitale d’Italia, alla fine del 1865 vi si trasferisce per risparmiare sulle spese dato che, scrive, “gli affitti sono bassissimi ….ed il vitto vi è pure a buon mercato”.
Prosegue però anche la sua attività politica mirante ad ottenere la liberazione del Veneto e la sua annessione all’Italia, e allorchè nel 1866 scoppia la III Guerra d’Indipendenza che vede l’Italia a fianco dell’alleata Prussia contro l’Austria, vi partecipa quale capo dell’Ufficio Informazioni Militari facendo tesoro di quelle che gli pervengono dagli amici veneti.
Purtroppo l’esito della guerra è infausto per le armi italiane battute dagli austriaci per terra a Custoza e per mare a Lissa, ma ciononostante, grazie all’alleato prussiano che il 13 luglio 1866 batte gli austriaci nella famosa battaglia di Sadowa, il Veneto viene attribuito all’Italia sia pure, ancora una volta,mediante un’umiliante procedura: l’Austria, che si vanta di aver sconfitto l’Italia a Custoza, cede il Veneto, ma a Napoleone III (ancora una volta in veste di “grande traghettatore”) che a sua volta lo gira all’Italia.
Alberto Cavalletto rientrato a Padova poco prima della fine della guerra accolto con tutti gli onori, riprende la sua attività lavorativa presso il Genio Civile e continua ad occuparsi di politica sia pure con scarso successo venendo battuto nel Collegio di Padova dal Conte Cavalli nelle elezioni politiche del 1866.
Forse amareggiato dalla sconfitta elettorale nella sua città, passa a candidarsi nella provincia di Vicenza e, in virtù anche dei meriti acquisiti nel 1848 con la storica difesa della città, è eletto deputato nel collegio di Valdagno dal 1867 al 1874, nel collegio di S.Vito del Tagliamento dal 1874 al 1882, infine nel terzo collegio di Udine dal 1882 al 1892: ma a questo punto non viene più rieletto ed allora, in premio di una lunga vita spesa con generosità spesso eroica per un’Italia libera e unita, Re Umberto I il 12 dicembre 1892 lo nomina Senatore del Regno e nel marzo 1893, gli conferisce il “Cordone dell’Ordine dei Santi Maurizio e Lazzaro”.
Trascorre gli ultimi anni a Padova, ove tutti lo interpellano familiarmente ”Sior Berto”, quasi sorpreso degli onori che gli vengono attribuiti che non si confanno, dice, “con le mie abitudini di vita semplice e modesta”.
Il 19 0ttobre 1897, scrive Pietro Galletto, “in una casa di rustiche pareti e con meschine suppellettili si spegne a Padova Alberto Cavalletto , il senatore padovano figlio del popolo”.

Anticlericale politico antitemporalistico

Resta da dire dell’anticlericalismo di Cavalletto che, come accadde a molti altri patrioti risorgimentali, fu, in realtà, un anticlericalismo “politico antitemporalistico” con ciò indicando coloro che, anche credenti, avversavano Pio IX non in quanto Vicario di Cristo, ma in quanto Capo di stato.
Quello stato in cui il potere spirituale s’intrecciava negativamente con un potere temporale anacronistico che si opponeva alla completa unificazione dell’Italia con Roma capitale, e che i patrioti cattolici risorgimentali volevano eliminare proprio per ridare al Papa il suo carisma di capo della Chiesa liberandolo dagli impacci di cure terrene che gli impedivano di dedicarsi completamente alla sua alta missione spirituale.
Cavalletto fu uno di questi, e molti sono coloro che ne attestano una personalità “naturaliter cristiana”, la dirittura morale ed il rispetto per la religione.
Fra questi, don Costante Businaro, già cappellano militare dei patrioti padovani che si batterono in difesa di Venezia, poi arciprete di Polesella, ricordava nell’elegia funebre che l’anima di Cavalletto “era volta agli oppressi d’ogni guisa verso cui drizzarvi e core e mente”, e ricorda la soddisfazione con cui egli, durante la breve vita della Repubblica veneta, gli aveva comunicato che le sue adunanze ed i decreti emessi iniziavano con la formula “In nome di Dio e del Popolo”.
Ma soprattutto ne sono testimonianza due scritti di Tito Speri, martire di Belfiore, che con lui aveva condiviso la cella durante la durissima prigionia nella fortezza di Mantova, e che a seguito dei ragionamenti filosofici del Cavalletto si era convertito passando dal materialismo al cattolicesimo da lui definito “la filosofia italiana ontologica”.
In un articolo al “Giornale di Mantova” (che non lo pubblicò) Speri afferma che Cavalletto ”…riassume in sé quanto vi ha di più bello nella ispirazione della religione e dei principi sociali…..”.
E nella notte del 2 marzo 1853, alla vigilia della sua esecuzione gli scrive una lettera nella quale si legge fra l’altro:”.…Sento in me prevalere il principio spirituale in tal modo che sospiro il momento di liberarmi della tortura del corpo e volar finalmente nelle braccia di Colui dal quale sono disceso…..Io ti comando di vivere, di alimentare quel fuoco di virtù che ti serpe nelle vene…..Ai nostri cittadini parla sempre francamemte la verità ed insegna loro dove abbiano ad aspettarsi la vera salute….”. E conclude:” Addio. Sono le 12 di notte. Vado a dormire confabulando confidenzialmente con Dio”.
Una lettera nobilissima, esemplare e commovente, che meriterebbe ben altra diffusione e conoscenza.

Giovanni Zannini

LA STRAGE DI THIENE

L'inchiesta, non ancora pubblicata, dello storico Lino Scalco che ha nuovamente portato alla luce la strage di Codevigo (rievocata sul “Mattino” dello scorso 25 novembre) ove, nel periodo dal 29 aprile alla fine di maggio 1945 furono trucidati dai partigiani comunisti 136 fascisti o presunti tali (tale cifra è la più attendibile di fronte ad altri che parlano di 600 e perfino di 900 vittime), riporta alla memoria quanto avvenne a Thiene nello stesso periodo, ove viene a galla, con sorpresa e rammarico, il nome di un noto personaggio ritenuto dai più insospettabile, coinvolto invece nelle tristi vicende della Repubblica Sociale Italiana.
Ne parla Danilo Restiglian nel suo “Thiene nel periodo della seconda guerra mondiale” (Ed. Grafiche Leoni di Fara Vicentino - 2006) ove si sofferma sugli avvenimenti avvenuti a Thiene dopo il 25 aprile 1945, frutto di una vendetta perpetrata da partigiani comunisti che con il loro comportamento infangarono in questo caso il nome nobile e glorioso della Resistenza.
Verso la fine del 1944 l’avanzata degli alleati che si avvicinavano pericolosamente all’Emilia-Romagna spinse molti fascisti di quella regione ad abbandonarla ed a cercare scampo verso il nord.
Fu così che a Thiene si verificò un imprevisto concentramento di militari della Repubblica Sociale Italiana: un reparto della “X Mas”, la III compagnia dei “Volontari di Francia “ (un singolare corpo costituito da figli di emigranti in Francia che, per un malinteso senso di patriottismo, erano accorsi in Italia assieme a militari del disciolto Regio Esercito che al momento dell’armistizio si trovavano all’estero e che desideravano continuare a lottare a fianco dell’alleato tedesco), la “XXII Brigata Nera Eugenio Facchini” proveniente da Bologna e la “XXV Brigata Nera Italo Capanni” proveniente da Forlì.
Tutti, addetti soprattutto alla repressione della lotta partigiana.
Comandante della “Capanni” era il dr. Giulio Bedeschi che nel dopoguerra pubblicò con grande successo “Ventimila gavette di ghiaccio”, il racconto della drammatica ritirata in Russia della divisione alpina “Julia” alla quale apparteneva come ufficiale medico.
Rientrato in Italia, dopo l’armistizio dell’8 settembre 1943 aveva aderito alla Repubblica Sociale Italiana coprendo posti di responsabilità a Forlì: direttore del settimanale fascista “Il Popolo di Romagna”, quindi Segretario Federale del partito e, infine, comandante della “Capanni” definita dallo storico della Resistenza vicentina Benito Gramola nel suo “La 25° brigata nera A.Capanni e il suo comandante Giulio Bedeschi – Cierre Edizioni” la peggiore delle 40 brigate nere italiane.
Dal libro di Restiglian nulla risulta circa l’attività svolta da questa brigata in Provincia di Forlì, ma di sicuro non se ne aveva un buon ricordo a giudicare dall’odio accumulato da chi dopo la liberazione le diede la caccia con tanta ferocia.
Per quanto riguarda Thiene, l’autore ricorda gli edifici in cui i brigatisti si insediarono, e, fra questi, “ la scuola di avviamento al lavoro dove venivano effettuati gli interrogatori (e, purtroppo, anche torture a partigiani o presunti tali)”.
Non si sa come sia scampato alla strage di molti suoi uomini perché, scrive sempre Reschiglian, “nessuna sua biografia (almeno fino al 2006 – n.d.r.) accenna al periodo 1943-45 ed agli anni successivi. Nel 1966 pubblicò “Il peso dello zaino” a cui seguirono “La rivolta di Abele” e “La mia erba sul Don”. Morì a Verona nel 1990”.
Dopo il 25 aprile 1945 la caccia al fascista ha inizio ed una “Squadra della morte” composta da partigiani comunisti di Forlì vanno in trasferta a Thiene decisi a farla pagar cara a quelli della “Capanni”: una vera e propria spedizione punitiva.
Giunti a Thiene, si presentano alle carceri improvvisate ove sono detenuti i brigatisti, e ne pretendono la consegna, ma il prof. Arnaldo Giovanardi, responsabile della loro custodia, subodorando violenze nei loro confronti, si oppone.
Allora, il 17 maggio, i forlivesi tornano alla carica esibendo documenti della polizia Ausiliaria Italiana che affiancava all’epoca la Polizia Militare Alleata ed a quel punto Giovanardi non può evitare la consegna di 14 brigatisti indicati in un regolare elenco firmato dal CLN di Forlì.
I partigiani forlivesi caricano i prigionieri su di un camion affermando di volerli condurre a Forlì per essere giudicati, ma, appena usciti da Thiene, il veicolo prende la strada della montagna con l’intento di raggiungere a Lusiana una voragine detta il “Buso della Spaluga” scelto per l’esecuzione: ma a causa di un guasto il mezzo si ferma nei pressi della frazione Covolo ed i prigionieri vengono fatti scendere e fucilati sul posto.
Due giorni dopo, il 19 maggio, vengono prelevati dalle carceri altri 11 brigatisti di Forlì che, caricati su di un autocarro, vengono avviati verso il Monte Cimone e, giunti in località Costalunga di Arsiero, uccisi a colpi di mitra.
Per il giorno successivo era stata programmata l’ulteriore eliminazione di alcuni fascisti di Thiene assieme ad altri brigatisti di Forlì che avrebbero dovuto essere fucilati e gettati anch’essi nel “Buso della Spaluga” fuori Lusiana, ritenuto evidentemente dai carnefici forlivesi il luogo ideale per uccidere i prigionieri e far sparire le loro tracce (come nelle tristemente note “foibe” istriane): ma il deciso, coraggioso intervento del dr. Giovan Battista Galvan, farmacista di Lugo di Vicenza valse ad evitare quest’altra barbarie.
Ma il “Buso della Spaluga” conserva forse i resti di vittime delle vendette post 25 aprile 1945 che, chiosando “Il sangue dei vinti” di Giampaolo Pansa, potrebbero definirsi “le ossa dei vinti”?
La speleologo Fabrizio Bassani del “Gruppo Grotte Giara Modon” di Valstagna, interpellato, riferisce che il gruppo di Valstagna e molti altri gruppi veneti hanno più volte disceso la voragine del “Buso” sul cui fondo sono presenti diecine di metricubi di detriti - per lo più immondizie - per cui non è possibile accertare, a breve scadenza, la presenza di resti umani.
A seguito poi dell’eccidio di Schio ove furono trucidati in carcere 50 prigionieri politici, tutti i fascisti detenuti nelle varie prigioni mandamentali, e, quindi, anche quelli di Thiene, furono messi al sicuro nella caserma “Chinotto” di Vicenza e le stragi finirono.

Nota per il dr.Brunazzo: se ci sta, stampa quanto segue, se no taglia.


Resta da chiarire una differenza fra le esecuzioni di Thiene e quelle di Codevigo che però nulla toglie alla loro efferatezza.
Le prime furono opera di una squadra di partigiani indipendente ed autonoma in trasferta a Thiene, mentre le seconde furono eseguite da partigiani inquadrati nelle forze militari alleate o operanti al loro fianco.
Come ricorda Lino Scalco nella sua inchiesta, infatti, il 29 aprile 1945 giunsero a Codevigo gli inglesi dell’ottava armata britannica assieme al Gruppo di combattimento “Cremona” del Regio Esercito e la 28° brigata Garibaldina “Mario Gordini” al comando di Arrigo Boldrini (nome di battaglia “Bulow”).
Sia i garibaldini della “Gordini” che molti effettivi del Gruppo “Cremona” erano originari del ravennate ove avevano imperversato fascisti poi rifugiatisi a nord, molti a Codevigo e nei paraggi , incalzati dall’avanzata alleata.
E la vendetta, come a Thiene, esplose lasciando una triste scia di sangue che si esaurì alla fine di maggio 1945 allorchè gli uomini della 28° brigata Garibaldina giunta con i liberatori, ma portatori di morte, lasciarono Codevigo.
Giovanni Zannini

DIALOGO CON I MUSULMANI: AVANTI NONOSTANTE TUTTO

Nei giorni 23 e 24 ottobre scorsi ha avuto luogo a Roma il Sinodo per il Medio Oriente durante il quale i Vescovi libanesi, pur evidenziando le difficoltà del dialogo con il mondo islamico , hanno sostenuto la necessità di insistervi con costanza e senza scoramenti.
In tale occasione sono intervenuti anche alcuni rappresentanti di quel mondo purtroppo disomogeneo e frastagliato, privo di un’unica guida spirituale, causa prima, questa, delle difficoltà di instaurare con esso rapporti validi generalmente accettati.
Abdel Muti Bayoumi, sceicco della moschea di Al-Azhar e docente nell’università omonima, ha detto fra l’altro:” E’ falso affermare che il Corano e l’Islam si sono imposti con la spada”; i rappresentanti dell’Unione delle comunità islamiche in Italia (UCOOI) ha sostenuto che “E’ sbagliato lanciare accuse contro l’Islam e contro il Corano per i conflitti e per le guerre che ci sono state in passato”, mentre Gamal Bouchaib, presidente del Movimento dei Musulmani Moderati ha affermato che “Ci riteniamo maturi per la critica e l’autocritica…per proporre un nuovo pensiero che si sta già diffondendo fra gli intellettuali illuminati di molti paesi arabo-musulmani”.
Sorprendentemente, proprio nei giorni successivi alla conclusione del Sinodo romano alcuni laici musulmani rappresentanti della società civile egiziana, hanno organizzato un “Meeting” per favorire il dialogo fra le religioni, nel corso del quale Abdel Muti Bayoumi, rientrato da Roma, ha detto”Basta con questo fanatismo odioso”, e Abdel Fattah Assan , deputato indipendente al parlamento egiziano proveniente dalle fila dei Fratelli Musulmani, già Iman-vicario della moschea di Roma, ha affermato che “non c ‘è un Islam moderato ed uno fanatico: c’è da una parte la religione autentica, dall’altra l’ignoranza che conduce alle aberrazioni” e che “durante la predica del venerdì ho sempre insegnato che l’Islam insegna l’amore e la convivenza fra i popoli”.
Al termine del “Meeting” cairota, la conclusione del presidente Tahani al Jibaly, vice presidente della Suprema Corte Costituzionale egiziana: ” Nel nostro paese c’è l’apertura mentale necessaria per far partire veramente il dialogo fra le religioni e le culture, e questo dialogo aiuterà tutto l’Egitto a cambiare”.
Il 1 gennaio 2011, giorno dedicato dalla Chiesa Cattolica alla pace, un attentato dinanzi alla chiesa copta dei Santi ad Alessandria d’Egitto, provoca tra i fedeli 23 morti e diecine di feriti.
E allora, parole vuote quelle più sopra? Inutili gli sforzi per dialogare con l’Islam?
Per chi non fosse, come noi cattolici, ispirato dal Vangelo, la vendetta ed il farsi giustizia da sé sarebbero legittime: ma noi le respingiamo. Il nostri diritto di esigere dal governo egiziano la protezione di tutti i suoi cittadini e la punizione dei colpevoli, è sacrosanto. Contemporaneamente i cattolici dimostrino la fratellanza alle vittime innocenti della violenza con aiuti concreti.
Ma interrompere il dialogo in atto con l’Islam moderato che si sforza di liberarsi dalle scorie d’ignoranza che vi si sono accumulate sopra, sarebbe un errore imperdonabile da parte nostra ed un’offesa ai nostri fratelli copti egiziani martiri del 1 gennaio 2011.
Padova 3-1-011 Giovanni Zannini

UN PO' DI "RESTYLING" ANCHE PER L'INNO DI MAMELI

Non c’è dubbio, il nostro inno nazionale è proprio bello, la musica del M° Michele Novaro è calda, trascinatrice, e costituisce un invito a cantarlo a piena voce assieme agli altri nei momenti in cui ci si sente tutti italiani e tutti fratelli.
Forse, il testo andrebbe un po’ aggiornato, senza offesa per gli avvenimenti gloriosi ed i personaggi che vengono evocati, da Publio Cornelio Scipione Maggiore detto “Scipione l’Africano” che indossando il famoso elmo le aveva date di santa ragione, nel 202 d.c., ad Annibale che aveva invaso l’Italia, alla vittoriosa battaglia di Legnano del 1176 contro il Barbarossa, a Francesco Ferrucci moribondo che nel 1530 ebbe il coraggio di gridare a quel tal Maramaldo che lo stava finendo, “Vile, tu uccidi un uomo morto”; dai Vespri Siciliani che nel 1282 scacciarono gli angioini da Palermo, a Giovanni Battista Perasso detto “Balilla” (un nome oggi un po’ in ribasso per via dello sfruttamento eccessivo che se ne fece in un passato ventennio ) il quale, facendo fischiare nel 1746 il famoso sasso contro gli austriaci ne determinò la cacciata dalla Liguria.
Per cui, dopo aver reso un doveroso omaggio collettivo a tutti gli eroi italiani del passato senza dettagliare troppo, sarebbe forse il caso di dare un’occhiata anche al presente ed al futuro, assegnando all’inno nazionale un significato programmatico volto alla realizzazione di quei sacrosanti principi enunciati nella prima parte della nostra bella costituzione, realizzando in tal modo una significativa e suggestiva simbiosi fra inno nazionale e carta costituzionale della nazione italiana.
Provocando, oltre a ciò, una scossa al carattere ed alla volontà degli italiani ove si mutasse quel “s’è desta” iniziale (sul che sia consentita qualche legittima riserva, dati i tempi che corrono) in un più realistico e stimolante “si desti” , l’ invito ad un virtuoso comportamento civico degli italiani valido per il bene personale dei singoli e quindi della collettività, inneggiando alla pace, alla libertà, alla giustizia, al lavoro, alla cultura, all’onestà, alla solidarietà, alla lealtà, all’onore, al sacrificio, al rispetto degli altri e così via.
In fondo, non saremmo i soli a pensare di aggiornare il testo dell’inno nazionale: i tedeschi , a seguito delle tormentate vicende della sconfitta e del dopoguerra che hanno visto la Germania tagliata in due, ci stanno ancora studiando sopra, come pure la Russia che pare orientata ad una revisione del testo dell’”Inno nazionale della Federazione Russa” approvato dalla Duma nel 2000, appena 10 anni fa.
In ogni caso, il compito che ci attende, ove volessimo aggiornare il nostro Inno Nazionale, è assai meno arduo di quello in cui è impegnata la Spagna.
Se, infatti, in occasione di qualche incontro sportivo internazionale che vede impegnati gli atleti spagnoli, vi accorgete che, mentre la banda suona la “Marcha Real”, che è il loro inno nazionale, quelli fanno scena muta, è perché loro un testo da cantare non ce l’hanno proprio.
Tanto è vero che è stato lanciato un concorso per crearne uno nuovo che possa, tra l’altro, allontanare il sospetto che gli atleti spagnoli siano carenti di spirito patriottico oppure che siano tremendamente stonati.
Giovanni Zannini
Padova 24.3.2011

lunedì 9 gennaio 2012

CANI ARMATI

No, non si tratta di un errore di stampa, invece di “carri armati”, ma proprio di cani che, da ”amici”, si volevano in passato trasformare in “nemici” dell’uomo facendone strumenti di violenza e di morte.
Di un esperimento del genere si dà notizia in un articolo (corredato da un disegno assai realistico ) comparso sul n.8 de “L’Illustrazione Italiana” del 25 febbraio 1877 che si riferisce ad un manoscritto conservato presso la Biblioteca nazionale di Parigi intitolato “Tractatus de re militari ed machinis bellicis” scritto tra il 1330 e il 1340 da un certo Paulus Savetinus Ducensis.
Da esso si apprende che in quell’epoca si sperimentarono dei mastini da utilizzare contro la cavalleria nemica.
Gli animali, si legge, “erano rivestiti d’una gualdrappa di cuoio a squame di ferro e portavano fissa indosso una corta lancia diretta orizzontalmente all’innanzi come il corno del cavallo marino dello stemma d’Inghilterra, ed a piatto, fra la testa e il dorso, un vaso di arenaria entro il quale era assicurata una spugna imbevuta d’un liquido resinoso”.
E allorchè, in battaglia, vi è una carica di cavalleria, ecco che gli avversari contrattaccano dando fuoco al liquido incendiario posto sulle groppe dei mastini i quali, per un effetto simile agli attuali proiettili a reazione, nel vano intento di spegnere le fiamme che li divorano, ed anzi incrementandole sempre più, si danno ad una corsa pazza impattando i quadrupedi avanzanti.
“E’ facile immaginarsi” si legge nell’articolo “l’effetto che dovean produrre nelle schiere dei cavalieri quelle fiamme vive, animate, che si ficcavano sotto il ventre dei cavalli bruciando e ferendo di punta…..e addentandoli alle zampe posteriori…”.
Certamente, una gran brutta faccenda per la cavalleria, ma, come spesso accade, vi era pure il rovescio della medaglia ed il fatto che “prima di giungere al nemico i cani si ferivano e scottavano fra loro, si disperdevano quindi o tornando indietro verso i padroni riescivano più dannosi che utili…”: cosicchè, dopo qualche inconveniente del genere, l’esperimento fu abbandonato.
Ma vi fu chi, durante le seconda guerra mondiale, si ispirò al vecchio Paulus Savetinus Ducensis per utilizzare i cani come arma di offesa contro i carri armati.
I tedeschi, infatti, sperimentalmente, allevarono dei cani che venivano abituati a trovare il cibo esclusivamente sotto i carri armati e che al momento dell’attacco, portando saldamente legata in groppa una potente mina anticarro, venivano indirizzati contro i carri nemici avanzanti sotto i quali gli animali, affamati perché tenuti a digiuno per qualche tempo, si avventavano per trovare cibo.
Ma a questo punto scattava il pulsante della mina che sfracellava la povera bestia e che, contemporaneamente, immobilizzava il carro armato colpito proprio nel suo ventre molle, la sua parte inferiore, non protetta adeguatamente, come il resto, dalla corazzatura.
Ma l’esperimento non ebbe gran successo per lo stesso motivo per cui venne abbandonato quello dei cani “a reazione”.
Assai spesso, infatti, i cani, rintronati dalle esplosioni e dalla confusione della battaglia, perdevano la testa e cambiavano direzione, cosicchè accadde talora che chi li aveva “lanciati” se li trovasse di fronte scatenati verso di loro, con il loro carico di morte, in una corsa irrefrenabile.

Fra Vittorio Emanuele II e Pio IX - LA "CONCILIAZIONE" MANCATA

“Romanofilo”, l’ignoto giornalista che firmava con questo pseudomino la rubrica di attualità “Corriere di Roma” sul settimanale “l’Illustrazione Italiana” dell’anno 1877, dà sui numeri dell’11 e del 27 febbraio la notizia del soggiorno in Italia dell’Imperatore del Brasile don Pedro II d’Alcantara ricevuto in udienza dal Papa e si diffonde in termini altamente elogiativi sulla personalità dell’ospite.
Lodi pienamente meritate perché in effetti si trattava di un capo di stato cui ben si attagliava il termine di “illuminato”. Si legge infatti: ”..L’Imperatore ha 52 anni e per lo spirito liberale e illuminato s’è fatto sempre amare dal suo popolo ch’è il più tranquillo di tutta l’America meridionale; e la storia registrerà fra i suoi grandi atti l’abolizione della schiavitù. E’ poeta e grande amante dell’Italia; la visita che alcuni anni sono egli fece qui al nostro Manzoni è rimasta popolarissima…”.
Elogi condivisi dagli storici che oltre al buon governo ne elogiano la cultura che spaziava dall’antropologia alla storia, dalla geografia alla medicina, dalla giurisprudenza alla filosofia ed agli studi religiosi, dalla pittura alla scultura, dal teatro alla musica, dalla chimica alla fisica ed all’astronomia.
Si comprende dunque come una mente così aperta e sensibile non potesse comprendere “come e perché Vittorio Emanuele (del quale era amicissimo e lieto del coronamento dell’edifizio nazionale in Roma) e Papa Pio IX dovessero vivere nemici fra le stesse mura…”.
E “Romanofilo”, attingendo a chi sa quali fonti, riferisce un episodio avvenuto in data imprecisata limitandosi ad affermare che esso sarebbe avvenuto “l’altra volta”, con riferimento evidente ad una visita che sarebbe stata fatta dall’Imperatore al Papa precedentemente (quando?) a quella del febbraio 1877. Egli si dice dunque in grado di rivelare il generoso tentativo messo allora in atto da don Pedro II “per condurre i due augusti personaggi ad una intelligenza reciproca personale”: e lo descrive con vivezza e ricchezza di particolari.
Pio IX accolse dunque “con segni di alta distinzione e di squisita amabilità” l’Imperatore che “affrontò francamente il problema ed espresse al pontefice il suo vivo desiderio, nel comune interesse dello Stato e della Chiesa in Italia, di vedere il Papa ed il Re stringersi la mano. Pio IX” prosegue l’ anonimo cronista “lo lasciò dire, prestò massima attenzione alle sue parole: godette visibilmente nell’udirle”.
Immaginabile l’ansia dell’Imperatore, e la sua speranza di vedere realizzato il nobile tentativo.
Ma il Papa “rispose in forma evasiva: deplorò i continui progressi della rivoluzione anco dopo il 1870 e aggiunse che egli, senza esser nemico di Vittorio Emanuele, non poteva dimenticare il 1870 stesso…ed il resto”.
Pur deluso nelle sue attese, don Pedro non esita ad esporre il suo pensiero anche sulle responsabilità della Chiesa osservando che “le ostilità permanenti della Santa Sede e del partito che credendo di servirla si abbandona in sua difesa ai più pericolosi eccessi, forse non aveva poco contribuito (ossia: aveva contribuito molto – n.d.r.) ad obbligare il governo del re a provvedimenti di difesa”, e conclude che “molti dubbi si sarebbero schiariti, molte difficoltà tolte di mezzo, col colloquio”.
Il Papa è evidentemente sorpreso dalla franchezza di queste parole, non velate dalla diplomazia cui è aduso, e segue ancora il suo interlocutore con il massimo interesse.
Ma la sua reazione è deludente:”…No, no; vegga, è difficilissimo. Vittorio Emanuele venire al Vaticano? ma le pare? Tutta Roma andrebbe sossopra… e poi il Governo, il Parlamento… i giornali; no, no, capisco tutto, ma la cosa non va”.
L’Imperatore non si arrende e, a questo punto, tenta il tutto per tutto:” Se Vostra Santità mi autorizza, ora, subito, esco di qui, salgo in una bòtte (pessima vettura da nolo) vado al Quirinale, m’intendo col re, montiamo nella botte insieme senza che di notte nessuno ci vegga, e torniamo qua. In mezz’ora tutto è fatto”.
Ma la risposta fa crollare ogni speranza di colui che si era generosamente e volontariamente profferto – dall’alto della sua autorità politica e morale - quale mediatore per risolvere uno dei contrasti più importanti in atto nel panorama politico internazionale dell’epoca.
“”Pio IX – prosegue l’articolista - stette alquanto sopra di sé; corrugò la fronte, poi pronunciò una sola parola:”Impossibile!”. L’udienza era finita. Una settimana dopo l’Imperatore partendo da Roma tentò rivedere il pontefice chiedendo un’udienza di congedo. Il cardinale Antonelli rispose che S.S. era indisposta”.
Non sappiamo se la ricostruzione dell’avvenimento sia fedele e veritiera, anche se il misterioso “Romanofilo” scrive che “quella scena fu così interessante che io, sibbene non pretenda dare in luce alcuna storia nuova né inedita, la riferirò in succinto a profitto di chi la ignora o può averla dimenticata”.
D’altra parte, la serietà ed autorevolezza dell’organo di stampa che ospitò il pezzo fa presumere che la notizia avesse un qualche fondamento.
E se il tentativo di metter pace fra la Chiesa cattolica e lo Stato italiano fosse allora andato a buon fine, l’”Uomo della Provvidenza”, anziché Benito Mussolini che mezzo secolo più tardi riuscì nell’intento, sarebbe stato don Pedro II d’Alcantara , Imperatore del Brasile.
Giovanni Zannini

I MATRIMONI A SORPRESA DI PRINCIPI IMPRUDENTI

Don Pedro II d’Alcantara era stato incoronato Imperatore del Brasile il 18 luglio 1841, all’età di 15 anni, dopo aver accettato, per salvaguardare l’unità del Brasile in pericolo, una “dichiarazione di maggiore età prematura” che gli era stata proposta dalle più alte cariche dello stato proprio per consentirgli, una volta divenuto maggiorenne, di salire, senza ulteriori ritardi, sul trono imperiale.
Quando ne ebbe 18 la corte pensò che per completare ed ulteriormente migliorare la sua personalità fosse giunto il momento di dargli una moglie.
Sul trono di uno stato ricco ed immenso e, oltrettutto, molto bello – 1,90 di altezza, occhi azzurri, capelli biondi – le candidature di principesse fioccarono da ogni parte del mondo.
Prescelta fu Teresa Cristina di Borbone - sorella di Ferdinando II Re delle due Sicilie - il cui ritratto era piaciuto a don Pedro che annunciò subito il fidanzamento.
Fu allora inviata a Napoli una divisione navale brasiliana agli ordini del Contrammiraglio Teodoro di Beaurepaire che, imbarcata l’illustre ospite, la futura imperatrice del Brasile, prese la via del ritorno.
A farle da scorta, una piccola flotta borbonica composta dal vascello di linea “Vesuvio” al comando del barone De Rosa, dalla fregata “Amalia” sulla quale prese imbarco il tenente di vascello principe Luigi di Borbone, fratello della principessa, e altre due fregate, la “Partenope” e la “Regina Isabella”.
Il 1° luglio 1843 le navi napoletane, issato il gran gala e salutata con una salva di nove colpi di cannone la Madonna di Piedigrotta, lasciarono il porto di Napoli e procedettero di conserva con quelle brasiliane attraverso l’ Oceano Atlantico.
Al tramonto del 3 settembre, dopo 65 giorni di viaggio, le navi napoletane e brasiliane gettano le ancore nella baia di Rio de Janeiro accolte dalle salve di tutti i forti e delle navi da guerra in porto.
Ma terminato il tuono dei cannoni, l’imprevisto.
L’Imperatore che si avvicina alla banchina vede scendere dalla nave una giovane donna ben diversa da quella effigiata nel ritratto che gli era stato mostrato, ed in base al quale aveva dato il suo assenso al matrimonio.
L’ignoto ritrattista, infatti, generosamente, aveva attribuito alla principessa fattezze che non corrispondevano a quelle della donna che gli veniva incontro, piccola, un po’ sovrappeso, e, oltrettutto, con il “labbro all’Asburgo” – il labbro inferiore pronunciato - caratteristico delle sua casata.
L’imbarazzo dell’Imperatore è evidente e non fa nulla per nasconderlo.
Vi è chi dice che abbia fatto un rapido dietro-front, o che si sia accasciato su di un sedile.
La sera, in lacrime, sussurra a Mariana de Verna, sua confidente, che gli ha fatto da mamma dopo la morte della madre, e che lui continua a chiamare con il vezzeggiativo “Dadama” (come quando, da bambino, non riusciva a pronunciare la parola “Dama”): “Mi hanno imbrogliato”, ed occorrono molte ore per convincerlo che non è possibile tornare indietro e che si deve proseguire su quella strada.
Le nozze furono celebrate il 4 settembre 1843, all’indomani stesso del drammatico arrivo della sposa, e, nonostante le pessimistiche previsioni, grazie alla forza del carattere di don Pedro maturato nello studio costante ed approfondito, alla sua pazienza e, soprattutto, alla nascita, il 23 febbraio 1845, del primogenito Alfonso, i rapporti fra i coniugi si normalizzarono.
Seguirono, nel 1846, Isabella, Leopoldina nel 1847 e Pietro nel 1848: ma la morte di entrambi i figli maschi dopo soli due anni di vita unirono nello strazio i genitori.
Ed il dolore aleggiò anche sulla loro fine.
Nonostante i grandi meriti acquisiti da don Pedro II nel governo del Brasile (basti ricordare il divieto del commercio degli schiavi e, particolare interessante ai i giorni nostri, la drastica riduzione delle spese per la corte imperiale), a seguito di un colpo di stato del partito repubblicano egli venne detronizzato il 15 novembre 1889 e la coppia costretta all’esilio in Europa ove restò fino alla morte.
Ma, in considerazione dei grandi meriti a lui riconosciuti dagli stessi governi repubblicani, le salme della coppia imperiale furono nel 1920 riportate in patria e riposte con tutti gli onori nella cattedrale di Persepoli, la città fondata dallo stesso imperatore.

Nello stesso tipo, diremo così, d'infortunio, incappò, alla fine del millesettecento, anche George Augustus Frederick, 21° Principe di Galles, figlio maggiore di Giorgio III detto il Re Pazzo, destinato a succedergli come Giorgio IV.
Lo ricorda Antonio Caprarica che, come ex direttore della sede RAI di Londra, di cose inglesi, nel bene e nel male, se ne intende, nel suo "Il romanzo dei Windsor" (Sperling & Kupfer Editori 2013).
L'autore racconta che per il principe, dopo aver folleggiato  per molti anni collezionando donne e debiti, venne il momento in cui il padre, in un momento di lucidità, gli impose di metter su casa per assicurare il futuro della dinastia e che, per vincere l'ostilità del figlio che non ne voleva sapere, l'augusto genitore lo ingolosì proponendogli, ove avesse obbedito al suo desiderio, di pagargli i debiti, ben 375.000 sterline dell'epoca, una cifra enorme. Di fronte a questa allettante proposta il giovane principe, ricco di bellezza e di eleganza, colto, abile nella scherma e nel tiro, esperto di bische e gran bevitore, ma assai scarso di virtù, si arrende ed accetta di convolare con una delle candidate prospettategli dal padre, la principessa Carolina di Brunswich - un "ducato da operetta" -     figlia della sorella maggiore del re, quindi sua prima cugina.
Accettazione "al buio", altamente imprudente senza aver mai visto la nubenda se non sulla scorta di miniature assai sospette perchè si sa che i ritrattisti, per portarsi a casa l'onorario non esitano, occorrendo, a trasformare nasi distorti o prognatismi accentuati in deliziosi profili , esili toraci in seni procaci, e così via.
Tanto più imprudente, il Principe di Galles, perchè, se si può giustificare quello brasiliano il quale, per dare un'occhiata alla futura sposa, avrebbe dovuto attraversare l'Atlantico, per lui sarebbe bastato attraversare la Manica e poi raggiungere Brunswich,  per rendersi conto "de visu" e non sulla sola scorta di ritratti, come abbiamo sopra detto, talora sospetti e menzogneri, delle sembianze della futura moglie.
 Non senza notare che anche per la Caroline l'aspetto del futuro sposo fu una delusione: si accorse infatti che, complice  il solito ritrattista infedele, il futuro marito "era molto grasso e per niente bello come nel suo ritratto".
Sta di fatto che il bel Giorgio, alla vigilia del matrimonio, si trova al cospetto di una promessa sposa,
scrive Caprarica, "decisamente poco graziosa e rozza..., rubizza, goffa, e che vestiva poco meglio di una contadina...garrula, esibizionista, ridanciana e chiacchierona, priva di bune maniere" e, addirittura, assai carente, per non dir di peggio, nell'igiene e cura della persona. Lo "shok" del principe a quella vista è significativamente attestato dalla frase che egli rivolge al barone di Malmesbury che lo accompagna:" Harris, vi prego, non mi sento bene. Datemi un bicchiere di brandy".
Il matrimonio, ciononostante, è celebrato ma, come era facile prevedere,  con esito disastroso: al ripudio poi notificatole la sposa reagisce con un comportamento sconveniente mirante, oltre ad ottenerle personali soddisfazioni, a far sì, scrive Caprarica,  "che la sua vergogna sociale  potesse danneggiare anche l'odiato marito".

In conclusione, vi è da rallegrarsi che l'avvento della fotografia, assai più sicura di non sempre  veritiere miniature, impedisca che inconvenienti del genere di quelli sopra ricordati abbiano a verificarsi anche ai giorni nostri.
                                                                                        Giovanni Zannini


I

giovedì 5 gennaio 2012

Nel dramma Mussolini-Ciano UN PRANZO INDIGESTO AL CASTELLO DI HIRSCHBERG

Nella drammatica storia dei rapporti fra Mussolini e Ciano val la pena esplorare il periodo di circa due mesi successivi alla drammatica seduta del Gran Consiglio del Fascismo che il 24-25 luglio 1943 provocò la caduta del fascismo in Italia.
Le vicende di Mussolini sono note: arrestato all'indomani della seduta, dopo un lungo peregrinare alla ricerca del luogo sicuro in cui tenerlo prigioniero, è finalmente condotto sul Gran Sasso d’Italia da cui il 12 settembre viene liberato da una magistrale azione di commando(l’”Operazione Quercia”, combinata fra un reparto di paracadutisti al comando del magg.Harald-Otto Mors, e di SS comandate dal cap. Otto Skorzeny) il cui merito fu attribuito a quest’ultimo anche se pare esso sia da attribuirsi al Mors che dell’intera, brillante operazione era stato il regista.
Il piccolo aereo (uno “Stork” - cicogna – aereo a decollo e atterraggio breve ai cui comandi era l’esperto capitano della Luftwaffe Gerlach, pilota personale del gen.Kurt Student, asso dell’aviazione tedesca e fondatore dell’arma dei paracadutisti) sopraggiunto all’esito positivo dell’azione prende a bordo l’ex Duce e dopo aver lasciato con un decollo mozzafiato il Gran Sasso atterra nel piccolo aeroporto di Pratica di Mare. Da qui è trasferito su di un Heinkel 111 che la sera stessa raggiunge l’aeroporto di Vienna donde contatta Hitler che vorrebbe vederlo subito, ma Mussolini, stremato, afferma di non essere in grado di farlo e finalmente può riposare nel viennese hotel Continental.
L’indomani, 13 settembre, è dedicato agli affetti familiari che Mussolini, prima di ripiombare nel vortice di un’avventura che prevede oscura e piena d’imprevisti, vivamente desidera.
Parte in aereo da Vienna ed atterra a Monaco ove la moglie Rachele ed i figli già si trovavano - ivi trasferiti dai tedeschi timorosi che il colpo del Gran Sasso avrebbe potuto provocare rappresaglie nei loro confronti – e trascorre in famiglia la notte in una villa posta a loro disposizione.
Il giorno successivo, 14 settembre, nel pomeriggio, parte per il nord diretto a Rastemburg – l’attuale Ketrzyn, nella Masuria, regione della Prussia orientale - ove avviene l’incontro con Hitler nel suo Quartier Generale, “La tana del lupo”.
La cronologia dei movimenti di Mussolini dopo la sua liberazione dal Gran Sasso è tratta dal 2° volume della “Storia della Repubblica di Salò” (titolo originale “The Brutal Friendship. Mussolini , Hitler and the Fall of Italian Fascism”) – Giulio Einaudi Editore 1970 - di Frederick William Deakin e da essa emerge che, contrariamente a quanto generalmente ritenuto, l’incontro fra i due dittatori non avvenne nell’imminenza della liberazione, ma solo dopo un periodo di “decantazione” di circa tre giorni.
Comunque siano andate le cose, Goebbels scrive nel suo diario che “ i reciproci saluti sono stati straordinariamente cordiali ed amichevoli. Il Fuhrer lo attendeva all’esterno del suo bunker con il figlio del Duce, Vittorio. Hitler e Mussolini si sono abbracciati dopo la lunga separazione. E’ stato questo un esempio di fedeltà fra uomini e camerati che ha profondamente commosso…”.
I due “camerati” restano a colloquio per un paio d’ore: Hitler è furioso contro i congiurati del 25 luglio, mentre Mussolini appare, invece, più propenso ad attenuarne le colpe .
Alla fine il Duce s’incontra nella saletta delle conferenze del bunker (ove il 20 luglio 1944 avverrà il fallito attentato contro Hitler) con Pavolini, Ricci, Farinacci e Preziosi già arrivati al Quartier Generale di Hitler, ed in questi colloqui protrattisi fino a tarda notte vengono esaminate tutte le problematiche relative alla possibile costituzione di un nuovo stato fascista in Italia.
Nei successivi 15 e 16 settembre Mussolini prosegue a Rottemburg i suoi colloqui con Hitler che riesce a vincere i suoi timori e le sue perplessità minacciando anche, si dice, che in caso di suo rifiuto l’Italia avrebbe avuto una sorte ben peggiore di quella riservata dai tedeschi alla Polonia, cosicchè la stessa sera del 15 un comunicato della nuova Agenzia di stampa fascista diffonde da Roma un comunicato secondo cui “Benito Mussolini ha ripreso oggi la suprema direzione del Fascismo in Italia”, facendo seguire i primi cinque ordini del giorno.
Il 17 dello stesso mese l’ex duce si congeda da Hitler, parte in aereo per Monaco e prende residenza con la famiglia nel castello di Hirschberg a Waldbchel - vicino a Weilheim - nella Baviera meridionale: e fino al 23 settembre, allorchè Mussolini lascia Monaco per rientrare in Italia, quel castello nella lontana foresta bavarese fu, per pochi giorni, il suo nuovo Palazzo Venezia. Ma Filippo Anfuso, suo fedelissimo, accorso dalla Legazione italiana di Budapest per essere al suo fianco, ne dà una penosa descrizione:”Finii – scrive – per assumere le funzioni di usciere, segretario e telefonista…”
E fu lì che avvenne l’incontro con Ciano e la sua famiglia che – come vedremo – già si trovavano in Baviera, a pochi chilometri di distanza, a Oberallmannshausen, sul lago di Starnberg, in una lussuosa villa messa a loro disposizione da Hitler.
Ed è da lì, dal castello di Hirschberg che Mussolini annuncia la costituzione del nuovo governo in base alla lista che Pavolini, inviato a Roma con questo incarico, faticosamente, e sotto l’attento controllo dell’ambasciatore tedesco Rhan, era riuscito a mettere insieme.
Meno nota la trafila di Ciano all’indomani del 25 luglio 1943.
Era rimasto a Roma, al contrario degli altri 13 partecipanti alla storica seduta che, fiutata la mal parata, se ne erano prudentemente allontanati scampando alla mala sorte degli altri sei rimasti invece nella capitale e che furono poi – ad eccezione di Cianetti che se la cavò con trenta anni di reclusione - fucilati a seguito del processo farsa di Verona.
Ma pochi giorni dopo la storica seduta i tedeschi - con il pretesto di sottrarlo alla resa dei conti cui il governo Badoglio lo avrebbe sottoposto, assieme agli altri gerarchi, per le responsabilità loro derivate dall’attiva partecipazione al complotto - organizzarono la fuga (che si rivelò, invece, una trappola) di Ciano, imbarcandolo il 27 agosto con tutta la famiglia su di uno Junker 52 che prese il volo da Ciampino diretto in Germania.
Hedda Mussolini affermerà poi che erano stati violati gli accordi secondo i quali la famiglia Ciano avrebbe dovuto essere portata in salvo in Spagna, ma i tedeschi lo negano.
A bordo dell’aereo, due personaggi dei quali la storia avrà modo di occuparsi: Otto Skorzenj, il futuro liberatore di Mussolini, ed il pilota, il capitano delle SS Erich Priebke, condannato nel 1998 all’ergastolo per la rappresaglia tedesca che a Roma provocò la morte di 335 civili italiani fucilati alle Fosse Ardeatine.
Ma torniamo alla “fuga” (o al rapimento?) di Ciano.
Atterrato l’aereo a Monaco, l’ex Ministro degli Esteri Italiano, “visibilmente felice” (come scrive Ray Moseley, corrispondente europeo del “Chicago Tribune”, candidato al Premio Pulizer 1981, nel suo “Ciano, l’ombra di Mussolini”, Arnoldo Mondadori Editore 2000, dal quale sono state raccolte molte delle notizie qui riportate) viene trasportato con tutta la famiglia in Baviera, a Oberallmannshausen, sul lago di Starnberg - noto per il suicidio, ivi avvenuto, nel 1886, del re Ludwig II di Baviera- e “alloggiato in gran segreto in una magnifica villa messa a disposizione da Hitler” che,mentre odiava Ciano, si dice avesse stima e, addirittura, affetto, per sua moglie Hedda.
Moseley scrive infatti che essa chiese ed ottenne di avere un incontro con Hitler che avvenne il 31 agosto nella sua baracca di legno nella foresta polacca – “La tana del lupo - e cita un brano delle memorie della donna che, se vere, hanno dell’incredibile (pag.211):”…Mi strinse a lungo le mani con gli occhi pieni di lacrime, e mi introdusse subito nel salotto, dove ci venne servito il tè…”.
Ma tornando alle vicende dei tormentati rapporti fra Ciano e Mussolini, il destino volle che i due uomini un tempo legati da consonanza di idee e da affetti familiari che la seduta del 25 luglio 1943 aveva tragicamente contrapposti, tornassero ad incontrasi pochi mesi dopo, in terra straniera: e gli odi paiono sopiti.
Mussolini aveva qualificato Ciano “genero infedele”, traditore e Federzoni scrisse che il suo intervento al Gran Consiglio fu per Mussolini “il quarto d’ora di più amara esasperazione. Gli occhi lampeggianti roteavano d’ira”; e Buffarini Guidi aggiunse che “ la faccia che fece quando parlò Ciano non potrà mai essere descritta”.
Da parte sua Ciano, accortosi in ritardo della sconfitta incombente, non aveva esitato ad aderire convintamente all’Ordine del giorno Grandi anche se questi, rendendosi conto della sua delicata posizione
familiare, era giunto a suggerirgli l’astensione: ma egli, Ciano, pur grato del riguardo, si dimostrò deciso a non cambiare strada e firmò il documento.
Hedda, il 13 settembre, chiede al padre di ricevere il marito che pochi giorni dopo viene ammesso alla sua presenza, ed ecco quanto scrive su quell’incontro:”(Mussolini) lo accolse quasi affettuosamente, si abbracciarono e parve che un’identica commozione soffocasse entrambi. Poi si chiusero nell’ufficio di papà per un colloquio a quattr’occhi e quando Galeazzo ne uscì mi parve disteso.Mi disse di aver fornito tutte le spiegazioni possibili sulla parte da lui avuta in tutta la faccenda; gli sembrava che mio padre gli avesse creduto”.
”Ciano” prosegue Hedda, “gli aveva chiesto il permesso di rientrare in Italia con qualunque compito, compreso quello di riprendere servizio in aviazione. Secondo mio marito papà aveva aderito anche a questa richiesta”.
Da parte sua la madre, Rachele, che nelle sue memorie afferma di aver assistito a quel colloquio, scrive che ”Ciano si difese dall’accusa di tradimento scagliandosi contro Grandi e Badoglio. Benito l’ascoltò in silenzio : ciò che aveva sofferto negli ultimi tempi lo portavano al perdono più che alla vendetta. Inoltre, voleva troppo bene alla sua Hedda…”.
Gli eventi successivi portano però a dubitare di questo atteggiamento comprensivo ed in sostanza portato al perdono di Mussolini nei confronti del genero.
A questo primo incontro ne seguono altri due.
Il 19 settembre i Ciano pranzano con i Mussolini nella sua residenza, il castello di Hirschberg .
Il figlio dell’ex duce, Romano, cerca di allietare il simposio suonando al pianoforte musica jazz ( il che, ricordiamo, gli diede una certa notorietà nel dopoguerra); ma poi, quando lo avvertono che quella musica americana non è affatto gradita ai tedeschi, passa ai valzer viennesi.
Moseley riporta nel suo libro la descrizione che di quel pranzo - molto frugale e nient’affatto appetitoso - dà l’altro figlio di Mussolini, Vittorio, che vi partecipò.
“Mio padre si sedette a capotavola su una poltroncina antica. Vestiva un abito borghese scuro…I suoi lineamenti apparivano alterati dalla fatica e dal dolore…Era dimagrito, sofferente, e soltanto i suoi occhi, profondi e imperiosi avevano conservato un po’ della loro forza… Lo vedevo assorto da pensieri lontani da noi e forse da lui stesso…”.
E Ciano? “Alla sua destra – prosegue il racconto – mio cognato Galeazzo conservava il suo abituale contegno superiore e distaccato che indispettiva mia madre. Indossava un vestito grigio chiaro di taglio perfetto, e dal taschino dalla sua giacca usciva un fazzoletto candido con disinvolta eleganza, i suoi capelli erano pettinati con cura, le sue unghie inappuntabilmente tagliate. Ogni tanto riusciva persino a farci sorridere commentando con me la modestia di quella colazione…”.
Un clima, dunque, pesante, una riunione di famiglia devastata dall’attesa di un domani oscuro che incombeva, nella quale il jazz di Romano aveva l’aria di accompagnare il lamento di una tragedia greca, le battute di Ciano tentavano invano di rompere il peso di una situazione carica di angoscia, mentre Rachele guatava verso il genero al quale aveva una volta minacciato di “sputare in faccia”, ed Hedda, in crisi di nervi, che “per ogni piccolezza, spacca mobili e ceramiche” della sontuosa villa che l’ospitava, “cercava di trangugiare qualche boccone in silenzio…”.
Alla fine Mussolini, dopo aver raccolto dalla tovaglia - con un gesto che, a detta del figlio, gli era consueto - le briciole del pane, “salutò tutti con un gesto stanco. Uscito lui anche Hedda e Galeazzo si alzarono per ritornare alla villa di Almannshausen…”.
Pochi giorni dopo questo pranzo che fu per tutti, senza dubbio alcuno, assai indigesto, Mussolini lasciò la Germania per recarsi in Italia a fondare la Repubblica Sociale Italiana che fra i primi atti costituì il Tribunale Speciale Straordinario destinato a giudicare i traditori del 25 luglio, davanti al quale fu trascinato Ciano la cui estradizione dalla Germania era stata autorizzata, a metà ottobre, dallo stesso Hitler.
Condannato a morte assieme ad Emilio De Bono, Tullio Cianetti, Carlo Pareschi, Giovanni Marinelli, e Lucio Gottardi, Ciano e gli altri furono fucilati l’11 gennaio 1944 nel poligono di tiro di Verona.
La parentesi che si era aperta con l’incontro tra Mussolini e Ciano di metà settembre 1943 in Germania, e che parve dare a quest’ultimo un barlume di speranza, fu così inesorabilmente chiusa dai moschetti del plotone d’esecuzione dei militi della Guardia Nazionale Repubblicana che avevano chiesto l’onore di dare la morte al traditore Galeazzo Ciano.
Giovanni Zannini