giovedì 22 agosto 2013

LA RIMONTA DI BERLUSCONI

Dunque l’on.Silvio Berlusconi ha deciso di risalire la china che lo ha portato al fondo della condanna per frode fiscale e lo fa rinverdendo i colori di quella ”Forza Italia” che ha segnato l’inizio, innegabilmente brillante, della sua carriera politica.
Già altri personaggi (di certo molto più importanti, nel bene e nel male, di Berlusconi)  hanno, nel passato,  tentato la rimonta, ma non gli è andata molto bene.
Garibaldi, dopo aver fatto dono al re Vittorio Emanuele delle province meridionali da lui liberate, saluta tutti e se ne torna a Caprera. Ma il suo sogno, il suo tormento, è la liberazione di Roma che il tempestivo arrivo del re – il quale a Teano  gli ha sbarrato la strada - gli ha impedito di realizzare.
Pensa alle folle esultanti che l’hanno accolto al suo sbarco a Marsala, a quelle che lo hanno acclamato  per tutto il percorso fino a Napoli ove è stato accolto  in delirio ed è certo che quello stesso popolo lo seguirà alla conquista di Roma.
Ma non è così: l’entusiasmo con cui viene ancora una volta accolto in Sicilia nel 1862 si attenua, si affloscia mentre egli percorre le dure strade della Calabria ed il fatale Aspromonte porrà fine al  suo sogno di rinnovare, dopo soli due anni, il trionfo dei Mille, e di entrare, vittorioso, nella città eterna.
Napoleone al colmo del suo successo, si lancia nel 1812 nella tragica avventura della Russia; sconfitto dal gelo della steppa, sconfitto nel 1813 a Lipsia da Russia, Prussia,  Gran Bretagna e poi Austria, che gli si sono coalizzati contro, nel 1814 a Fontainebleau firma l’abdicazione e si ritira nell’esilio dorato dell’Elba. Il ricordo  dei passati trionfi, il desiderio della rivincita ed il timore di essere trasferito in un luogo ancor più lontano, lo spingono  nel 1815 alla fuga dall’isola proprio  nel momento in  cui le potenze vincitrici stanno restaurando l’Europa da lui sconvolta, e che di nuovo si coalizzano contro di lui. Iniziano così i “cento giorni” dai quali uscirà definitivamente sconfitto a Waterloo e che lo condurranno alla tomba di S.Elena.
Il caso di Mussolini è troppo noto e recente per dover essere raccontato.  Basta ricordare la caduta del 25 luglio 1943, ed il suo disperato fallito tentativo di risorgere, di rimontare,  fondando nel settembre dello stesso anno, dopo la  liberazione dal Gran Sasso,  la Repubblica Sociale Italiana.
Non sappiamo se Berlusconi saprà rimontare dal baratro in cui è precipitato: sappiamo solo che lo dirà la storia ed a noi non resta che aspettare le sue decisioni.

                                                                                                               Giovanni Zannini       

Il viaggio della "Cristoforo Colombo" - L'ITALIA INCONTRO AL MONDO

L’ILLUSTRAZIONE ITALIANA, la storica rivista settimanale edita nell’800 dai F.lli Treves di  Milano dava nel numero dell’8 gennaio 1877 la notizia della partenza del “R.Avviso-rapido CRISTOFORO COLOMBO” per un  viaggio attorno al mondo avente evidenti scopi promozionali. “La nobile missione” si legge infatti nell’articolo,  era “ di far conoscere, rispettare ed amare il vessillo italiano  anche nei lidi più remoti”.
Dopo il Risorgimento, l’Italia unita andava, simbolicamente, incontro al mondo.
La nave era stata varata il 17 settembre 1875 nel Regio Arsenale di Venezia e costituiva all’epoca il meglio
della cantieristica italiana per la sua categoria.
Lunga m.75,72 e larga m.11,30, costruita con sistema misto (legno e metallo), l’apparato motore costruito  dalla ditta  “Penn and Sons” di Greenwich le  imprimeva una velocità   massima di 17 miglia,  era provvista di circa  500 tonnellate di carbone che le assicuravano un’autonomia da 2100 a 4000 miglia a seconda della velocità. Era armata  con 5 pezzi del calibro di 12 centimetri  e con 2 mitragliere da 31 colpi ciascuna; per il salvataggio, 6 lance  e due piccole barche a vapore. Massimo il conforto per il comandante e gli ufficiali (ma del resto dell’equipaggio non si parla).
Il lungo itinerario prevedeva di raggiungere  il Giappone dopo aver toccato  Brindisi, il Pireo, l’Egitto, l’India, la Birmania, la penisola di Malacca e la Cina . Quindi  la  Polinesia, l’Australia e poi, attraversato il Pacifico,   San Francisco negli Stati Uniti. Da lì, posta la prua verso sud, si costeggiano le due Americhe fino allo stretto di Magellano superato il quale, risalendo le coste americane  dell’Atlantico, la nave arriverà a Filadelfia dopo aver visitato i porti più importanti del Brasile, dell’Argentina, delle Antille, del Messico e degli Stati Uniti. Il cerchio si sarebbe chiuso raggiungendo l’Italia attraverso lo stretto di Gibilterra: dalla documentazione in nostro possesso (la raccolta dell’”Illustrazione” dal 14.1.1877 al 22.7 dello stesso anno), non risulta se il progetto sia stato portato a buon fine e, in tal caso, in che tempi.
A bordo, un inviato  speciale dell’”Illustrazione” dal  nome strano , tal Patta d’Ancora (forse lo pseudonimo di chi voleva dimostrare la propria competenza marinara? “patta” è la parte uncinata dell’ancora destinata a tenerla ben salda sul fondale) cui spetterà il compito d’inviare al giornale corrispondenze, fotografie e schizzi con   informazioni e notizie  poco note e talvolta bizzarre, che riferiremo qui di seguito, del mondo di un secolo e mezzo fa.
Seguiremo qui la parte iniziale del lungo viaggio avvenuto sulle orme di quello effettuato pochi anni prima, nel 1873,  da un fedelissimo di Garibaldi, Nino Bixio il quale - divenuto, dopo aver partecipato alle principali avventure garibaldine, deputato e successivamente imprenditore come armatore navale - si era convinto, con una geniale intuizione, che il futuro commerciale della marineria italiana non fosse più sulle rotte inflazionate dell’Atlantico,  ma, dopo l’apertura del Canale di Suez, su quelle dell’Oriente. Seguendo questa idea aveva con il suo piroscafo “Maddaloni” – il cui nome ricordava un borgo campano ove aveva strenuamente combattuto durante la gloriosa battaglia del Volturno dando un fondamentale contributo alla vittoria – toccato fra i primi italiani i porti dell’estremo oriente concludendo poi in maniera drammatica, dopo un inizio promettente, la sua avventura.
E vedremo come, per una fortuita coincidenza,  il  “Cristoforo Colombo” incrocerà gli esiti drammatici  del viaggio del generale garibaldino.   
La partenza avviene, fra l’entusiasmo generale, da Venezia,  il 20 gennaio 1877, e il 2 febbraio la nave italiana inizia l’attraversamento del Canale di Suez. A proposito di   Porto Said, la città nata a seguito dell’apertura del Canale avvenuta 16 anni prima e che già contava 13.000 abitanti, l’inviato speciale rileva, con rammarico, che “se la civiltà europea comincia ad allignare nel quartiere musulmano , i nostri vizi, invece, vi hanno già preso profonde radici”.
Il 22 febbraio si raggiunge il porto di Mascate, capitale dell’Oman, accolti con tutti gli onori dal Sultano che invia a bordo, come regalo di benvenuto, sei montoni e sei ceste di melograni mentre, prima della partenza, farà omaggio di “due magnifiche piccole gazzelle”: per fortuna, per evitare qualche imbarazzo agli italiani,  si astiene dal far loro dono di un leone simile a quello, magnifico, che, in gabbia, presidiava la residenza del sultano.
Impressiona il giornalista la quantità di baracche nelle quali si vendono commestibili “fra i quali primeggiano le locuste fritte. Fa ribrezzo e nausea  il vedere con quale delicatezza  e ghiottornia (sic) essi prendono quell’insetto per le ali,  ne staccano con le mani le gambe posteriori  e quindi ne fanno un boccone solo  non gettando che le ali dopo aver ben guardato che ad esse non sia attaccata la ben minima porzione di carne”: per il resto, dappertutto,  miseria e  povertà impressionanti.
Finalmente si parte e il mattino del 28 febbraio la “Cristoforo Colombo” giunge a Bombay nel cui porto incontra il piroscafo “Australia” dell’ italiana  Società Rubattino di Genova “la prima in Italia (grazie all’intuizione del Bixio - ndr) che osò avventurarsi nelle Indie  e vi fece conoscere la bandiera italiana….Ora la Rubattino…. è quella che dopo la “Peninsular  and Orietal Steam Navigation”  fa i migliori affari commerciali”.           
 Il Patta d’Ancora descrive le attività commerciali di una città destinata a superare in Asia, per importanza, Singapore e Shangai  e riporta usi e  costumi dell’epoca che suscitano curiosità.
Vicino al quartiere indiano chiamato dagli inglesi “Black-Town” (città nera), ad esempio, troviamo un vasto edificio destinato ad ospitare gli animali malati suddivisi in vari recinti per i malati, i convalescenti  e quelli sani abbandonati, chiara  dimostrazione della bontà, della dolcezza di sentimenti e della  mitezza di indole degli indiani.
In questo singolare ospedale vengono ospitati animali di ogni genere, suddivisi in vari recinti destinati agli ammalati, ai convalescenti ed a quelli sani abbandonati e qui raccolti.

I cimiteri? Inutili

A questo quadro di gentilezza e di buoni sentimenti, fa riscontro la descrizione piuttosto cruda delle cerimonie funebri di una delle minoranze esistenti a Bombay, i Parsi, discendenti dagli antichi persiani, che “attivi ed onesti,  hanno tutte le virtù degli ebrei  senza averne i difetti”.
Anzitutto essi si preoccupano del comportamento tenuto in vita dal defunto e per questo viene posto accanto ad esso un cane: se questo fugge senza abbaiare, il defunto sarà onorato, ma se invece l’animale fugge abbaiando,  dimostrerà  che egli è stato un peccatore: ma, sia in un caso che nell’altro, le spoglie mortali non cessano di essere ritenute sacre. Dopo di ciò  la salma viene affidata ai sacerdoti che la portano in una grande torre detta “la torre del silenzio” popolata da migliaia di corvi ed avvoltoi che in meno di dieci minuti la spolpano completamente, mentre le ossa sono gettate in un foro comunicante con il mare ove i miseri resti scompaiono del tutto senza lasciare traccia alcuna.           
Ad ingentilire questa cronaca piuttosto macabra, il giornalista inserisce, per doverosa completezza,  (e lo farà, lo vedremo, anche in altri casi), un commento riguardante le donne delle varie etnie: le indiane “generalmente belle, piuttosto piccole di statura ma di forme eleganti, hanno tutte portamento nobile ed incedere maestoso”, mentre le musulmane “godono maggiore libertà di quelle in  Europa giacchè vanno sempre sole  per le strade ed a testa scoperta; sono generalmente belle  ma non offrono troppe attrattive essendo poco pulite a differenza  delle loro concittadine pagane le quali spingono l’amore per la pulizia sino al punto di rimanere per delle ore continue immerse nell’acqua”. Per finire, le ebree che “hanno carnagione bianchissima però sono tutt’altro che belle”.
Un cenno anche per disilludere quanti sognavano, a Bombay,  piccanti visioni da mille e una notte.
Il fortunato inviato speciale assiste ad un “nautsh” (ballo delle bajadere) durante i festeggiamenti di un ricco matrimonio ove delle giovani e belle fanciulle riccamente vestite “cantano con voce monotona delle lunghe nenie e accompagnano il canto con dei graziosi movimenti dei piedi e delle mani; talvolta appoggiano il tallone fortemente a terra facendo risuonare tutti gli anelli che portano nelle dita, tal altra si avanzano leggermente sulla punta dei piedi atteggiandosi in pose piene di grazie. In tutto ciò nulla che offenda il pudore o che sorpassi i limiti della decenza”.

Tracce di Inquisizione

Il viaggio prosegue e il pomeriggio del 10 marzo la nave italiana giunge nel porto di Goa, 20.000 abitanti, capoluogo delle possessioni portoghesi nell’India strappate agli inglesi. L’aspetto è squallido, i segni della religiosità portoghese è attestata da una chiesa o da un’immagine sacra che s’incontra ad ogni passo fra tanta povertà, ricordo, purtroppo, di quella Inquisizione - importata dalla penisola iberica - che “vi regnò in tutto il suo terrore fino al 1815, epoca in cui fu abolita”.  Fra i portoghesi residenti, quasi tutti militari o impiegati, singolare l’incontro “con un italiano, prestigiatore di professione, il quale, dopo aver percorso l’India colla propria famiglia, era venuto a passare qualche mese a Goa”.
Il 10 aprile la nave getta l’ancora nella bella baia di Singapore ove già si trova la nave mercantile italiana  “Principe Amedeo di Savoia” ed il giornalista descrive le caratteristiche degli abitanti. In maggioranza sono malesi che indossano una specie di gonnella  ed una piccola giacca, ed hanno lineamenti piuttosto brutti: in particolare, “il sesso gentile, quantunque non si possa dire brutto, pure ha poche attrattive in causa dell’odore ingrato di  olio di cocco  col quale si unge i capelli e la pelle”. Una colonia florida e assai numerosa è costituita dai cinesi – “gente eminentemente corrotta” secondo il Patta d’Ancora – 90.000 uomini e 20.000 donne che vestono tutti alla stessa maniera, larghi calzoni   ed una camiciola bianca oppure nera. “Gli uomini sono assai brutti, ma ordinariamente di bella statura (evidentemente, con il passar del tempo, si sono rimpiccioliti…n.d.r.) e ben fatti; le donne, poi, sono addirittura dei piccoli mostri. I fanciulli, invece, e le fanciulle al disotto dei 10 anni sono assai belli  e non sembrano punto figli di gente sì brutta”.

L’incontro con l’eroe

A questo punto il “Cristoforo Colombo” incrocia quell’avvenimento storico  che chiude la parte iniziale del suo  viaggio con un singolare intreccio con un altro  (rievocato in questo “blog” con il titolo “Nino Bixio combattente sanguigno, politico avveduto, impresario sfortunato”) compiuto alcuni anni prima, sulla stessa rotta, dal generale garibaldino.
Abbiamo già sottolineato la sua idea geniale, che volle egli stesso collaudare,  di aprire alla marineria italiana le rotte dell’estremo oriente dopo l’apertura del Canale di Suez.
Con il suo moderno “Maddaloni”che suscita ovunque ammirazione, un vascello misto, in grado di navigare sia a vela che a vapore, giunge nell’estate del 1873 nel porto di Singapore, nelle Indie Olandesi,  con un carico di carbone.
Mentre è alla ricerca di mercanzie per il viaggio di ritorno, coglie al volo l‘occasione offertagli dal governatore olandese di trasportare militari al nord dell’isola di Sumatra  per domare una rivolta degli indigeni Atiek (i quali,  dopo una lunga guerra di liberazione, daranno vita, nel 1959, alla nuova Repubblica d’Indonesia).
L’offerta prevede 7000 sterline a viaggio rinnovabile mese per mese, una manna per Bixio che accetta di imbarcare  un contingente di  1200 militari (pochi olandesi ed il resto  mercenari europei  e truppe indigene cinesi e malesi di infima qualità) con armi, bagagli e cavalli al seguito. 
Purtroppo l’affare si rivela assai magro perché sul “Maddaloni”, divenuta una caserma galleggiante, regna il disordine ed il sudiciume che alla fine provocano  un’epidemia di colera che colpisce anche Bixio prodigatosi nell’assistenza ai malati.
Muore il 16 dicembre 1873 all’età di soli 52 anni, ed a quel punto s’ingaggia una controversia fra gli italiani che vorrebbero imbalsamare il corpo del loro generale, e gli olandesi che invece, per evitare l’ulteriore diffusione del morbo, vorrebbero distruggerlo. Alla fine, raggiunto il compromesso, il cadavere è racchiuso in una cassa di ferro e sepolto nell’isoletta di Pulo Tuan, ma gli Atiek, che hanno osservato, non visti, la manovra, ritenendo trattarsi di chi sa quale tesoro,  la dissotterrano, l’aprono e scoperto, atterriti e schifati, il macabro contenuto, la riseppelliscono di corsa sotto poche badilate di sabbia.
E allorchè nel marzo 1876 il cap.Brook del 2° reggimento di fanteria olandese,  comandante del presidio militare ove si erano svolti i combattimenti, dopo lunghe ricerche grazie alla confessione di un indigeno riuscì ad individuarla e dissotterrarla di nuovo, non vi trovò che un mucchietto di ossa subito inviate al suo comando nella capitale della colonia, Batavia (oggi Djacarta), sull’isola di Giava.
Dopo circa due anni le autorità olandesi approfittano della presenza della “Cristoforo Colombo” che si trova all’epoca, come sopra detto, nella vicina Singapore, ed invitano il suo comandante a raggiungere Batavia per la consegna dello storico reperto.     
Da parte sua il giornalista coglie l’occasione  per dare un’occhiata anche a questa città la cui visita non era prevista dal programma della crocera.
L’impressione è positiva: la città nuova ha abbandonato costruzioni vecchie e malsane e sono sorti molti edifici in muratura il cui tetto è sostenuto “da grandi colonne che in taluni casi sono di marmo…i pavimenti, poi, sono formati da grandi lastre di marmo disposti a scacchiere”. Considerazione, questa, che conferma e avvalora le acute considerazioni fatte a suo tempo dal Nino Bixio politico che, per avvalorare la sua tesi sull’opportunità per la marineria italiana di affrontare le rotte aperte dal taglio del canale di Suez aveva proprio citato il caso dei marmi italiani venduti  in America, e di lì rivenduti in estremo oriente: tanto vale, affermava, portarveli direttamente  evitando stupide e costose triangolazioni.    
A Batavia esistevano il teatro, un famoso giardino botanico, circoli di riunione, e comodi alberghi: a 50 chilometri dalla città, sulle pendici di una delle montagne di cui Giava è ricca,  in bella posizione panoramica, il “Belle Vue” di proprietà di un italiano, tal Ferrari, “rinomato in tutta l’isola come il più intrepido cacciatore di rinoceronti e di tigri le quali però non si incontrano che raramente e nella parte meridionale di Giava”.
La  popolazione è composta oltre che da pochi europei, da malesi e cinesi che  “non abborriscono (sic) il governo olandese e quantunque in cuor loro forse non l’amino, pure non cercano di liberarsene”. Merito degli olandesi, “gente amabilissima, simpatica ed estremamente gentile…che non trattano gli indigeni con quella sprezzante superiorità che usano gli inglesi verso i popoli a loro soggetti…”, per cui “in Giava qualunque carriera è aperta ai malesi”.
 E non manca di rilevare, l’attento cronista, che “…in Batavia tutte le signore, comprese quelle dell’alta società, non isdegnano (sic) nella mattina e nelle ore calde del giorno il costume malese  il quale aggiunge loro bellezza, grazia e fascino”, perché “le donne sono generalmente di una bellezza non comune, cosa che non si scorge troppo di frequente nelle colonie inglesi”.
Le indigene malesi poi,  sono carine ma, ahimè, “…hanno esse pure poche attrattive in causa dell’ingrato odore dell’olio con il quale si ungono i capelli”.   
Quindi, da bordo della nave italiana, il Patta d’Ancora descrive la cerimonia militare - che francamente stupisce per la sua imponenza, classico omaggio del militarismo ottocentesco al coraggio ed alle virtù guerresche dell’uomo, chiunque egli sia - della consegna del prezioso reperto: ”…Erano a terra, a ricevere il Comandante ed altri ufficiali, un battaglione di fanteria olandese, una brigata d’artiglieria ed uno squadrone di cavalleria, il convoglio funebre era seguito  dal prefetto della provincia di Batavia il quale rappresentava  il governatore generale dell’isola e da tutti gli altri funzionari sia militari che civili; i cordoni poi del carro erano tenuti  da quattro colonnelli dell’esercito olandese…Durante tutto il tempo della cerimonia funebre tutti i cannoni del forte fecero salve mortuarie e  tutti i bastimenti che si trovavano in rada tennero la bandiera a mezz’asta in segno di lutto… Il Prefetto lesse in francese  poche ma commoventi parole  rammentando la vita del generale…”.
La cassa contenente i miseri resti viene quindi posta su di un sarcofago apparecchiato sul castello di poppa della “Cristoforo Colombo” e  trasportata a Singapore ove viene consegnata al R.Console italiano della città che provvederà poi a farla pervenire in patria a Genova  ove avrà solenni accoglienze e la definitiva sepoltura nel cimitero di Staglieno.

Si chiude così la parte iniziale del viaggio intorno al mondo della “Cristoforo Colombo” e non è chi non veda il profondo significato  dell’incontro fra essa, simbolo della nuova Italia, e colui che tanto si era profuso per farla nascere.

                                                                                                                       Giovanni Zannini      

Una storica seduta parlamentare - L'EPICO SCONTRO FRA GARIBALDI E CAVOUR

Se taluno si volesse dilettare a stilare una classifica per stabilire quale sia stato il dibattito  più importante per contenuto e drammaticità  nella storia parlamentare italiana, quello avvenuto il 28 aprile 1861 a Montecitorio meriterebbe, se non il  più alto, certamente uno dei gradini   più alti.
Si tratta dello scontro fra Garibaldi e Cavour innescato dalla sorte di quell’”esercito meridionale” composto tutto da volontari che il Generale  si era costruito per liberare l’Italia del Sud dai Borboni e che voleva fossero inseriti nell’esercito regolare al che i suoi  capi si opponevano, timorosi che quei militari improvvisati ne inquinassero la disciplina e la professionalità.
Grandi le differenze fra i due principali artefici del Risorgimento italiano.
Garibaldi gran combattente, coraggioso, impulsivo, lineare determinato a raggiungere ad ogni costo gli obbiettivi prefissati senza troppo preoccuparsi delle conseguenze che ne potessero derivare senza ricorrere ad artifizi e raggiri, imbattibile sui campi di battaglia, un po’ pasticcione nelle aule parlamentari, un “guerriero impolitico” come taluno lo definisce.
 Cavour gran patriota, che si batte anch’egli  per l’unità d’Italia non con la spada ma con la politica di cui è maestro: manovriero, cauto, prudente, sottile, medita ogni sua mossa valutandone e prevedendone i rischi,  disposto ad usare  -  come scrive Maurizio Palèologue nel suo “Cavour” - la violenza, la frode, la perfidia, la ciarlataneria, la subornazione, l’impostura, convinto che, come Machiavelli  dice, “ Uno spirito saggio  non condannerà mai un uomo per gli atti d’eccezione cui ha dovuto far ricorso  nell’interesse supremo della patria”.
L’uno che morirà  a 75 anni dopo una vita di violenze fisiche, di lotte, di combattimenti, di fatiche inenarrabili; l’altro che finirà  cinquantenne il 6 giugno 1861 stroncato dalle ansie, dalle preoccupazioni, dalle paure – oggi diremmo dallo “stress” – che gli procurano i suoi armeggi e le sue manovre arrischiate, forse anche  per le conseguenze di quel famoso  scontro.  E’ egli stesso, infatti, a confidare in maggio ad un amico di non sentirsi affatto bene e che “dopo quella terribile disputa  con Garibaldi non riesco più a rimettermi”.
Ed eccoli, uno contro l’altro, in Parlamento.
Rievoca l’avvenimento  sulla “Illustrazione Italiana” del 27-5-1877, con un tono piuttosto ampolloso, classicamente ottocentesco, quel tal “Doctor Veritas” sotto il cui pseudonimo si celava Leone Fortis – vedasi sul blog “informa storia.blogspot.com” il post “Leone Fortis, il Dr.Veritas padovano” -  brillante giornalista che nella rubrica tenuta per molti anni sulla rivista  dell’Editore Treves si occupava di cultura,  di politica e  di attualità, anche mondana. Con questa sua “Conversazione” (così intitolava i suoi articoli) egli trasmette realisticamente al lettore la drammaticità dell’evento definito “un cozzo tremendo, un urto” che faceva temere “un grande sfasciamento, la rovina irreparabile  di tutto ciò che si era amato, sognato, voluto in mezzo secolo di affetti terribili, di sogni grandiosi, di volontà sublimi e consacrate nel sangue”.
Insomma, il percorso dell’unità d’Italia era in pericolo.           
Garibaldi, eletto a Napoli nelle elezioni del gennaio 1861 pur non avendo posto la sua candidatura,  va in Parlamento a perorare la causa dei  volontari del suo “esercito meridionale” la cui sorte, conclusa l’avventura dei Mille, è incerta.
Ed ha inizio la disfida.
Il Nizzardo, dal più alto banco della sinistra,  “…colla camicia rossa, il mantello grigio – il famoso “poncho” sudamericano - un po’ teatrale, solenne, imponente” prende la parola. Il suo discorso non è particolarmente interessante, anzi, noioso, tratta “di scarpe, di galloni, di uniformi” e qualcuno dei suoi avversari sogghigna di fronte a quell’intervento così poco brillante benché supportato da un suo fido, tal Zupetta, che “agitava febbrilmente nelle mani alcuni foglietti rettangolari di carta   e che li passava a lui ad uno ad uno”. Ma ad un certo momento Garibaldi ha un sussulto, la voce prima monotona “si era fatta tonante” allorchè, ignorando il suggeritore,  affronta, a braccio,  l’argomento che da tempo covava in petto e che improvvisamente esplode: il rancore per la cessione di Nizza – sua città natale – e della Savoia  alla Francia, il compenso barattato da Cavour quale compenso per l’aiuto prestato dall’Imperatore Napoleone III  nella guerra del 1859 che fruttò al Piemonte l’annessione della Lombardia.
Con il dito proteso verso il banco ministeriale ove sedeva Cavour, ““pronunciò poche parole  ma che avevano il lugubre fragore di una mina:”Voi volete la guerra fratricida”” ed affermò che mai stringerà la mano dell’infame rigattiere che ha fatto un ignobile traffico della sua città natale.
Cavour (quasi presago della tempesta), lo aveva ascoltato, nervoso e, irrequieto: “giocherellava con il tagliacarte d’avorio, apriva e chiudeva un libro che aveva davanti, si agitava sulla sua poltrona come se fosse ovattata di spine, “tamburinava” (sic) febbrilmente con le dita della mano sinistra sul tavolo, di tanto in tanto si passava la destra sulla fronte  tergendone col bianco fazzoletto il sudore”.   
Sentite quelle parole, “a Cavour tutto il sangue rifluì alla testa, il suo volto si fece di bragia, gli occhi fiammeggiavano…Nell’emiciclo erano scesi molti deputati apostrofandosi con parole irritate. Due gruppi si formarono subito, l’uno attorno a Cavour,  l’altro sui banchi di sinistra accanto a Garibaldi”. Dopo una diecina di minuti la bagarre si placa e Garibaldi, fuori di sé, grida, di nuovo: ”Si, la guerra fratricida”.
“Fu il finimondo…Cavour s’era fatto terribile anche lui…battè col pugno sul banco ministeriale facendo sussultare le carte, i libri del tavolo e gli animi dell’Assemblea”. Cairoli si slanciò al posto di Garibaldi, Bixio “livido e due grosse lagrime gli irrigavano le guance abbronzite (sic) si precipitò giù dagli alti scranni della sinistra  e afferrò nelle sue mani  le due mani di Cavour parlandogli rapido, concitato, affannoso…”.
E qui stupisce, favorevolmente, il comportamento di quel Nino Bixio, violento, sanguigno e spietato combattente in guerra che, eletto in Parlamento, si prodiga come conciliatore cercando di attenuare le dure parole del suo generale.
Infatti, tutti, si erano accorti, con sgomento,  che “il guanto della guerra civile era stato gettato in mezzo all’emiciclo. Guai fosse stato raccolto! Cavour si slanciò per afferrarlo. Fu un lampo e si arretrò. Chi teneva lo sguardo su di lui potè notare il trabalzo dell’impeto primo e la forza e lo sforzo della riflessione poderosa, sublime, che lo frenò”. Si lascia condurre fuori dall’aula da alcuni amici, fra cui lo stesso Bixio, e poco dopo rientra “trasfigurato: il volto, prima rovente, s’era fatto pallido, la ruga della fronte era più profonda”. Prende la parola con voce ferma e accento vibrato:” Io comprendo e rispetto il dolore che rende sì amare le parole del generale Garibaldi. Egli non sa perdonarmi di aver segnato il trattato che dà la sua città nativa al nostro alleato di Magenta e di Solferino. Dal dolore che io provai, misuro il suo. Se io fossi in lui, sentirei come lui.  Al mio posto, ho la coscienza di aver compiuto un grande e tremendo dovere”.
Dopo di che Garibaldi replica brevemente come chi ha fretta di finirla con una situazione penosa e si allontana scortato dai suoi fidi.
A questo punto il cronista non esita ad esprimere il suo giudizio sul comportamento dei due contendenti concludendo  che “Cavour fu in quel giorno  assai più grande di Garibaldi. L’onore della giornata fu suo, giornata campale  contro sè stesso  sostenuta e vinta in nome dell’Italia e per l’Italia”.                 
Pochi giorni dopo la drammatica seduta secondando un augusto desiderio vi fu, in una sala del palazzo reale,  un abboccamento - che Cavour descrive  in una sua lettera “cortese senza essere affettuoso” - fra i due autori del drammatico scontro. Egli espone la condotta che il governo avrebbe tenuto nei riguardi dell’ Austria e della Francia. Garibaldi dichiara di accettare quel programma impegnandosi a non contrariare il procedere del governo, e chiede  “che si facesse qualche cosa per l’esercito meridionale” al che l’altro non fa alcuna promessa ma dichiara che “ mi sarei occupato  per cercare un mezzo per assicurare più completamente la sorte dei suoi uffiziali”. Alla fine, scrive sempre Cavour,  “noi ci siamo separati se non amici, almeno senza nessuna irritazione”.
Ed il Dr.Veritas così conclude la sua “Conversazione” sull’Illustrazione Italiana: ”Certo, in quel giorno Garibaldi si sentì più sconfitto  che non lo si sentisse poi ad Aspromonte ed a Mentana ma, come  ad Aspromonte e poi a Mentana,  non si sentì umiliato dalla sconfitta perché chi vinceva era sempre la patria”.

                                                                                          Giovanni Zannini