mercoledì 29 giugno 2011

In memoria di Marco Ambrosini - Fratello Abete


 Il culto degli avi è un sentimento che certamente onora  gli  uomini e dunque anche Marco Ambrosini  di Asiago e la sua numerosa famiglia.
E’ infatti dal  lontano 1979, l’anno in cui  il nonno, l’alpino Marco Ambrosini , classe 1895, Battaglione Bassano, 6a Compagnia,  lasciò questa terra, che il nipote, Marco anche lui,  assieme al fratello Stefano ed ai propri  familiari, si reca in pellegrinaggio il 24 giugno di ogni anno  in località “Ai Marcai”, non lungi dal Forte Verle, a quota   1630.
E’ lì, infatti, che il 24 giugno 1915, durante un attacco contro le postazioni nemiche, il nonno ebbe salva la vita perché una pallottola austriaca a lui diretta si conficcò nel  tronco di un abete dietro il quale si era appollaiato in una fase dell’assalto.
E dal momento che finora agli alberi non si danno encomi  né medaglie al valore, il “vecio” Ambrosini decise di provvedere lui ad   elogiare il comportamento dell’albero e per questo   applicò sul suo tronco  un cartello – che resistette per molti anni  suscitando  la curiosità e la commozione dei camminatori in transito - con il quale ricordava il fatto d’armi cui aveva partecipato,  esprimendo in tal modo  la sua fraterna riconoscenza all’abete che gli aveva salvato la vita: e siccome il tempo passava meglio per lui che  per la pianta, allorchè questa, per gli acciacchi, stava per tirare le cuoia, ci aggiunse un’appendice che diceva:”Questo abete sta per finire, ma Marco Ambrosini resiste ancora”.    
Ora sul posto  sorge un cippo in pietra  che porta incise le sue parole  per tanti anni affisse  sul tronco dell’albero, la data del fatto d’armi cui Ambrosini partecipò, ed il  nome di tutti gli alpini caduti in quel combattimento.
La prima volta erano in pochi, si contavano sulle dita di una mano,  poi le famiglie sono cresciute, qualche affezionato amico si è accodato, e piano piano, anno dopo anno, l’appuntamento “Ai Marcai” si è trasformato in un incontro di centinaia di persone  - talune giunte anche da lontano -   che prendono parte al rito di commemorazione, partecipano al “rancio” generosamente offerto dagli Ambrosini  e dai suoi amici per poi terminare la giornata in allegria al suono di canti e musiche.
Anche quest’anno l’appuntamento  ha avuto il consueto successo  con la partecipazione  di intere famiglie e, naturalmente, di molti “veci”  - ed  anche qualche “bocia” – delle sezioni alpine di Barco di Levico, Sovizzo, Golosine di Verona, Monte Berico di Vicenza ed altri che, agli ordini del I° Capitano del 5° Reggimento  Alpini Renato Farinon,  in rappresentanza dell’UNUCI (Ufficiali in congedo), hanno reso omaggio con i loro gagliardetti levati verso l’alto, alla memoria di Marco Ambrosini.
Non sono mancati momenti di commozione  allorchè nell’omelia della S.Messa al campo, il celebrante  d.Giovanni Marchioretto  dell’Unità Pastorale di Grumolo Pedimonte, Centrale e Zugliano ,  preso lo spunto dalla  vita dell’alpino salvata da quell’albero,  ha poi sollecitato i presenti  a fare ciascuno la sua parte per contribuire al bene comune  citando  d. Primo Mazzolari  secondo il quale “Il mondo si muove se tu ti muovi”; e pure quando   il Luogotenente Antonio Pinna,  recitata  la “Preghiera dell’alpino” ha portato il saluto del Comandante della Brigata ”Sassari” in partenza per l’Afganistan”.
Sorpresa ha suscitato, infine,  la perfetta  divisa d’epoca da  allievo ufficiale austriaco della Scuola  d’artiglieria di Innsbruk  indossata dal nipote  Pier Antonio Dall’Oglio di Levico:  e la stretta di mano fra  Marco Ambrosini e Pier Antonio Dall’Oglio, i nipoti dei due nemici d’allora,  ha consacrato il ripudio di un passato crudele e la promessa di pace e d’ amicizia fra i popoli  d’Italia e d‘Austria.

                                                                                                            Giovanni  Zannini  
          

La Contessa di Castiglione - Madre della patria?

Vi è chi afferma che in un ideale ritratto dei  fondatori dell’unità d’Italia, accanto ai baffoni di Vittorio Emanuele II, alla barbetta  di Cavour, alla zazzera bionda di Garibaldi ed al profilo ascetico di Mazzini, andrebbe pure effigiato  l’ovale perfetto della marchesina  Virginicchia  - detta  Nicchia – Oldoini,  poi Contessa di Castiglione per aver sposato il conte Francesco Verasis di Castiglione .
Ma non risulta che tale accostamento sia mai stato effettuato, ed anzi, a quanto si dice, non esiste in  Italia città, paese o borgata che, nonostante i suoi innegabili meriti, le abbia dedicato  uno straccio di monumento o, almeno, una via o una piazza.
Forse, perché vi è un qualche imbarazzo ad ammettere fra i fondatori dell’unità d’Italia una donna  che, se eccelse per l’avvenenza e  le sue innegabili capacità di ordire intrallazzi,   non brillò  per  virtù.
Un personaggio  follemente innamorato della sua bellezza che esibiva sfrontatamente,  fiera degli ammiratori che si assiepavano attorno a lei quando, nei ricevimenti, faceva il suo ingresso procedendo quindi  altera fra  i commenti  spesso   malevoli  delle donne, superba per l’ammirazione degli uomini che  salivano talora sulle seggiole per meglio bearsi  della sua vista.
Ma anche dotata di un’intelligenza  e di una furbizia eccezionali che le consentirono, nonostante la giovanissima età – a soli 18 anni ebbe l’incarico di ambasciatrice ufficiosa del Piemonte presso la corte di Napoleone III – di tessere rapporti ed ordire intrighi politici, primo fra tutti  quello di “orientare politicamente” l’Imperatore verso l’Italia, per contrastare  il pensiero  dell’imperatrice Eugenia de Montiijo, (spagnola,  assai pia, e favorevole, quindi, alla cattolicissima Austria) alla quale neppure il fascinoso ambasciatore Costantino  Nigra, inviato da Cavour a Parigi con l’incarico di “orientare” pure lei,  riuscì   a far mutar parere.
La missione affidata  da Cavour alla contessa - della quale era cugino, e della quale, si dice, abbia anche goduto qualche  favore , così come del resto lo stesso Vittorio Emanuele II - era stato quello di influire sull’animo di Napoleone III per condurlo, senza che se ne accorgesse, dalla parte del Piemonte, ed essa aveva seguito per filo e per segno  le istruzioni ricevute.
“Réussissez, ma cousine, par les moyens qu’il vous plairà, mais reussissez!”  (“dovrete riuscire  nel vostro intento  con ogni mezzo che voi riterrete più opportuno”). “Non abbiate scrupoli”, l’aveva incitata  il machiavellico cugino, e lei aveva condotto in porto, con successo, la missione.
E così, poco dopo il fatidico incontro -  ai primi del 1856 -  della Contessa con l’Imperatore,  il Piemonte, che aveva partecipato alla guerra di Crimea assieme a Turchia, Francia ed Inghilterra contro la Russia, viene chiamato, l’8 aprile di quello stesso anno,  a partecipare al Congresso di Parigi che pone fine al conflitto e  getta le basi per una pace duratura.  In tale sede,viene  agitata per la prima volta in un’assemblea di grandi potenze,  da Cavour, dal francese conte Walewski  e, soprattutto,  dall’inglese Lord Clarendon, la questione italiana (con particolare riferimento ai governi di Ferdinando II a Napoli e del Papa a Roma) della quale si auspica la soluzione ad  evitare che essa possa costituire  in futuro un pericolo per la pace in Europa.   
Ed è la scaltra ventenne italiana a favorire in Cavour e nell’Imperatore  la voglia della  cura delle  acque  che li conduce nel luglio 1858 alla famosa stazione termale di Plombiéres, nei monti Vosgi,  ove  i due  consacrano l’alleanza tra Francia e Piemonte qualora quest’ultimo  fosse attaccato dall’Austria.
La guerra del 1859 che   vede Piemonte e Francia  alleate contro l’Austria, costituisce l’acme dei successi  politico-sentimentali della Contessa di Castiglione, ma anche l’inizio della fine della sua meteora.
L’armistizio che i due imperatori,  Napoleone III di Francia e Francesco Giuseppe d’Austria, impressionati dal massacro della battaglia di Solferino e S.Martino, stipulano nel  luglio di quell’anno, suscita l’ira furibonda della Contessa che rimprovera a Napoleone di  aver tradito le promesse d’alcova secondo le quali la guerra avrebbe dovuto portare  alla liberazione non solo della Lombardia, ma anche del Veneto.
Ed è questa sua aperta protesta ad esserle fatale perché consente alla sua nemica di sempre, l’Imperatrice Eugenia, di formulare a suo carico  l’accusa  di aver organizzato un attentato contro Napoleone mancatore di parola. 
Così, poco dopo l’armistizio di Villafranca del luglio 1859    avvenne a Parigi, nella casa della contessa, in Rue Montaigne  un (presunto) attentato contro l’Imperatore sventato dalla prontezza della sua guardia del corpo che mise fuori uso con una precisa pugnalata un individuo che era sbucato minaccioso, all’improvviso, nell’appartamento ove Napoleone si era recato a “far visita”  alla Contessa.              
Si volle allora far credere  che il fatto fosse conseguenza del  rancore della contessa  contro l’amante fedifrago, ed   al termine di un drammatico interrogatorio  nella sede della  polizia francese la Contessa di Castiglione, scortata dal generale Fleury  fu accompagnata alla frontiera italiana ed espulsa.
In realtà si era trattato proprio   di una messinscena organizzata dall’imperatrice Eugenia, per convincere il marito a disfarsi dell’odiata concorrente: e se il presunto attentatore (che poi si accertò essere un poliziotto), ci rimise, poveretto lui,  la pelle, fu perché  la guardia del corpo, per un disguido,  non era stata avvertita che si trattava di una finta e che l’intruso  non doveva essere ammazzato, ma solo bloccato senza  colpo ferire.
Ciò non esclude che  la bellissima  contessa avesse un certo caratterino se è vero che, come scrive in una lettera,  non avrebbe esitato  a “bruler  la cervelle dell’espagnole” - l’odiata  Imperatrice -  per punirla della trama ordita contro di lei: ma il fido Costantino Nigra l’aveva dissuasa per evitare ulteriori complicazioni alla politica estera del Piemonte già in precedenza messa in pericolo, nel 1858,  dall’attentato di Felice Orsini contro Napoleone.
Ci si chiede quali fossero i sentimenti della donna verso l’augusto amante imperiale.
Nella loro biografia “Virginia di Castiglione – La contessa della leggenda”  dalla quale sono state assunte alcune notizie qui riportate, gli autori E.Henrisch e C.Nigro forniscono una versione assai  nobile affermando che la Contessa  “ha fatto sacrificio all’Imperatore della sua bellezza” e che “ha dato tutta se stessa  - novella Giuditta – alla causa della patria”, dicendosi convinti che “in lei  l’amore per la patria  gridasse più forte dell’amore per l’uomo”.
Sia consentito osservare che non deve esser stato gran sacrificio condividere il talamo con l’Imperatore dei francesi, e  che  ciò  deve averle  arrecato  anche una certa qual soddisfazione se è vero  che  avrebbe voluto esser deposta nella bara  (ma ciò non avvenne)  con  la camicia da notte  indossata  nella prima notte d’amore  con Napoleone a Compiégne. 
Fu, quindi, più probabilmente,  un mix di passione amorosa e di intrigo politico che non deve esserle  dispiaciuto  affatto perchè le consentì di unire l’utile (la missione patriottica affidatale dal Cavour) al dilettevole (la passione di un  amante come Napoleone III  ed il nutrito appannaggio  dedicatole finchè fu la sua favorita,  oltre a gioielli e monili in quantità).       
Del  resto,  una volta conclusa, e con successo,  la breve fase, diciamo così, eroica del suo rapporto con l’Imperatore,  la donna continuò ad occuparsi di intrallazzi politici senza trascurare, contemporaneamente,  le avventure galanti  collezionando, dicono, una quarantina e più di amanti da molti dei quali trasse benefici economici  così vistosi da meritarsi (e lo riferiamo con un certo imbarazzo) il nomignolo di “vulva d’oro del Risorgimento italiano”, nonché, al giorno d’oggi,  quello di progenitrice delle “escort”  d’alta, per non dire altissima, classe, animatrice indiscussa dei “gossip” dell’epoca,  con punte di sorprendente volgarità .   
Anche se il condizionale , su simili argomenti, è d’obbligo ed è difficile distinguere il vero dalla leggenda.
 Sta di fatto  che  a 62 anni, sola e abbandonata da tutti,  finì tristemente i suoi giorni in una casa ove aveva eliminato gli specchi che riflettevano  il  suo fatale decadere: conferma, ancora una volta, del dramma della caducità inarrestabile della bellezza . 
In conclusione,  se la paternità  dell’unità d’Italia va tranquillamente attribuita a Vittorio Emanuele, Cavour,  Garibaldi e Mazzini – anche se, diciamolo, i primi due che,  dopo averne assaporato i favori, gettarono la Virginicchia nelle braccia di Napoleone, non ci fanno una gran bella figura -,  sull’eventualità  di attribuirne la maternità alla Contessa di Castiglione sarebbe il caso di  essere molto, ma  molto più prudenti,  e, forse,  anche, di   stenderci  sopra un velo pietoso.
Anche per evitare di ricordare ai francesi che le migliaia di loro concittadini periti nel massacro  di S.Martino e Solferino  furono l’omaggio che  Napoleone III fece ai begli occhi,  ed al resto,  di  quella meravigliosa “statua di carne” – così la definì la principessa Paolina di Metternich – che fu la  Contessa di Castiglione.
                                                                                             Giovanni  Zannini