mercoledì 15 ottobre 2014

Dal "Trattato di Zurigo" - UNA LEZIONE DI POLITICA INTERNAZIONALE

Il “Trattato di Zurigo” firmato nella città elvetica il 10/XI/1859 fra l’Imperatore d’Austria  Francesco Giuseppe e Napoleone III Imperatore de’ Francesi ebbe numerosi  contenuti.
Anzitutto pose fine alla sanguinosa guerra (denominata dalla nostra storiografia la “Seconda guerra d’indipendenza”) combattuta quell’anno fra l’Austria e l’alleanza di Francia e  Piemonte.
Esso fu pure l’occasione per un vero e proprio trattato di pace tra le due grandi potenze europee dell’epoca per cui “Vi sarà per l’avvenire pace ed amicizia tra Sua Maestà l’Imperatore de’ Francesi e Sua Maestà l’Imperatore d’Austria come ancora tra i loro eredi e successori, i loro Stati e sudditi rispettivi”.
Oltre a ciò, i due illustri contraenti si arrogarono  la facoltà di intervenire e di  porre ordine nella confusa situazione politica dell’epoca in Italia. Con l’art.18, infatti, essi “si obbligano a favorire con tutti i loro sforzi la creazione di una Confederazione fra gli stati italiani che sarà posta sotto la presidenza onoraria del Santo Padre e lo scopo della quale sarà di mantenere l’indipendenza e l’inviolabilità degli Stati confederati, di assicurare lo svolgimento de’ loro interessi morali e materiali e di garantire la sicurezza interna ed esterna dell’Italia con l’esistenza di un’armata federale”.   
Infine, il trattato contiene un’esplicita “raccomandazione” che costituisce una vera e propria tirata d’orecchi a Papa Pio IX. L’art. 20 è esplicito:” Desiderando vedere assicurati la tranquillità degli stati della Chiesa ed il potere del S.Padre… Sua Maestà l’Imperatore dei Francesi e Sua Maestà l’Imperatore d’Austria uniranno i loro sforzi per ottenere da Sua Santità che la necessità d’introdurre nell’amministrazione de’ suoi Stati le riforme  riconosciute indispensabili sia presa dal suo governo in seria considerazione”.  
E’ innegabile che, a prescindere dalla mancata legittimazione in capo ai due imperatori, di intervenire, all’epoca,  nelle questioni interne di uno stato terzo,  la loro sollecitazione ad attuare riforme politiche e sociali rivolta allo Stato Pontificio rimasto  ad un livello medievale rispetto a quello sia pure imperfetto delle principali potenze europee dell’epoca, appare, oggi,  obbiettivamente opportuna.
Questo precedente storico  porta a considerare il dovere di una legittima autorità internazionale quale l’ONU di intervenire nelle questioni interne di stati che non si conformino ai principi di civiltà universalmente riconosciuti  contenuti nello stesso statuto dell’ONU.
Perché non è con le armi che si pone rimedio a situazioni  intollerabili (vedi Gheddafi in Libia e Saddam Hussein in Irak) ma con la diplomazia, il consiglio, la raccomandazione, il suggerimento,  la mediazione dell’autorità internazionale e dei suoi  consiglieri giuridici ed economici,  per convincere, con pazienza e costanza, capi di stato ignoranti o corrotti, fornendo loro aiuti e finanziamenti in cambio di riforme di civiltà e di progresso.
La semplice eliminazione di capi di  stato per quanto feroci, ignoranti o corrotti essi siano, con le armi, non risolve i problemi, ma  anzi li aggrava provocando il caos laddove il loro  potere  riusciva a mantenere un  ordine formale sia pure basato sulla violenza e, spesso, sul  terrore.
                                                                                                                  Giovanni Zannini  










  









venerdì 3 ottobre 2014

Il segreto della "Quietas" - ULTRAVIRES 100

RACCONTO

Situata sopra un colle un po’ isolato, lontano dal centro abitato, con un accesso stradale non comodissimo (ma sufficiente per i pochi che vi si recavano) la casa di riposo “Quietas” godeva di un’ottima fama in grado di  tranquillizzare i parenti che, impossibilitati a tenerli in famiglia, vi ricoveravano i loro anziani.
Fama che le derivava dalla notorietà e professionalità del  Primario, il Prof.Gianni Lanzan,  ottimo geriatra,  che le aveva dato efficienza sotto il  profilo sanitario, organizzativo e dei rapporti umani, e dei suoi assistenti, giovani medici che vi si alternavano per il praticantato.
Gli infermieri e tutto l’altro personale  addetto al buon funzionamento della struttura, volonterosi e gentili; ottimo il vitto; curato con scrupolo l’igiene; utilizzata, nei limiti del possibile, la moderna palestra ed anche una piscina; oltre a molte iniziative ricreative e perfino culturali grazie all’intervento di giovani volontari che si prodigavano per far passare il tempo agli ospiti tentando anche di tenere sveglie le residue, anche se scarse, capacità intellettive degli ospiti.  
Tutto ciò per merito di suor Benedetta, una suora  intelligente e dotata di eccezionali capacità organizzative in grado, nonostante la giovane età,  di controllare, con la competenza di un  “manager” e l’abilità di un buon regista ogni meccanismo di quell’esemplare istituto per la sanità degli anziani denominato  “Quietas”.
Così, dopo che il Lanzan l’aveva ideato e messo in moto, l’attivismo di suor Benedetta aveva poi gradatamente sollevato il Primario da molte incombenze che avrebbe dovuto continuare a dedicargli consentendogli così di passare (vantaggiosamente) la maggior parte del  tempo nel suo studio privato.
La sua attività di Primario si limitava ormai a fugaci apparizioni nell’istituto e, più spesso, a veloci contatti telefonici con l’assistente e, soprattutto,  con la suora che era divenuta in realtà la sua sostituta-factotum,      
Il ricambio del personale sanitario era molto frequente perché, dopo  il praticantato i medici se ne andavano per altri lidi e per altri incarichi non ritenendo appetibile un’ulteriore permanenza alla “Quietas”
E fu la volta di un giovane medico di fresca laurea, Giovanni Diurno, ad approdarvi.

                 Un risultato straordinario

Dotato di ingegno vivace e di una volontà ferrea, appassionato  studioso e desideroso di affermarsi nel campo della geriatria,   si era prefisso di rendere quanto più possibile “vivibili” gli ultimi anni di vita  dei vecchi e, se possibile, di incrementarli.
Quello che per tutti i medici transitati in quella struttura era stato solo un provvisorio periodo di apprendistato in attesa di evadere per altri più appetibili lidi, divenne invece per il dott. Diurno una grande occasione per approfondire i suoi studi operando  su di un prezioso materiale umano a sua completa disposizione e, praticamente, senza rischio alcuno.    
Se, infatti, a seguito delle sue ricerche, avesse dovuto incorrere in qualche “incidente”, nessuno se ne sarebbe accorto, non certamente il Primario il quale, dopo anni ed anni di professione, si era convinto che la fine dei vecchi fosse dovuta soprattutto alla volontà del Signore, e men che mai i parenti che, assai spesso, non aspettavano altro: insomma, il timore della “malpractis” che turba oggidì i sonni dei sanitari di tutte le altre specializzazioni, era, alla “Quietas”, praticamente nullo.
Serio, determinato, aggiornatissimo sulle più recenti acquisizioni scientifiche, alieno da ogni distrazione che pur alla sua età sarebbe stata comprensibile, il giovane assistente conduceva una vita al limite dell’ascetismo dedicata solo ed esclusivamente alla salute dei vecchi affidati alle sue cure.
Il laboratorio dell’istituto, fino ad allora poco o nulla utilizzato, fu, per le sue insistenze, ampliato e dotato di molte moderne attrezzature divenendo così la sede ideale per i suoi studi.
Fino a che, sulla base delle migliori acquisizioni della scienza medica geriatrica e dell’attenta lettura delle più autorevoli riviste in materia, impegnandosi allo stremo ed in gran segreto  ad evitare ogni fuga di notizie, i suoi studi approdarono ad un medicinale destinato, a suo avviso, al sensazionale risultato non solo di migliorare la vita dell’anziano, ma, addirittura, di allungarla.
Lo battezzò “Ultravires 100” (“Oltre i 100 anni”) e, con grande trepidazione, si accinse alla sperimentazione.
Fu dunque distribuito inizialmente ad alcuni ospiti un flaconcino contenente un liquido bianco, trasparente, che i vecchi assumevano volentieri dato il suo gradevole sapore d’arancio.
Al Primario che, in occasione di una delle sue rare visite, aveva chiesto informazioni in proposito, fu risposto che si trattava di un ricostituente, e ciò fu più che sufficiente ad appagare la sua curiosità  ed a tranquillizzarlo pienamente.
In assenza di effetti negativi sul primo campione, la cura fu estesa a tutti i ricoverati per un mese intero, ed il suo effetto  fu sconvolgente.
Piaghe da decubito si rimarginarono, menti intorpidite  ripresero vivacità, muscoli ormai rattrappiti rinvigorirono, chi in passato soffriva di inappetenza riscoprì il piacere della tavola, organi vitali già compromessi si rimisero in moto, vistose zoppie scomparvero, uditi fuori uso si rimisero in funzione, occhi pressoché spenti rividero  la luce, e, perfino, infermiere e portantine, e la stessa suor Benedetta (con suo comprensibile disagio), furono oggetto di attenzioni fino ad allora inconsuete.
I parenti degli ospiti, increduli; il Primario, gongolante, ad attribuirsi meriti che non gli spettavano, ed i pubblici amministratori, avidi di voti elettorali,  a vantarsi degli straordinari risultati ottenuti alla “Quietas”.
Ottenuto questo primo effetto, la cura prodigiosa ebbe anche quello – che era lo scopo principale delle ricerche del Diurno - non solo di migliorare la salute degli anziani, ma addirittura quello di allungarne la vita.
Tutti i ricoverati superarono abbondantemente il secolo e la loro morte avvenne sempre in condizioni ottimali, senza sofferenze ed in condizioni generali ottime, senza quella drammaticità fisica e psichica che assai spesso è ad essa connessa.
Purtroppo, dal punto di vista economico, l’”Ultravires 100” non arrecò al dott.Diurno, oltre alla soddisfazione, anche quel beneficio economico che si sarebbe atteso.
L’autorità sanitaria, in sede di controllo, constatò che una componente del farmaco era altamente cancerogeno e ne vietò per questo la messa in commercio.
Le proteste del Diurno e di molti ambienti medici i quali  mettevano in rilievo che, anche ammessa la pericolosità del farmaco, esso, agendo su di un organismo ormai vecchio, non avrebbe avuto il tempo di manifestare effetti negativi prima della  sua morte, furono vane, e dato che ripetuti, approfonditi studi avevano confermato la cancerogenità dell’”Ultravires 100”, ne fu inesorabilmente vietata la produzione e la vendita e, dopo qualche tempo, cessati i clamori, non se ne parlò più.

                 Una strana reazione

Intanto, la fascia dei vecchi della “Quietas” che avevano assunto l’”Ultravires 100”, pur dopo aver fruito dei suoi straordinari effetti che avevano  condotto alcuni addirittura sulla soglia dei 110 anni, si era esaurita, ed i nuovi ricoverati tornarono ai consueti acciacchi ed alle tribolate dipartite.
Ma all’occhio attento di suor Benedetta, che aveva intensamente vissuto l’avventura dell’”Ultravires 100”, non sfuggì un particolare: Carletto Ripamonti, letto n.26 del padiglione B, di anni 88, era deceduto un anno dopo aver bevuto il nuovo medicamento, all’età di “soli” (in confronto alle “performances” dei suoi colleghi) 89 anni.
Nessuno ci aveva fatto caso, non il Primario immerso nella cura dei suoi ricchi pazienti,  né tampoco potè accorgersene  il dott.Diurno che, pur dopo l’insuccesso della sua scoperta aveva lasciato la “Quietas” per approdare, grazie al clamore suscitato, ad una prestigiosa università statunitense.
Inoltre, la suora aveva notato lo strano effetto che la cura del Diurno stava ottenendo su Cosimo Mangiapane detto Manolo, nato a Napoli, ex impiegato, di anni 95 al momento dell’assunzione della medicina, il quale non solo stava benissimo in salute, ma pareva essersi fermato al giorno del suo novantacinquesimo compleanno.
Non gli era cresciuto, come si suol dire, neppure un anno: e col passare del tempo, anziché invecchiare, ringiovaniva.
Sapete come si dice quando si vuol fare un complimento a qualcuno molto in avanti con gli anni:”Ti trovo benone! Sei ringiovanito!”
Nella maggior parte dei casi non è vero, lo si fa per tener su di morale il vegliardo, insomma, è una bugia a fin di bene, di quelle che i teologi definiscono “aporie morali”, ossia bugie per le quali non si commette peccato perché dette a fin di bene.  
Ma nel caso del Cosimo Mangiapane non era una bugia, era proprio vero: ringiovaniva!.
Dopo cinque anni, allorché anagraficamente  toccò il secolo, Cosimo denotava l’età di un arzillo settantenne e,  dopo altri 5 anni, allorché avrebbe dovuto, conti alla mano, averne centocinque,  aveva l’aspetto di uno che di anni ne ha solo una cinquantina.
La suora, a quel punto, pregò Iddio che la illuminasse a chiarire il mistero e l’aiutasse a non farle perdere la testa.
La sua preghiera venne evidentemente esaudita, perché le venne in mente che  il Cosimo durante tutta la sua permanenza alla “Quietas” aveva occupato il letto n.25 del padiglione B, accanto a quello n. 26 del povero Carletto Ripamonti, quello morto all’età di soli 89 anni, l’unico al quale la cura del dott. Diurno non aveva fatto effetto. Allora, pur dubitando di ottenere una qualche risposta dato il gran tempo trascorso,  chiese al Cosimo se si ricordasse di aver bevuto quella buona medicina dal sapore d’arancio distribuita tanti anni  prima, per un mese di seguito.
“Eccome se me lo ricordo” rispose l’altro, ridendo “era talmente buona che mi sono bevuto anche quella di quel fesso del Carletto che, pace all’anima sua, è restato all’asciutto, e non me l’ha mai perdonata……”.
Mancò poco che alla suora venisse un colpo quando dalla risposta del Manolo ebbe conferma dei suoi neri presentimenti:  evidentemente, l’”Ultravires 100” presa nella giusta dose arrecava eccezionale benessere all’uomo e ne prolungava la vita mentre, al contrario,  l’”overdose” ne avrebbe provocata la regressione e, quindi, la morte per dissoluzione. La morte, quindi,  non per il trascorrere del tempo, ma per l’inversione del processo vitale.
Quante volte la suora aveva udito i suoi vecchi rimpiangere il passato - la  gioventù, i primi amori, il lavoro operoso, l’affetto delle mamme, delle spose e dei figli, gli svaghi semplici, perfino ricordi di guerra che il tempo aveva ingentilito - e colto il loro sogno irrealizzabile di poterlo rivivere.
Ora quel sogno diveniva, per il Cosimo, drammatica realtà.
Era, pensò la donna, come se nell’organismo di quell’uomo si fosse innestata un’assurda retromarcia che, a sua insaputa,  da vecchio l’aveva trasformato in  anziano e poi in uomo maturo: ora, assurdamente, davanti a lui stavano la giovinezza, l’adolescenza, l’infanzia e poi… mio Dio, e poi? si chiedeva disperata la buona donna.
Da allora un pensiero fisso prese ad ossessionare la sua mente: fermare quell’abnorme, orrendo processo messo in moto dalla disordinata assunzione dell’ ”Ultravires 100”.
Ma come, e chi avrebbe potuto?
Pensò che il dott.Diurno sarebbe forse stato in grado di trovare un antidoto per bloccare quell’allucinante processo e riportare Cosimo sul binario di una vita normale rivolta al futuro e non, assurdamente, in corsa verso il passato.
Dopo lunghe ricerche riuscì finalmente a trovare l’indirizzo ed il numero telefonico del Diurno negli Stati Uniti e, facendosi coraggio, lo chiamò.
Il medico, inizialmente lieto di risentire la sua voce, mutò immediatamente registro allorchè suor Benedetta lo informò della drammatica situazione che si stava manifestando alla “Quietas”.
Anzitutto mise in dubbio quanto gli veniva riferito, attribuendolo ad un’allucinazione. Che se poi fosse stato vero, non avrebbe saputo che farci perché, dopo tutte le complicazioni che la sua scoperta gli aveva arrecato, non voleva assolutamente andare incontro ad altre che avrebbero potuto compromettere la sua carriera. Ed il breve colloquio terminò lì.
Allora suor Benedetta, sconvolta, atterrita, si rivolse, in cerca di aiuto, al suo confessore, don Luciano, un anziano sacerdote che saliva ogni tanto alla casa di riposo per dare un saluto ai vecchi ricoverati, ascoltare i loro improbabili peccati e, più spesso, per impartir loro l’estremo saluto.
“Figlia mia” le disse il prete dopo aver ascoltato il drammatico racconto, “se quanto mi dici è vero , e mi pare impossibile, non resta che pregare il Signore affinchè intervenga con la sua potenza ad eliminare il disordine provocato da quell’infausta scoperta. Prega, prega, figlia mia, intensamente, e la Provvidenza provvederà a rimettere le cose a posto”. La benedisse e, terminate le sue incombenze, riprese la via del ritorno.
Allora, in attesa che l’intervento della Provvidenza si manifestasse, non restò a suor Benedetta che pensare ad organizzarsi nel frattempo.
Fortunatamente, grazie al totale disinteresse  di tutti (dal primario all’assistente di turno, agli  infermieri ed al personale di servizio) nessuno si era accorto di quanto stava accadendo.
Terrorizzata dallo scandalo che si sarebbe verificato qualora il caso fosse divenuto pubblico, preoccupata di un suo possibile coinvolgimento nella vicenda, suor Benedetta prese la decisione.
Arredò alla meglio una stanzetta al terzo piano disabitato dell’istituto adibito ad un archivio che in realtà era un cumulo disordinato di carte impolverate sparse dovunque e dove nessuno andava mai, e vi relegò Cosimo con l’incarico di mettervi un po’ d’ordine, e di non farsi vedere da nessuno, assicurandolo che si sarebbe presa cura di lui. Raccontò all’uomo, che le chiedeva il motivo di tale trattamento, che lo faceva per evitare che lo cacciassero dalla “Quietas” dato che da anni nessuno veniva a pagare la sua retta. Era una bugia, ma siccome era detta a fin di bene, non arrecò, per il motivo di cui sopra si è parlato, nessuno scrupolo alla coscienza della buona suora.

               Un processo irrefrenabile

Intanto il “ringiovanimento” dell’uomo procedeva inesorabile e la tragica, assurda situazione era divenuta per la suora un incubo ed una preoccupazione che neppure la preghiera riusciva a placare.
Al contrario il Manolo non aveva percezione alcuna della drammatica situazione in cui si trovava: anzi, avendo una certa familiarità con le scartoffie che aveva maneggiato in vita come impiegato, campava sereno, soddisfatto dell’incarico che lo sottraeva alla monotonia dei giorni fino ad allora trascorsi.
Lo scorrere della sua esistenza “al contrario” era percepito con naturalezza e non suscitava in lui turbamento alcuno: così come per i comuni mortali è naturale nascere e divenire, via via  infanti, bambini, adolescenti, ragazzi e poi giovani uomini, adulti e quindi anziani e vecchi, così per quell’uomo era naturale l’abbandono del bastone, la ricrescita dei capelli, il recupero della vista e dell’udito, la tonicità della muscolatura, lo scomparire delle rughe, la voglia di muoversi,  il mutare dell’alimentazione e dei gusti, la ripresa della funzionalità sessuale e così via.
Cosicchè lo scalare inconsapevole delle età che andava gradualmente raggiungendo nel suo allucinante cammino a ritroso nel tempo, non provocava in lui trauma alcuno ed il suo comportamento non denunciava alcuna problematica psichica.
Solo, una totale dipendenza da suor Benedetta che dell’uomo divenne madre, sorella, confidente, consigliera e protettrice.
             
               Un assistente troppo curioso

L’arrivo di un nuovo assistente, il dott. Franco Galluzi, fu fatale.
Al contrario di quelli che l’avevano preceduto (con l’eccezione, si è visto, del dott. Diurno), egli prese molto sul serio il suo incarico e, appena arrivato, volle conoscere a fondo tutto quanto riguardava la “Quietas” ed i suoi ospiti esaminando con cura i registri della casa anche allo scopo di stilare certe statistiche utili per uno studio sulla sopravvivenza umana cui si stava dedicando.
Fu così che, con sua grande sorpresa, dall’esame dei registri rilevò che tal Cosimo Mangiapane che avrebbe dovuto avere ben 115 anni, risultava tuttora “in forza” alla “Quietas”.
Di sicuro, pensò, dal momento che quell’uomo  risultava tuttora sui registri dell’istituto perché nessuno l’aveva mai “depennato”, da qualche parte ci doveva pur essere, a meno di una clamorosa disattenzione del personale addetto che egli non avrebbe mancato di mettere in evidenza ed, anche, di sanzionare.
Allora, sottopose tutti i ricoverati, ed anche il personale addetto, a stringenti interrogatori.
Inizialmente non ne cavò nulla, neppure da suor Benedetta che con il cuore in gola, piena di paura, se l’era cavata dicendo che quanto accadeva nell’ufficio amministrativo dell’istituto non era di sua competenza perché ben altre, diverse ed importanti erano le sue incombenze.
Ma da un cuoco da poco assunto venne a sapere di uno strano tipo da lui ritenuto un poveraccio cui era consentito per pietà di consumare i resti dei pasti della mensa, che, mentre tutti erano affaccendati a mettere ordine nelle cucine, arrivava quatto quatto, arraffava un po’ di cibo avanzato e quindi se ne andava così com’era venuto.
Mentre l’Annetta Bonacasa, donna delle pulizie, raccontò che una volta l’anno andava a dare una spazzata al terzo piano e che in tale occasione aveva visto aggirarsi fra gli armadi polverosi un uomo che non aveva mai visto e che alla sua vista si era rapidamente eclissato senza dire una parola.
Allora il Galluzi, deciso a battere ogni pista pur di chiarire il caso che, anche, cominciava ad interessarlo, diede ordine di ricercare dappertutto l’uomo misterioso e di portarlo davanti a lui.
Lo trovarono, e gli portarono un giovanotto sulla trentina di buon aspetto che, richiesto delle sue generalità, rispose, senza esitare:”Sono Cosimo Mangiapane detto Manolo” snocciolando altresì il nome del padre e della madre per avvalorare la sua identità anagrafica.
Il medico pensò che quello lo volesse prendere in giro e s’arrabbiò. “Senta, giovanotto – gli disse, guardandolo male – se ha voglia di scherzare questo non è il momento: mi dica chi è e perché si trova qui!”.
E quello a ripetere, per filo e per segno, quanto aveva appena detto.
A suor Benedetta stava venendo male.
E quando, pur sicuro di trovarsi di fronte un pazzo, il dott.                  Galluzzi ebbe effettuato un rapido controllo nell’ufficio amministrativo della casa, restò interdetto: tutto quadrava con le notizie che Cosimo Mangiapane aveva fornito alla segreteria della “Quietas” tanti anni prima all’atto del suo arrivo alla “Quietas”.
Oltre al cognome, nome e soprannome, corrispondevano perfettamente  cognome, nome e età di suo padre, della madre e della defunta moglie, oltre all’attività lavorativa svolta come impiegato presso un’impresa di costruzioni e, sul ventre, la cicatrice di un’operazione di appendicite rilevata a seguito di una visita attenta e scrupolosa effettuata al momento dell’accoglienza nella casa di riposo. Una cosa sola non quadrava: quel giovane uomo avrebbe dovuto avere 115 anni!
A quel punto, subodorando qualcosa di poco chiaro, il dott. Galluzzo decise di informare il Primario che, dopo avergli  dato una lavata di capo (“Ma chi gliel’ha fatto fare di mettere in piedi tutto sto casino”?), si affrettò, a sua volta, ad informare l’autorità sanitaria dalla quale la “Quietas” dipendeva.
Gli ispettori incaricati, resisi conto del fenomeno, si affrettarono a nominare una Commissione d’inchiesta composta da luminari e cattedratici illustri di medicina i quali entrarono subito in azione.
Il povero Manolo, sempre più confuso, fu sottoposto ad ogni genere di indagini, girato di sopra e di sotto, pesato, misurato, radiografato, immerso nell’acqua calda e poi in quella fredda, fatto roteare su di un sedile come quello usato per la preparazione degli astronauti, sottoposto ad elettroshok, costretto ad ingoiare liquidi disgustosi. Insomma, tribolato senza alcuna pietà.
Ma non ne cavarono nulla salvo la conferma che la persona “in oggetto” era la stessa che, entrata alla “Quietas” all’età di 65 anni, ne doveva avere, a conti fatti, 115, ma, a occhio, ne dimostrava una trentina.
Sulle cause del fenomeno, buio completo e la Commissione così concluse i suoi lavori:”In considerazione che il fenomeno oggetto della presente indagine è, allo stato, inspiegabile,in attesa di una nuova nominanda Supercommissione, si dispone che il soggetto “de quo” sia trattenuto nell’ambiente  ove ha fin qui vissuto ed affidato alle cure personali della Direttrice della Casa di  Riposo “Quietas” signora Angelica Diotallevi al secolo suor Benedetta, che sarà responsabile della sua vigilanza”.
                       
                Una drammatica rivelazione

Ma i discorsi fatti in sua presenza, senza alcuna discrezione, dai commissari che lo avevano visitato, evidentemente privi di tatto e di umanità di fronte ad una situazione anomala e delicatissima, ed i titolo cubitali e le cronache dei giornali che impazzavano sul caso, rivelarono al povero Manolo la tragedia che stava vivendo, e la sua esistenza ne fu sconvolta.
Cominciò a deperire, rifiutò il cibo nonostante le affettuose insistenze di suor Benedetta che si esibì in gustosi manicaretti, ammutolì, divenne insonne e cadde in una profonda depressione.
A nulla valsero le parole di conforto della suora che accusava i membri della commissione esaminatrice di essere degli incompetenti, di non capire nulla,  e di dir solo sciocchezze.
“E se, invece, tutto quello che affermano fosse vero? Fin che ci sei tu, Benedetta, non ho paura: ma dopo? Chi si prenderà cura di me quando sarò tornato ragazzo, bambino, infante e poi…” concludeva scoppiando in un pianto irrefrenabile e rifugiandosi nella braccia consolatrici della donna “sfumare nel nulla?”.              
A sua volta la povera suora si trovava in una situazione altrettanto angosciosa, senza poter fare alcunché per fermare l’assurdo destino che incombeva su quel pover’uomo.          
Unico conforto, per entrambi, le preghiere che recitavano spesso chiedendo al Signore che ponesse fine alla loro pena.
Purtroppo, la situazione divenne sempre più tragica.
Assurdamente, la prospettiva del ringiovanimento che per  ogni uomo sarebbe fonte di gioia, costituiva per Cosimo Mangiapane un drammatico avvicinamento al momento della sua completa dissoluzione.

                         La Provvidenza

Benedetta quel giorno d’estate salì come di consueto al terzo piano per salutare Manolo e portargli un po’ di cibo.
Giunta davanti alla porta della sua cameretta bussò ma, non avendo ricevuta alcuna risposta, l’aprì piano piano e vide l’uomo che, in piedi davanti alla finestra aperta, nel trionfo di un tramonto estivo, con il sole, enorme, che calava sempre più all’orizzonte, guardava, fissamente, verso il basso.
L’uomo non si era accorto della sua presenza, e solo quando la donna, avvicinatasi, lo salutò, si girò di scatto guardandola con occhi allucinati: quindi, con mossa altrettanto repentina, tornò a girarsi appoggiando le mani sulla soglia della finestra con il chiaro intento di scavalcarla.
Con una prontezza di cui ella stessa si sorprese, suor Benedetta, con un grido disperato “Noo!” si lanciò sull’uomo riuscendo ad abbrancarlo per gli stinchi.
Si ingaggiò allora una violenta lotta fra l’uomo, ormai fuor di senno, e la donna, avvinghiata a lui che lo chiamava per nome nel vano tentativo di farlo recedere dal suo folle proposito.
Ma la furia dell’uomo che scalciando violentemente cercava di liberarsi dalla stretta di Benedetta che non mollava la presa, il peso del suo corpo ormai quasi completamente penzolante nel vuoto agitando scompostamente le braccia, quasi un assurdo nuotare nell’aria per favorire la caduta verso il basso, ebbero la meglio ed entrambi precipitarono.
Benedetta si stupì di quante cose le venivano in mente nel breve attimo in cui, prima di schiantarsi a terra, rimase librata nell’aria.
“E’ vero, oh se è vero che c’è la Provvidenza!” pensava inconsapevolmente echeggiando le parole del Manzoni nei “Promessi sposi”. “Tu, Signore hai ascoltato le nostre preghiere  ed ora stai rimettendo ordine in questo dramma. Hai  avuto pietà di questo pover’uomo ponendo fine alla sua assurda esistenza, e di certo perdonerai il folle gesto causato dalla sua mente sconvolta. Ed io metto fine ai miei timori, alle mie paure, al tormento per aver allora imprudentemente acconsentito ad una sperimentazione che aveva l’ardire di modificare il corso della vita e sconvolgere l’ordine da te stabilito. Ma tu sai, Signore, che le mie intenzioni erano buone e sono certa che nella Tua misericordia perdonerai anche me”.
La tragica fine della vita di Cosimo Mangiapane                ebbe una vasta eco anche al di fuori degli italici confini. Pagine e pagine di giornali, servizi in radio e televisione, convegni e dibattiti.
Ma il mistero dell’uomo che “viveva all’indietro” come scrisse coloritamente un noto giornalista,  è rimasto insoluto:  nonostante ripetute e attente autopsie il caso,  rimasto insoluto turbò la mente di scienziati, filosofi, religiosi.
Non mancò neppure chi lavorò perfidamente di fantasia e, commentando la circostanza di quella religiosa e di quel giovane uomo precipitati abbracciati dalla finestra del terzo piano di una casa di riposo, adombrò il dubbio della tresca.
Da allora, però, alla “Quietas” (e, per quanto si sappia, nel mondo) non si verificarono più  casi di uomini che “campavano” come scrisse quel giornalista, “all’indietro”,  cosicchè i suoi ospiti continuarono a vivere rivolti verso il futuro ed a  morire, regolarmente, come vuole il Signore, guardando avanti.   G.Zannini
                                                       
                                                                 






mercoledì 1 ottobre 2014

IL "CORPO AEREO ITALIANO" (CAI) NELLA BATTAGLIA D'INGHILTERRA

Nell’agosto 1940 fu costituito in Italia, con reparti aerei fino ad allora impegnati nella guerra contro la Francia che si era arresa in luglio,  un corpo di spedizione aereo denominato C.A.I. – Corpo Aereo Italiano – avente lo scopo di cooperare con la Luftwaffe alla “Battaglia d’Inghilterra”.
L’organico, tratto dal volume di Rosario Abate “Storia dell’Aeronautica Italiana” (Casa  Editrice Bietti  - Milano 1974) era il seguente:
- 2  stormi da bombardamento con 75 bimotori Fiat B.R.20;
- 1 stormo da caccia su due gruppi  con 50 biplani Fiat C.R.42 e 48 monoplani Fiat G.50;
- 1 squadriglia da ricognizione strategica con 5 trimotori Cant Z-1007 bis.
Gli aerei, riconoscibili da una striscia gialla sulla carlinga, furono schierati sugli aeroporti di Espinette, Chièvres, Melsbroek, Maldegern ed Ursell, tutti in territorio belga, e d’intesa con i tedeschi fu loro assegnata una zona d’operazioni così delimitata: a Nord dal 53° parallelo N; a Ovest dal 1° meridiano W Gr; a Sud dal fiume Tamigi.
Il gruppo operò  dal 22 ottobre al 23 dicembre 1940 ed il  rientro si concluse nel gennaio 1941. Solo il gruppo da caccia  dei Fiat G.50  si trattenne in Belgio con compiti di difesa dalle incursioni aeree britanniche  sui territori belgi ed olandesi  fino alla metà di aprile 1941.
A parte l’abnegazione degli aviatori italiani ed il loro valore spesso, come si vedrà, eroico, l’apporto del C.A.I. alla “Battaglia d’Inghilterra” fu piuttosto modesto sul piano militare e Rosario Abate, nel volume più sopra citato,  scrive di “inconsistenza dei risultati ottenuti” e definisce quella del C.A.I. una “operazione dimostrativa di nessuna utilità pratica”.  
Molte le cause di questa “inconsistenza”. Anzitutto, le condizioni ambientali avverse caratterizzate dall’estrema variabilità delle condizioni metereologiche  specie nella stagione invernale alla quale gli italiani, normalmente operanti in clima mediterraneo, non erano – e non sono – avvezzi.
E proprio le avversità atmosferiche  spesso proibitive furono la causa  di molti incidenti verificatisi fin dal viaggio di trasferimento dall’Italia al Belgio, cosicchè su 34 vittime della spedizione 20 furono dovute ad incidenti e  14 a combattimenti, mentre gli aerei perduti per incidenti di volo furono 26 e 10 quelli in combattimento.    
Altra causa,  la netta inferiorità, rispetto agli avversari, per  le condizioni in cui i piloti italiani erano costretti ad operare e per la  qualità degli aerei in dotazione. Il  sergente Luigi Gorrini, pilota da caccia, medaglia d’oro, 24 apparecchi abbattuti, in un suo racconto autobiografico ricorda:”…i caccia Fiat  G.50  non parteciparono ad alcuna azione perché non avevano autonomia e passata la Manica dovevano tornare subito indietro…Eravamo in braghe di tela e non avevamo riscaldamento sugli aerei che peraltro erano aperti…Alle 11 di mattina  i poveri specialisti si attaccavano alle eliche degli aerei che non riuscivano a far girare perché l’olio era diventato duro…Le piste erano fangose ed i piloti mancavano d’addestramento… Ossigeno che si bloccava, senza radio… Non avevamo neppure le carte…”. E  conclude, melanconicamente:”…Francamente, avevamo solo gli occhi per piangere, abbiamo fatto la guerra in queste condizioni…”.
Talmente penose che gli alleati tedeschi si sentirono in dovere di fornire al C.A.I. le stufe catalitiche per scaldare i motori, le combinazioni di volo, i guanti ed i caschi nuovi (perché i nostri avevano ancora il caschetto di tela), le strumentazioni per il volo senza visibilità, i dispositivi di protezione contro la formazione del ghiaccio, ed a “corazzare” in qualche modo i nostri fragili velivoli.
Ma  i nostri piloti diedero sempre prova di grande coraggio e di spirito di sacrificio:  valga, per tutti, la drammatica descrizione dell’incursione dell’11 novembre 1940 emergente dalla relazione dattiloscritta del defunto col.Alessandro Citterio di Milano,  allora giovane tenente venticinquenne, gelosamente custodita dal figlio avv.Paolo.
Ad ore 12, il decollo. Partono, agli ordini del t.col. G.Battista Ciccu,  due squadriglie di B.R.20: la 242a del cap.Nicola Volpe con 5 aerei, e la 243a del cap.Agostino Rabino anch’essa con 5 aerei. Alla 243° appartiene il B.R.20  MM 21879 del ten.Citterio con equipaggio: 2° pilota s.ten.Angelo Cattaneo, motorista 1° aviere Enrico Giannesini, armiere  1° aviere Umberto Cucino, marconista 1° aviere Giuseppe Gaspardi. Obbiettivo la città di Harwich con i suoi impianti industriali ed il porto.
La partenza di sorpresa a mezzogiorno conta sul fatto che i caccia inglesi, provati da precedenti interventi, non si sarebbero alzati: ma la previsione è errata perché, appena giunti in territorio inglese, gli “Spitfire” non tardano ad apparire ed a mitragliare con tiro micidiale gli aerei italiani privi di qualsiasi corazzatura. Anche se, per la verità, una corazzatura c’era. Scrive infatti Citterio:”…Ad annullare lo svantaggio della mancanza di corazzatura,  abbiamo in capo un bell’elmo d’ acciaio che è quello in dotazione alla fanteria. Dobbiamo proprio essere ridicoli  con quest’arnese di guerrieri di terra a sostenere una battaglia in quota!...”.
Gli “Spitfire” e la contraerea non perdonano: tutti gli aerei della 243° sono colpiti, e due abbattuti. Pure quello di Citterio incassa colpi: una raffica colpisce il 2° pilota che si accascia, e lui è costretto, pilotando con una mano, a liberare con l’altra i comandi dal corpo del ferito. Poi è la volta del marconista e del motorista ad essere colpiti, mentre l’armiere, ferito ad una mano e non in grado di maneggiare l’arma, si trasforma in puntatore ed urla le correzioni di rotta.
Neppure Citterio scampa alla mitraglia, è ferito alla coscia destra ma non è grave e continua, in quell’inferno, a pilotare. La macchina è di nuovo ferita: i proiettili  raggiungono il cruscotto, i motori hanno forti vibrazioni, la pressione di alimentazione diminuisce ed il pilota dubita che l’apparecchio ce la faccia a mantenersi in volo. A questo punto, proseguire o invertire la rotta? La decisione è presa: avanti!  La caccia inglese, esaurita l’autonomia di volo, fortunatamente scompare ed il B.R. 20, raggiunto l’obbiettivo, molla il suo carico di bombe, alleggerendosi. Il puntatore comunica di aver colpito le navi, ma non è il momento di rallegrarsene, perché Citterio deve ora riportare alla base il suo apparecchio  carico di uomini insanguinati e dei loro lamenti, senza sapere se i motori  riusciranno a percorrere i 200 chilometri che da essa li dividono. Allora, la tentazione di un attimo:  l’atterraggio  di fortuna sul suolo nemico, e la resa.
“Ma” scrive Citterio “mi riprendo subito. Preferisco affrontare ogni difficoltà pur di non cadere in  mano nemica” e giunge, con il cuore che pulsa disperatamente, sul continente ove  occorre atterrare ad ogni costo perché il carburante è agli sgoccioli. Le nubi ostacolano la visibilità del pilota che, pur privo di altimetro, le buca per esplorare, disperatamente, il territorio sottostante. Si prepara al rischio dell’atterraggio fuori campo  allorchè gli pare di vedere  la pista di un areoporto, l’armiere  spara un razzo ed ecco che “compare a terra la freccia di segnalazione  per la direzione del vento  e delle fumate si accendono rapide…”.  L’aereo pur esausto, risponde fiducioso agli ordini del suo comandante che, stremato, lo conduce a toccar terra, “ed i motori si arrestano di colpo. Mi sembra che il mito della Madonna di Loreto divenga realtà”. E’ accolto da un ufficiale tedesco:” Con l’elmo in testa – scrive Citterio -, maglione e guanti lordi di  sangue e la combinazione stracciata,  devo avere un aspetto ben grottesco”. Pur intontito, si preoccupa dei feriti e così conclude, senza enfasi (il virgolettato è di chi scrive, per evidenziarlo) il suo drammatico racconto: ”Il volo è durato più di tre ore e mezzo e la prova è stata “abbastanza” dura. La ferita mi brucia e penso di non sentirmi “troppo” bene. Riesco a raccogliere , in un estremo sforzo, codici e cifrari,  poi cado a terra sfinito”.
L’equipaggio è decorato con la croce di ferro dai tedeschi ammirati  che gli italiani  abbiano il coraggio di compiere simili imprese di giorno e con i B.R.20 ben diversi dai loro possenti “Messerschmit”. Da parte sua l’Italia decora l’equipaggio con tre medaglie d’argento ed una di bronzo. All’aereo, malconcio, cambieranno tutti e due i motori e gli impennaggi di coda.
                                                                                                         Giovanni Zannini