domenica 16 febbraio 2014

Italiani nella battaglia d'Inghilterra - CON L'ELMETTO A BOMBARDARE GLI INGLESI

Fra le azioni condotte dagli uomini del C.A.I. (Corpo Aereo Italiano), la spedizione in Belgio di un gruppo di aerei italiani per partecipare ai bombardamenti contro gli inglesi durante la “Battaglia d‘Inghilterra” del 1940, vanno ricordati la prima incursione notturna del 24 ottobre 1940 sul porto di Harwick, il bombardamento diurno  del 29 ottobre su quello di Ramsgate, quello  notturno  del 5 novembre ancora su Ipswich ed Harwick, ed infine  quello diurno dell’11 novembre sempre su Harwick, tutti contrastati dalla violenta reazione contraerea e dalla caccia avversaria.
Il  “Corriere della Sera” del 14 novembre 1940 così riassume, in una drammatica cronaca, il  bombardamento diurno dell’11 novembre sul porto di Harwich: “cinque partiti, cinque tornati, cinque feriti”.
Ma ancor più drammatico è il ricordo di  uno dei partecipanti a questa impresa, l’allora tenente venticinquenne Alessandro Citterio che emerge da una sua  relazione dattiloscritta, custodita (e posta cortesemente a disposizione di chi scrive, già collega di lavoro del padre)  dal figlio avv. Paolo Citterio di Milano.
All’incursione dell’11 novembre 1940 parteciparono due squadriglie del C.A.I: la 242a con 5 aerei, agli ordini del cap. Nicola Volpe e la 243°, pure con 5 aerei,  agli ordini del cap.Agostino Rabino. Comandante del gruppo il t.col.G.Battista Ciccu.
Alla 243a apparteneva il bimotore Fiat B.R.20 MM 21879 comandato dal ten. Alessandro Citterio con l’equipaggio: 2° pilota s.tenente Angelo Cattaneo; motorista 1° aviere Enrico Giannesini; armiere 1° aviere Umberto Cucino; marconista 1° aviere Giuseppe Gaspardi.
Partenza a mezzogiorno dall’areoporto di Chièvres, obbiettivo la città di Harwich con i suoi impianti portuali  e navi alla fonda.
Durante il volo di avvicinamento tutti i 5 aerei della 243° squadriglia sono colpiti dai caccia e dalla contraerea inglesi,  e due abbattuti.
La partenza di sorpresa alle ore 12 contava sul fatto che i caccia inglesi, provati da precedenti interventi, non si sarebbero alzati: previsione errata perché, giunti in territorio  inglese,  gli “Spitfire” non tardano a comparire ed a mitragliare con  tiro micidiale  gli aerei italiani privi di qualsiasi corazzatura. Gli  schienali dei seggiolini è in lamierino ed a missione compiuta si constata che numerosi colpi li hanno perforati e che solo la placca d’acciaio del paracadute  ed il suo stesso involucro avevano evitato che i polmoni dei piloti fossero trapassati.
Ma una corazzatura, in realtà, c’era. Scrive infatti Citterio: ”…Ad annullare lo svantaggio della mancanza della corazzatura, abbiamo in capo un bell’elmo d’acciaio, che è quello in dotazione alla fanteria. Dobbiamo proprio essere ridicoli con quest’arnese di guerrieri di terra, a sostenere una battaglia in quota!...”.
Intanto, gli avversari non scherzano: l’estremo sinistro della formazione, colpito, precipita, e qualche secondo dopo è il turno del gregario più vicino.
Gli “Spitfire” non danno tregua, ed anche l’apparecchio di Citterio incassa colpi: una raffica colpisce il 2° pilota che si accascia e lui è costretto, pilotando con una mano, a liberare con l’altra i comandi dal corpo del ferito. Poi è la volta del marconista che dopo aver abbandonato il trasmettitore aveva imbracciato la mitragliatrice nella torretta posteriore, ad essere  ferito gravemente, così come il  motorista:  l’armiere che, colpito  ad una mano, non può usare la sua arma, si trasforma in puntatore e urla  le correzioni alla rotta. Pure Citterio non scampa alla mitraglia, è colpito alla coscia destra ma non è grave e continua, in quell’inferno,  a pilotare. Altri colpi raggiungono il cruscotto danneggiando la strumentazione; i motori hanno forti vibrazioni, la pressione di alimentazione diminuisce ed  il pilota dubita che l’apparecchio ce la faccia a tenersi in volo. A questo punto,  proseguire o invertire la rotta?  La decisione è presa: si va avanti. La caccia inglese, esaurita l’autonomia di volo, fortunatamente scompare ed il velivolo,   raggiunto l’obbiettivo,  molla il suo carico di bombe. Il puntatore comunica che le navi in porto sono state colpite, ma non è il momento di rallegrarsene.
Il pilota, ferito, deve riportare alla base l’apparecchio carico di uomini  insanguinati e dei loro lamenti, con i motori esausti  che non si sa se riusciranno a percorrere i 200 chilometri che da essa li dividono. Allora, la tentazione di un attimo: atterrare sul suolo nemico, e la resa. Ma, scrive Citterio, “mi riprendo subito. Preferisco affrontare ogni difficoltà  pur di non cadere in mano nemica” e giunge finalmente, col fiato sospeso, sul continente, ma occorre ad ogni costo atterrare perché il carburante è agli sgoccioli. Le nubi ostacolano la visibilità del pilota che, pur privo di altimetro, le buca per esplorare, disperatamente, da cinquecento metri di quota, il territorio sottostante. Si prepara al rischio dell’atterraggio fuori campo allorchè gli pare di vedere la pista di un aeroporto, ma non è sicuro. Ordina all’armiere di sparare un razzo  ed ecco che “compare a terra la freccia di segnalazione per la direzione del vento, e delle fumate si accendono rapide…”. L’aereo, pur esausto, risponde, fiducioso,  agli ordini del suo comandante che, stremato, lo conduce con mano ferma a toccar terra: ed “i motori si arrestano di colpo”. “Mi sembra che il mito della Madonna di Loreto divenga realtà” scrive Citterio che sceso a terra viene accolto da un ufficiale della Lutvaffe. “Con l’elmo in testa, maglione e guanti lordi di sangue e la combinazione stracciata, devo avere un aspetto ben grottesco”. Pur intontito, si preoccupa anzitutto delle gravi condizioni del 2° pilota e del marconista che a cura dei tedeschi, solleciti e ben organizzati, sono trasportati all’ospedale di Bruxelles.
Commenta Citterio, senza enfasi (il virgolettato è di chi scrive, per evidenziarlo):”… Il volo è durato più di  3 ore e mezzo, e la prova è stata “abbastanza” dura. La ferita mi brucia  e penso di non sentirmi “troppo” bene. Riesco a raccogliere, in un estremo sforzo, codici e cifrari, e poi cado a terra sfinito…”
L’equipaggio è decorato con la croce di ferro dai tedeschi ammirati che gli italiani abbiano il coraggio di compiere simili imprese, di giorno, e con i  B.R.20,  ben diversi dai loro possenti Messerschmit. Da parte sua l’Italia decora l’equipaggio con tre medaglie d’argento e 1  di bronzo. All’aereo, malconcio, cambieranno tutti e due i motori e gli impennaggi di coda.

                                                                                           Giovanni Zannini

IL CORPO AEREO ITALIANO NELLA "BATTAGLIA D'INGHILTERRA"

Mussolini aveva chiesto a Hitler, nel 1940,  l’onore di partecipare  al bombardamento aereo del territorio inglese, alla “Battaglia d’Inghilterra”, contro la “perfida Albione”, e Hitler, magnanimo,  gliel’aveva concesso.
Fu così che nell’agosto 1940 fu costituito dall’Italia (con reparti aerei fino ad allora impiegati nella guerra contro la Francia che si era arresa nel luglio)  un Corpo di spedizione aereo denominato C.A.I. – Corpo Aereo Italiano -  avente lo scopo di cooperare con la Luftwaffe agli attacchi sull’Inghilterra.
Eccone l’organico tratto dal volume di Rosario Abate “Storia della Aeronautica Italiana” (Casa Editrice Bietti – Milano 1974): 
1) 2 stormi da bombardamento  con 75 bimotori Fiat B.R.20;  
2) 1 stormo da caccia su 2 gruppi con 50 biplani Fiat C.R.42 e 48 monoplani Fiat G.50;
3) 1 squadriglia da ricognizione strategica con 5 trimotori Cant Z-1007 bis.
Il 22  ottobre tutti questi aerei - sui quali, per migliorarne il riconoscimento, era stata dipinta una larga fascia gialla in fusoliera - si trovavano schierati sui seguenti  5 aeroporti situati in territorio Belga: Espinette, Chièvres, Melsbroek, Maldegen e Ursell.
D’intesa con i tedeschi fu assegnata agli aerei italiani  una zona di operazioni così delimitata:
-           A nord dal 53° parallelo N
-          A ovest dal 1° meridiano  W Gr
-          A sud dal fiume Tamigi.       
Ma il 23 dicembre 1940, solo due mesi dopo,  venne diramato l’ordine di rientro  e l’operazione si concluse nel gennaio 1941.  Solo il gruppo da caccia dei Fiat G.50 si trattenne in Belgio con compiti di difesa dalle incursioni aeree britanniche sui territori belgi e olandesi fino  alla metà di aprile 1941.
A parte l’abnegazione degli aviatori italiani ed il loro valore spesso eroico, l’apporto del C.A.I. alla “Battaglia d’Inghilterra” fu piuttosto modesto sul piano militare, e Rosario Abate, nel volume più sopra citato, scrive di “inconsistenza dei risultati ottenuti” e non esita a definire  quella del C.A.I. una “operazione dimostrativa di nessuna utilità pratica”.
Luigi Gorrini, sergente del C.A.I., medaglia d’oro, 24 aerei abbattuti, descrive in un suo resoconto apparso su “L’ultima Crociata” del luglio 2011 le condizioni in cui si trovò ad operare presso l’aeroporto di Ursell, in Belgio. A parte le ottime camuffature e mimetizzazioni  che impedirono agli inglesi di individuare e bombardare quell’aeroporto, “la spedizione in Inghilterra fu tutta da dimenticare: bombardamenti male eseguiti, macchine inidonee…I Fiat G.50 (aerei da caccia – n.d.a.) non parteciparono ad alcuna azione: essi non avevano autonomia, passata la Manica dovevano tornare subito indietro… Eravamo in braghe di tela e non  avevamo riscaldamento sugli aerei che peraltro erano aperti. Noi volavamo con 30 gradi sotto zero…Alle 11 di mattina  i poveri specialisti si attaccavano alle eliche  degli aerei che non riuscivano a far girare: l’olio era diventato duro… Facevamo la scorta ai nostri bombardieri…uno andò giù perché i motori non ce la facevano. Erano BR20, macchine anch’esse di tela, idonee a volare leggere   ed a partire su terreni  secchi ed aridi. Qui invece si era carichi di bombe, le piste erano fangose, ed i piloti mancavano d’addestramento…Non avevamo neppure le carte…In Italia andavamo avanti seguendo le carte  stradali del Touring Club…”. E poi, ancora: “…Ossigeno che si bloccava, senza radio, aeroplani di tela. Francamente, avevamo solo gli occhi per piangere, abbiamo fatto la guerra in queste condizioni”, tali da suscitare la pietà dei tedeschi. Essi, infatti, fecero loro l’elemosina delle stufe catalitiche per scaldare i motori, e poi le combinazioni di volo, i guanti e i caschi nuovi, perchè i nostri avevano ancora  il caschetto di tela; oltre a ciò,  provvidero a “corazzare”, in qualche modo, i nostri fragili velivoli privi di strumentazione per il volo senza visibilità e di dispositivi di protezione contro le formazioni di ghiaccio.
La spedizione del C.A.I, fu dunque ampiamente condizionata da situazioni  ambientali avverse caratterizzate dall’estrema variabilità delle condizioni meteorologiche  specie nella stagione invernale,  alle quali gli italiani, normalmente operanti in clima mediterraneo,   non  erano - e non sono -  avvezzi.
Le nebbie, soprattutto, che fecero atterrare Gorrini su un’autostrada scambiata per pista d’atterraggio, un altro che andò a finire in una piazza d’armi ad Amsterdam, ed altri ancora che “finirono fra i pini”.
E proprio le avversità atmosferiche spesso proibitive  furono la causa di molti incidenti verificatisi fin dal viaggio di trasferimento del 27 settembre 1940 dall’Italia al Belgio.  In totale, su  34 vittime del C.A.I. , ben 20 furono dovute ad incidenti e solo 14 a combattimenti.  36 furono gli aerei persi dei quali ben 26 per incidenti di volo.   
Fra questi l’atterraggio d’emergenza, durante il trasferimento, dell’aereo del Capo Squadriglia cap. Agnello che, rimasto ferito, fu temporaneamente sostituito al comando dall’allora tenente anziano Alessandro Citterio. 
Il  sergente Gorrini, infine, con un linguaggio, per la verità,  più consono per una gara sportiva,   ma che rivela la tempra dell’uomo, scrive che “il combattimento dell’11 novembre 1940 fu un gran bel combattimento”: e rievoca un singolare incontro durante un raduno di ex combattenti della 2° guerra mondiale.
E’ avvicinato da un signore che gli chiede se lui è Gorrini, e che alla sua risposta affermativa gli dice:” Eri tu su quel CR 42 che mi sparò addosso colpendomi ad un tallone!”. “Se sono stato io” è la risposta, “tu allora eri quell’Hurricane  che mi sparò e i proiettili mi passarono attraverso le gambe!”. Era proprio così, ed il nemico di allora con il quale l’italiano strinse poi una cordiale amicizia, era Peter Towsend, asso dell’aviazione britannica,  che nel dopoguerra ebbe un momento di grande notorietà anche per il suo contrastato amore con la sorella della Regina d’Inghilterra, la principessa Margaret.
                                                                                                                         Giovanni Zannini