mercoledì 11 febbraio 2015

LO DICEVA CAVOUR

“Qual è la buona politica?” chiesero a Cavour.  E lui rispose:” La grande politica è quella delle risoluzioni audaci. Uno statista che voglia essere ricordato nella storia deve avere il coraggio di cambiare, di governare non con piccole riformette ma con decisi cambiamenti di rotta”.
Esiste oggi in Italia un politico come quello descritto da Cavour?
Chi ha orecchie per intendere intenda.                                                                 Giovanni Zannini


L'intervento nella I Guerra Mondiale - ITALIA E YEMEN

Lo  Yemen?  Ma cosa c’entra  l’Italia con lo Yemen  nel  periodo fra il 1914 ed il 1915  allorchè, divisa fra interventisti  e neutralisti,  e corteggiata dall’una e dall’altra parte in conflitto, stava meditando  quale strada intraprendere? 
Dopo lo scoppio della 1a guerra mondiale avvenuto  il 28 luglio 1914  l’Italia  fu corteggiata dalle potenze allora già impegnate nel  conflitto: da una parte la Germania e l’Austria-Ungheria, ancora alleate dell’Italia che aveva però dichiarato la propria neutralità, dall’altra le potenze dell’ “Intesa”, (Inghilterra,  Francia e  Russia), entrambe desiderose di farla intervenire al proprio fianco.
Le trattative intercorse  con la Germania e l’Austria-Ungheria (i cosiddetti Imperi Centrali) erano fallite per l’inadeguatezza delle offerte  avanzate e l’Italia aveva  denunciato l’alleanza con la motivazione che l’Austria-Ungheria aveva scatenato la guerra  contro la Serbia senza averla, come imponeva l’alleanza, previamente consultata.
Liberatasi  da questo legame, l’Italia si rivolse  alle potenze dell’Intesa  esponendo le sue condizioni per  passare  dalla neutralità   alla guerra al  loro  fianco mediante un “memorandum”  segreto  consegnato  nel marzo 1915 all’Inghilterra.
In esso, in XVI paragrafi, erano contenute le nostre pretese, prime fra tutte  Trento, Trieste e  la Dalmazia ritenuta quest’ultima  altrettanto importante delle altre due perché tendente  ad ottenere il predominio nell’Adriatico liberando  l’Italia dalla situazione d’inferiorità  di fronte ad un’Austria sempre minacciosa dal munito porto di Trieste.
Ed a tal fine, ai punti  IV, V e VI  venivano con precisione indicati i nuovi  territori e le isole  che sarebbero stati assegnati all’Italia sul versante orientale dell’Adriatico dopo l’auspicata sconfitta dell’Austria.        
Ma, a suscitare sorpresa, compare il punto  XII  del “Memorandum”che così  recita:”L’Inghilterra e l’Italia si obbligano alla reciproca garanzia dell’indipendenza dell’YEMEN;  e, lasciando in libere mani i Luoghi Santi s’impegnano a non procedere all’annessione di alcuna parte dell’Arabia occidentale  ed a non imporle qualsiasi altra forma di dominio; senza rinunciare al diritto di opporsi  a che un’altra potenza acquisti o si attribuisca diritti sul territorio dell’Arabia medesima”.  
Quale mai interesse poteva avere l’Italia ad occuparsi delle sorti dell’Yemen?
Forse,  impedire che sulla sponda  del Mar Rosso opposta a quella in cui si trovavano  le colonie italiane s’ installasse una potenza  ostile in grado di insidiarle, tanto più in previsione che esse potessero ulteriormente espandersi  a seguito dell’eventuale sconfitta degli  Imperi Centrali e dell’alleata T urchia.
Infatti  il  successivo  punto XIII del “Memorandum” recitava:”Qualora le altre potenze aumentassero  le loro colonie africane a spese della Germania,  si farà luogo ad un apposito accordo per assicurare all’Italia qualche corrispondente equo compenso e ciò specialmente nel  regolamento a suo favore delle questioni  di confine tra le sue colonie dell’Eritrea, della Somalia e della Libia e  le colonie attigue francesi ed inglesi”.
Motivo dunque,   per l’Italia, di assicurarsi che dall’altra parte del Mar Rosso, anche in vista di un possibile loro potenziamento, non esistesse uno stato  in grado di insidiare le sue colonie.
Altra ipotesi  è che con il  punto XII l’Italia avesse voluto ingraziarsi l’Inghilterra onde ottenerne  l’ assenso alle proprie richieste contenute nel “Memorandum” più volte citato.
Infatti,  in vista di una possibile sconfitta della Turchia alleata degli Imperi Centrali, e della  conseguente 
spartizione dell’Impero Ottomano,  l’Italia  poteva pensare  che l’Inghilterra mirasse  ad espandersi , come poi avvenne (mandato in Iraq,  Transgiordania e Palestina) nel Medioriente e che per  tal motivo essa  avrebbe gradito  l’appoggio italiano per assicurarsi  la presenza  di uno stato amico come l’Yemen in grado di  vigilare  sul Mar Rosso ed il  Golfo di  Aden.
Oppure l’Italia, che già meditava di mettere un piede in Asia (e lo farà sbarcando il 9 marzo 1919, a guerra terminata,  ad Antalia, nel sud ovest della Turchia, ove esisteva un bacino carbonifero), aspirava a porne un secondo nel sud della penisola arabica, nello Yemen,  “piccolo paese, grandi conseguenze”,  come anche  gli avvenimenti  del  giorno d’oggi  (spina nel fianco dei rapporti fra Iran ed  Arabia Saudita) stanno a dimostrare?
Pare confermare (sia pure a  posteriori) tale ipotesi un'informazione su Internet di "Wikipedia" (l'enciclopedia informatica) ove si legge che "....il Governatore dell'Eritrea Jacopo Gasparini tentò di acquistare nel 1926 un protettorato sullo Yemen" e che Mussolini "si lasciò sfuggire il controllo di un'interessante area petrolifera".
E allora, l'Italia, in Asia, a caccia di carbone ad Antalya, in Turchia, e di petrolio nello Yemen?  
Sono solo ipotesi, ed utile sarebbe il contributo di altri su questo argomento poco trattato  per chiarire il significato, che suscita curiosità ed interrogativi,  del  punto XII del  “Memorandum” italiano all'Intesa a proposito dell’Yemen.                                                           
 Padova 10 ottobre 2016                                                               Giovanni  Zannini                                                                     




Le memorie di Fritz Weber - LA ROTTA DI CAPORETTO VISTA CON GLI OCCHI DEL NEMICO

Il libro “Tappe della disfatta” (Mursia Testimonianze – 1° Ed.1993) di Fritz Weber - tenente d’artiglieria austriaco che Aldo Valori, nella sua prefazione definisce “prode e leale nemico” – è ricco di notizie, informazioni ed episodi che coprono l’intero periodo del primo  conflitto mondiale. Particolare interesse suscita la tragica nemesi degli austro-tedeschi vittoriosi  che, dopo lo sfondamento di Caporetto del 1917 incalzano gli italiani in rovinosa ritirata, e che poi, fallito nel 1918 il loro tentativo di superare la linea italiana sul Piave, sono a loro volta costretti a ritirarsi sconfitti, tallonati dagli italiani che, vogliosi di vendicare l’onta di Caporetto, non danno loro tregua.
L’artigliere Weber si sofferma particolarmente sull’importanza che sulla disfatta italiana ebbe l’artiglieria austriaca tragicamente “arricchita” da un fattore fino ad allora  sconosciuto: l’acido cianidrico, un gas denominato dagli attaccanti “Croce azzurra” che, contenuto nelle migliaia di proiettili sparati da centinaia di bocche da fuoco all’alba del 24 ottobre 1917 annientò gli italiani che difendevano la frontiera con la Slovenia nel tratto fra Plezzo e Tolmino.
Anticipando quella tecnica militare, il “blitzkrieg”, poi adottata con successo dai tedeschi nella 2° guerra mondiale, il  nemico si precipitò nel varco aperto marciando su di un tappeto di cadaveri asfissiati dalle mortifere esalazioni, incalzando senza tregua gli italiani in rotta nelle valli, puntando su Saga e Caporetto, aggirando ed eliminando in tal modo  quelli che resistevano sulla cima dei monti. 
Poco noto un sistema adottato dagli austriaci nella guerra in alta montagna: le valanghe artificiali. Quando, infatti, le sentinelle segnalavano  gruppi di portatori o di spalatori italiani, una salva di granate – ma talora bastava anche un solo colpo – sparata contro il pendio nevoso sovrastante, faceva scivolare le neve sotto le forme, scrive Weber,”d’una nube quasi irreale: in pochi secondi si gonfia e, come un’ondata gigantesca, precipita sui disgraziati che invano cercano di fuggire”.
La natura a servizio della malvagità dell’uomo.
E poi un fatto agghiacciante: due soldati austriaci annegati nel vino. Erano penetrati in una cantina ed avevano bucato a fucilate diverse botti. Il vino era sgorgato abbondante sul pavimento ed i due uomini  caduti a terra ubriachi dopo averne bevuto, approfittando dell’insperata fortuna, a volontà, erano morti nel rosso liquido.  
Impressionano  inoltre le parole di pietà per gli animali scritte da un uomo, rotto ad ogni visione di crudeltà sugli uomini, quando descrive un episodio che l’aveva profondamente colpito: la strage in un deposito di animali da macello che gli italiani in fuga precipitosa, ad evitare che cadessero in mano nemica, non avevano esitato a bruciare vivi dopo averli cosparsi di benzina.
Il racconto dell’ufficiale rievoca poi un episodio accaduto mentre i soldati austriaci  si apprestavano ad attraversare il Piave per infrangere l’ultimo ostacolo che si frapponeva al loro dilagare nella pianura padana.
Una notte le vedette avevano segnalato che “dall’altra parte del Piave la gente cantava…Si trattava di un coro vero e proprio, formato da diverse centinaia di persone…Forse, gli italiani avevano fondato una nuova società corale che faceva le sue prove durante la notte…”. Nel dubbio che ciò nascondesse qualcosa di pericoloso,  la batteria austriaca aveva aperto il fuoco e il canto era cessato.
Alla luce del giorno,  tutto si chiarisce: “Sull’altra riva sono state piantate nell’acqua nuove file di paletti  che già reggono fitte matasse di filo di ferro spinato. Ecco scoperto il segreto: il coro aveva lo scopo di attutire il rumore prodotto dal lavoro notturno dei soldati che piantavano i paletti. E’ facile immaginarsi lo stato d’animo di quei disgraziati che dovevano cantare sotto il fuoco della nostra artiglieria”. E qui l’austriaco rende un commovente  omaggio ai nemici uccisi dalle bombe dei suoi cannoni: ”Essi avevano combattuto con l’arma della voce rendendo alla patria, con le loro canzoni, un  grande servigio”.
 Ma, forse, morir cantando è la morte più bella.                                                                           
                                                                                Giovanni Zannini                                         Padova 27-12-2015    



          

mercoledì 4 febbraio 2015

ISLAM: IL CORAGGIO DI USCIRE DALL'EQUIVOCO

Molti sono i musulmani che di fronte a violenze inaudite quali  la recente strage di Parigi,  i massacri  in Nigeria ed in altre parti del mondo contro i cristiani,  e l’utilizzo criminale di bambini imbottiti di esplosivo  utilizzati come bombe  negli attentati,  esprimono il loro dissenso contro coloro che pur affermandosi  musulmani  sono autori di tali efferati delitti.
Sono i  rappresentanti  del  cosiddetto “Islam moderato” ai quali va riconosciuta la buonafede,  la sincerità delle loro parole ed il coraggio di opporsi a quanti  si comportano in maniera inumana proprio in nome della religione dell’ISLAM alla quale  entrambe le fazioni appartengono.
Ma le loro parole cozzano contro una realtà che proviene proprio dal Corano, il libro sacro dell’Islam che
alla Sura  IX  versetto 29  afferma testualmente: “Combattete coloro che non credono in Allah e nell’Ultimo Giorno, che non vietano quello che Allah e il Suo Messaggero hanno vietato, e quelli , fra la gente della Scrittura, che non scelgono la religione della verità, finchè non versino umilmente il tributo, e siano soggiogati”; che  al  successivo versetto 30 invoca  Allah affinchè annienti giudei e nazareni, ed al seguente 123 esclama: ”O voi che credete, combattete i miscredenti che vi stanno attorno, che trovino durezza in voi. Sappiate che Allah è con i timorati”.
Ma, affermano i “moderati”, nel Corano sta  anche scritto che (Sura II versetto 62) “In verità coloro che credono, siano essi giudei, nazareni o sabei, tutti coloro che credono in Allah e nell’Ultimo Giorno e compiono il bene riceveranno il compenso presso il loro Signore. Non avranno nulla da temere e non saranno afflitti”.
Non è chi non veda  la drammatica situazione nella quale viene a trovarsi il fedele musulmano di fronte al Corano  composto da 6200 versetti talora di difficile interpretazione e contradditori, che si susseguono in maniera un po’ caotica e senza filo conduttore.    
Purtroppo l’Islam non ha avuto una figura in grado di adeguare taluni principi del Corano riflettenti realtà esistenti allorchè fu scritto da Maometto  ma oggi fatalmente superate.
Allo stesso modo in cui Cristo superò con il Vangelo taluni aspetti negativi del Vecchio Testamento non più compatibili con l’evolvere della civiltà,  che i cattolici non possono più osservare e si guardano bene dall’evocare.
L’auspicio, ben consci delle difficoltà che ad esso si contrappongono per le troppe divisioni  e la mancanza di un’autorità centrale in  grado di promuoverlo,   è che questo “aggiornamento” si verifichi anche nell’ambito dell’Islam  con l’abbandono di quelle espressioni di violenza che oscurano   i molti valori (ad esempio la misericordia, la giustizia ed un’economia più umana ) che fanno del Corano un libro che per molti versi anche i cattolici  possono  leggere ed apprezzare.            

Padova 22-1-2015                                                                                             Giovanni Zannini



  



   

 



Il calvario degli "Irredenti" nella I Guerra Mondiale - ITALIANI DISPERSI IN RUSSIA

Si dice che la storia si ripete, ed è vero, perché anche la prima guerra mondiale conobbe  la tragedia di  molti soldati di etnia italiana  dispersi  in Russia.
Infatti il "Corriere della sera" del 14 Marzo 1927 titola proprio "Gli italiani dispersi in  Russia" e tale titolo potrebbe tranquillamente apparire anche su qualsiasi giornale dei giorni nostri a proposito dei militari italiani dispersi in Russia, ma nella II Guerra Mondiale, e ci si chiede per qual motivo questa situazione si sia potuta verificare.
Occorre dunque chiarire che nel primo conflitto mondiale l'Austria aveva arruolato nel suo esercito soldati di etnia italiana poi definiti "irredenti", ossia nativi di quelle terre che, all'epoca ancora sotto dominazione austriaca,   furono poi "redente", ossia assegnate all'Italia  dopo la sconfitta dell'Austria.
Essi , nativi del Trentino Alto Adige, della Venezia Giulia e della Dalmazia, subito dopo l’entrata in guerra dell’Austria contro la Serbia, furono arruolati, in un numero che varia da  25.000 a 60.000  nell’esercito austriaco e mandati, prudentemente,  a combattere sul lontano fronte russo, anziché in quello domestico, nel dubbio, fondato,  che le aspirazioni  autonomistiche  di molti di loro, insofferenti dell’occupazione austriaca, influenzassero  negativamente la loro combattività.
Infatti, coinvolti nelle  drammatiche battaglie fra russi e austriaci che insanguinarono il fronte orientale fin dall’inizio  della guerra nel 1914,  molti italiani   “irredenti”,  privi di ogni motivazione per combattere a favore dell’Austria, preferirono arrendersi  e  furono fatti prigionieri dai russi.
Ma allorchè  nel 1915 l’Italia entrò in guerra a fianco della Triplice Alleanza (inglesi, francesi e russi), gli italiani “irredenti” che rinnegarono il giuramento fatto all’Imperatore d’Austria divennero automaticamente alleati della Russia,  e  per questo furono liberati dai campi di prigionia: ma lasciati completamente in balia di loro stessi.
Stupisce il fatto che, anziché utilizzare questi uomini facendoli ancora combattere ma, questa volta,   non più a favore dell’Austria, ma contro di essa, i comandi militari alleati, sempre avidi di “manodopera” combattente,  abbiano invece deciso di rinunciare al loro apporto.
Ma  tale “manodopera” era inutilizzabile militarmente dal momento che, se fatti prigionieri, gli “irredenti” sarebbero stati immediatamente passati per le armi dagli austriaci come disertori (vedi Cesare Battisti e  Nazario Sauro) e questo timore avrebbe bloccato del tutto le loro capacità combattive: donde la decisione di smobilitarli e farli rientrare in Italia.
 Per questo una Commissione militare italiana giunta sul posto si dedicò anzitutto a rastrellare per quanto possibile  quegli  uomini sparsi nell’immenso territorio russo ed a concentrarli in un  campo di raccolta a Kirsànov (nella regione del Don) ed in altri due minori, in attesa del rimpatrio.   
Ma il suo compito si rivelò ben presto assai arduo perché la via più breve per raggiungere l’Italia attraverso, la Bulgaria e la Grecia,  era ostruita dalla Bulgaria entrata in guerra a fianco degli austro-ungarici per cui fu giocoforza scoprire  vie nuove  che ancor oggi, per la loro audacia, destano stupore.
Una prima soluzione fu quella di raggiungere in treno il porto di Arcangelo, nel nord della Russia, sul Mar Bianco,  rimasta  l’unica via di comunicazione marittima della Russia con l’Europa, e di imbarcare una parte degli “irredenti”, decimati  dal freddo, dalla fame e dalle malattie su piroscafi che, dopo aver fatto il periplo del nord della  penisola scandinava raggiunsero l’Inghilterra e da qui, attraverso la Francia, l’Italia.
Ma allorchè i ghiacci impedirono la navigazione, gli organizzatori furono  costretti a studiare per gli uomini rimasti,  un’altra via di fuga ancor più lunga e perigliosa, che da Kirsànov, mediante la ferrovia Transiberiana, raggiungeva il porto di Vladivostok, toccava il continente americano dopo aver superato  l’Oceano Pacifico,  attraversava gli Stati Uniti da est a ovest e, superato con un ultimo balzo,  l’Oceano Atlantico, raggiungeva l’Europa e poi l’Italia. 
Facendo quasi l’intero giro del mondo, in condizioni di vita precarie ed al limite della sopravvivenza.   
Giunti a Vladivostok, ove erano stati  allestiti  campi di raccolta in attesa dell’imbarco per l’America, il viaggio degli “irredenti” ebbe un’ulteriore svolta imprevista perché la situazione politica interna della Russia ove nel marzo 1917 era scoppiata la rivoluzione consigliò i responsabili della complessa (e allucinante) operazione di  spostare quegli uomini in un luogo più sicuro. Allora il viaggio massacrante prosegue per ferrovia da Vladivostok, attraverso  la Manciuria, fino al luogo “sicuro”: Tientsin, la “Concessione” ( una piccola colonia) ottenuta dall’Italia, come da altri stati europei, nel 1900 dalla Cina alla fine della “Guerra dei Boxer”.   
Quivi giunti, un gruppo di ex prigionieri partiti da Tientsin riuscì, percorrendo il previsto, incredibile itinerario,  a raggiungere, finalmente, l’Italia.
Ma per quelli rimasti a Tientsin, si aprì un ulteriore capitolo della loro interminabile avventura perché   coinvolti nella guerra (dopo la rivoluzione una sanguinosa guerra civile oppose i russi comunisti ai “Russi Bianchi”, contro-rivoluzionari, rimasti  fedeli al defunto  Zar) che l’Italia,  con gli alleati inglesi e francesi, aveva deciso di appoggiare  paventando che il prevalere dei rivoluzionari  avrebbe favorito l’espandersi del comunismo nell’ Europa occidentale.
Per questo fu costituito il C.S.I.E.O. (Corpo di Spedizione italiano in Estremo Oriente) con base a Tientsin, del quale la “Legione Redenta in Siberia” composta dagli “irredenti”,  fondata dal Maggiore dei Carabinieri Reali Cosma Manera,  fu il primo nucleo poi rafforzato dall’arrivo dall’Italia di un contingente di soldati fra cui gli Alpini.
Al corpo di spedizione italiano fu affidato nell’estate del 1919 il compito di mantenere attiva la ferrovia Tientsin-Vladivostok in Manciuria per approvvigionare i “Russi Bianchi” fino a che, constatata l’impossibilità di contrastare ulteriormente i comunisti, il Corpo di Spedizione Italiano fu rimpatriato alla fine del 1919:  ultima, a lasciare la Cina nel 1920, la “Legione Redenta” che al suo arrivo (finalmente!) in Italia  fu accolta con onore dalle autorità italiane.
Ma non tutti lasciarono la Russia: taluni si erano  formata una nuova famiglia e questi vincoli crearono in loro una completa apatia morale.
La stessa che colpì, con incredibile analogia, alla fine della seconda guerra mondiale (ricordate il film di De Sica “I girasoli” interpretato da Mastroianni e della Loren?) altri soldati italiani cui la violenza della guerra, le inaudite sofferenze, la lontananza e, perchè no, il fascino slavo della donna russa, avevano attenuato, e poi completamente distrutto, ogni legame con la terra natia.                          
Padova 10/2/2015                                                                                   Giovanni Zannini                            
                                                                      

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