mercoledì 11 febbraio 2015

Le memorie di Fritz Weber - LA ROTTA DI CAPORETTO VISTA CON GLI OCCHI DEL NEMICO

Il libro “Tappe della disfatta” (Mursia Testimonianze – 1° Ed.1993) di Fritz Weber - tenente d’artiglieria austriaco che Aldo Valori, nella sua prefazione definisce “prode e leale nemico” – è ricco di notizie, informazioni ed episodi che coprono l’intero periodo del primo  conflitto mondiale. Particolare interesse suscita la tragica nemesi degli austro-tedeschi vittoriosi  che, dopo lo sfondamento di Caporetto del 1917 incalzano gli italiani in rovinosa ritirata, e che poi, fallito nel 1918 il loro tentativo di superare la linea italiana sul Piave, sono a loro volta costretti a ritirarsi sconfitti, tallonati dagli italiani che, vogliosi di vendicare l’onta di Caporetto, non danno loro tregua.
L’artigliere Weber si sofferma particolarmente sull’importanza che sulla disfatta italiana ebbe l’artiglieria austriaca tragicamente “arricchita” da un fattore fino ad allora  sconosciuto: l’acido cianidrico, un gas denominato dagli attaccanti “Croce azzurra” che, contenuto nelle migliaia di proiettili sparati da centinaia di bocche da fuoco all’alba del 24 ottobre 1917 annientò gli italiani che difendevano la frontiera con la Slovenia nel tratto fra Plezzo e Tolmino.
Anticipando quella tecnica militare, il “blitzkrieg”, poi adottata con successo dai tedeschi nella 2° guerra mondiale, il  nemico si precipitò nel varco aperto marciando su di un tappeto di cadaveri asfissiati dalle mortifere esalazioni, incalzando senza tregua gli italiani in rotta nelle valli, puntando su Saga e Caporetto, aggirando ed eliminando in tal modo  quelli che resistevano sulla cima dei monti. 
Poco noto un sistema adottato dagli austriaci nella guerra in alta montagna: le valanghe artificiali. Quando, infatti, le sentinelle segnalavano  gruppi di portatori o di spalatori italiani, una salva di granate – ma talora bastava anche un solo colpo – sparata contro il pendio nevoso sovrastante, faceva scivolare le neve sotto le forme, scrive Weber,”d’una nube quasi irreale: in pochi secondi si gonfia e, come un’ondata gigantesca, precipita sui disgraziati che invano cercano di fuggire”.
La natura a servizio della malvagità dell’uomo.
E poi un fatto agghiacciante: due soldati austriaci annegati nel vino. Erano penetrati in una cantina ed avevano bucato a fucilate diverse botti. Il vino era sgorgato abbondante sul pavimento ed i due uomini  caduti a terra ubriachi dopo averne bevuto, approfittando dell’insperata fortuna, a volontà, erano morti nel rosso liquido.  
Impressionano  inoltre le parole di pietà per gli animali scritte da un uomo, rotto ad ogni visione di crudeltà sugli uomini, quando descrive un episodio che l’aveva profondamente colpito: la strage in un deposito di animali da macello che gli italiani in fuga precipitosa, ad evitare che cadessero in mano nemica, non avevano esitato a bruciare vivi dopo averli cosparsi di benzina.
Il racconto dell’ufficiale rievoca poi un episodio accaduto mentre i soldati austriaci  si apprestavano ad attraversare il Piave per infrangere l’ultimo ostacolo che si frapponeva al loro dilagare nella pianura padana.
Una notte le vedette avevano segnalato che “dall’altra parte del Piave la gente cantava…Si trattava di un coro vero e proprio, formato da diverse centinaia di persone…Forse, gli italiani avevano fondato una nuova società corale che faceva le sue prove durante la notte…”. Nel dubbio che ciò nascondesse qualcosa di pericoloso,  la batteria austriaca aveva aperto il fuoco e il canto era cessato.
Alla luce del giorno,  tutto si chiarisce: “Sull’altra riva sono state piantate nell’acqua nuove file di paletti  che già reggono fitte matasse di filo di ferro spinato. Ecco scoperto il segreto: il coro aveva lo scopo di attutire il rumore prodotto dal lavoro notturno dei soldati che piantavano i paletti. E’ facile immaginarsi lo stato d’animo di quei disgraziati che dovevano cantare sotto il fuoco della nostra artiglieria”. E qui l’austriaco rende un commovente  omaggio ai nemici uccisi dalle bombe dei suoi cannoni: ”Essi avevano combattuto con l’arma della voce rendendo alla patria, con le loro canzoni, un  grande servigio”.
 Ma, forse, morir cantando è la morte più bella.                                                                           
                                                                                Giovanni Zannini                                         Padova 27-12-2015    



          

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