venerdì 30 settembre 2011

A PRAGA LA MUCCA CAROLINA

E’ stato veramente sorprendente, sbarcando a Praga, trovarla popolata da centinaia di mucche che avevano invaso le vie strette della città vecchia o quelle più celebrate del centro e le piazze famose. Alcune addirittura, si erano appollaiate sopra le cabine telefoniche o le tettoie delle fermate degli autobus, talaltra impudicamente, zampe all’aria, ostentava fieramente la possanza del proprio apparato lattiero-caseario.
No, non è che qualche mandriano distratto diretto alla propria fattoria sui Carpazi avesse sbagliato strada finendo nella capitale in piazza Venceslao o sul ponte Carlo: si è trattato invece di una trovata pubblicitaria per dare evidenza ad un convegno sull’agricoltura e l’allevamento che si teneva in città.
Gli animali, in grandezza naturale, di vario materiale (cartapesta, legno o plastica) poggiavano su di un piedestallo che ne illustrava il nome (non poteva mancare la ben nota in Italia mucca Carolina), la razza e le sue caratteristiche, nonché l’autore dell’opera.
Tutte coloratissime, bianche, verdi, rosse, azzurre, rosa, dorate, con disegni vivaci sulla groppa, cha ammiccavano dagli angoli delle strade e nelle piazze con espressioni ora bonarie, ora ironiche, talvolta un po’ seccate se qualcuno si permetteva qualche confidenza di troppo.
Una rara e forse unica occasione per ammirare un inconsueto connubio fra gli splendori della Città d’Oro e la zootecnia boema.
Praga giugno 2004
GIOVANNI ZANNINI

LA SOLDATESSA BELLA

LA SOLDATESSA BELLA
Molti si domandavano chi gliel’avesse fatto fare a quel gran bel pezzo di ragazza dell’Aida di andare ad arruolarsi nell’esercito.
Con quel fisico che si teneva avrebbe potuto far la modella, la barista in qualche locale chic, la commessa in un buon negozio di moda, la rappresentante di prodotti di bellezza, la cameriera in qualche ricca famiglia, e così via, e, alla fine, trovarsi un marito benestante, fare figli e campare tranquillamente.
Invece no, dopo aver primeggiato a scuola in educazione fisica (con voti molto, molto migliori, per la verità, che nelle altre materie) ci aveva preso gusto e così, al posto di perder tempo morosando con i compagni e andando a ballare con loro, aveva preferito frequentare le piste di atletica e le palestre, con notevole ulteriore beneficio per le grazie di cui madre natura l’aveva già abbondantemente dotata. Provò pure a fare il pugilato ma ci rinunciò per paura che qualche cazzotto lasciasse il segno su quel nasetto delizioso o facesse nero uno di quegli occhioni che agli uomini piacevano un mondo, e che le compagne invidiavano tanto.
Vissuta in una famiglia in cui il padre se l’era svignata e la madre, risposatasi, la trascurava, aveva campato di lavoretti fino a che sui vent’anni le capitò di leggere un bando d’arruolamento per donne, e si chiese:”Perché no?”. Piuttosto di uno dei soliti mestieri , meglio qualcosa di nuovo, di originale, meglio una vita avventurosa , di movimento, e non nel chiuso di uno studio fotografico, di un ospedale, di un ufficio, di un supermercato o di una casa privata per quanto agiata.
Al giorno d’oggi, poi, il soldato lo si fa soprattutto nelle missioni di “peace keeping” all’estero, il rischio è modesto perché le donne non le mandano in prima linea, pagano bene, giri il mondo , stai all’aria aperta, fai movimento ed hai anche l’occasione di fare una po’ di bene a poveracci spesso in difficoltà e bisognosi d’aiuto.
Nel contempo, stando attenta a non lasciarsi scappare l’occasione di metter su famiglia con qualche bravo ragazzo, grazie anche ai soldini che si sarebbe messa da parte.
Fatta la domanda, alle selezioni sbaragliò tutte le concorrenti lasciandole dietro diecine di metri nelle corse, o ad affannarsi sui muri del percorso di guerra mentre lei tagliava sorridente il traguardo.
Arruolata con ottime note caratteristiche – anche la bella presenza, diciamolo, aveva aiutato, perché in prima fila nelle parate o ben in vista nelle foto faceva far bella figura all’esercito –, dopo un paio d’anni, imparato il mestiere, l’avevano mandata in missione con il contingente italiano in Kossovo, destinata a guidar camion che lei maneggiava come fossero utilitarie.
Naturalmente, al suo arrivo, fra i soldati vi fu una certa agitazione, perché si sa quale scompiglio può arrecare in una caserma la solo vista di una donna, e figuriamoci se giovane e bella.
Nel caso dell’Aida, però, grazie al suo modo sempre gioviale ma sicuro nel tenere a bada gli ammiratori, ed anche a salutari sganassoni assestati a qualcuno di loro troppo intraprendente, le cose con il tempo si assestarono ed i soldati finirono per considerarla un buon collega anche se anomalo per via di tutte quelle belle curve che si teneva addosso.
Ma non lui, il Sergente turco Hamil Sucru, capo officina del reparto motorizzazione della missione ONU.
Sui trent’anni, scuro di capelli e di pelle, robusto e muscoloso, gli occhi neri lampeggianti, un bel paio di baffi che gli coprivano quasi completamente il labbro superiore, per le donne del suo paese, che gli correvano dietro, non c’è che dire, bello lo era, ma a quelle al di là del Bosforo, non faceva né caldo né freddo, e, anzi, a qualcuna faceva perfino ridere .
La divisa gli stava bene e gli donava, dandogli un aspetto autorevole e rispettabile, ma sotto, come si dice, non c’era niente.
Un poveraccio nato in un remoto villaggio dell’Anatolia, senza istruzione, impegnato fin da ragazzo in mille mestieri, anche i più umili, per aiutare una famiglia miserabile, quando era finalmente entrato nell’esercito per il servizio di leva, con un letto, un pasto assicurato e qualche spicciolo di paga, si era adattato nonostante le esercitazioni durissime, le sevizie di superiori violenti, l’impiego in operazioni di polizia contro i ribelli (i curdi, per esempio) durante le quali non si andava tanto per il sottile - anzi! - per quanto riguarda le vita e la libertà degli altri, e c’era il rischio di lasciarci la pelle in qualche imboscata.
Così, grazie a fatiche e sacrifici, ad umiliazioni sopportate rancorosamente in silenzio, di qualche azione non sempre commendevole ma considerata dai superiori coraggiosa – e premiata -, ed anche per anzianità che, come ben sappiamo, nell’ambiente militare “fa grado”, era riuscito, passo dopo passo, a “far carriera”, se tale si può considerare l’avanzamento in una quindicina d’anni da soldato semplice a sottufficiale , una meta da lui considerata importantissima che lo riempiva di orgoglio.
Ma anche di presunzione perché, come rivalsa delle tante umiliazioni ed ingiustizie subite, aveva preso a scaricarle sui suoi sottoposti con angherie e soprusi d’ogni genere.
Non solo, ma arrivato da poco in Kossovo con il suo reparto per contribuire alla missione di pace dell’ONU, non si era accorto che alle altre donne non faceva lo stesso effetto che a quelle turche, e restava convinto che tutte dovessero cedere al suo fascino, e che averle fosse un diritto alle quali esse non si potevano sottrarre .
Per cui non poteva sopportare che l’Aida, che aveva sùbito – e non era difficile – adocchiata, non ci stesse , e considerava ciò un’onta, una vera e propria offesa personale.
Le aveva provate tutte ogni volta che la ragazza rientrava dal servizio a depositare il suo autocarro nel grande garage di cui aveva la responsabilità: prima i sorrisi, i complimenti nel suo italiano stentato, i cioccolatini e perfino qualche fiore che lui alle donne non aveva regalato mai - non ce n’era bisogno - e che, oltrettutto, da quelle parti, costano un occhio.
Aveva allora pensato di cambiar tattica passando direttamente all’azione con baci improvvisi ed abbracci a sorpresa dai quali l’Aida era sempre riuscita a svincolarsi grazie a quei muscoli i che, come sappiamo, aveva solidi sotto una copertura morbida ed in apparenza delicata, e la minaccia di mettersi a rapporto per denunciare ai superiori le sue pesanti “avances”.
Così, il rifiuto, al quale non era aduso e che considerava colpevole, della donna, e lo scorno di fronte agli altri militari che si erano accorti del suo fallimento, e bofonchiavano fra loro, non tardarono a mutare il suo desiderio d’amore e di possesso in un sordo risentimento sentendosi vittima di un comportamento, secondo la sua mentalità, incomprensibile ed ingiusto.
Risentimento che si trasformò in vero e proprio odio ossessivo, ruminato di continuo e che non lo faceva dormire, allorchè si rese conto che l’Aida si era innamorata di Danilo, un giovane caporale italiano, buon figliolo – a suo avviso molto, ma molto meno bello di lui, del che non riusciva a capacitarsi – il quale si era accorto che sotto la tuta mimetica dell’Aida, oltre ad un corpo forte, bello, giovane e desiderabile, c’erano pure pensieri e sentimenti che ne avrebbero fatto un’ottima moglie.
Oltre a ciò la sconfitta sentimentale era vieppiù aggravata dal fatto di essere stato preferito ad un militare di grado inferiore al suo: se si fosse messa con un ufficiale, che so io, un capitano….., un maggiore….. o anche solo un tenente……, la cosa sarebbe stata meno grave. Ma con un caporale che doveva rispettosamente salutarlo quando lui passava, se no lo mandava in punizione, questo no, questo non lo poteva assolutamente tollerare.
Una sera che l’Aida, finito il pesante turno di servizio, era arrivata a depositare il suo camion, il Sergente l’accolse con un bel sorriso e, siccome faceva freddo e pioveva, le offrì di usare, per rientrare nella caserma poco lontana, una delle vetture ferme in quel momento nel garage invece di usare una motocicletta come faceva di solito: e lei, grata, accettò.
“Te la vado a prendere” disse l’altro premurosamente: si allontanò e poco dopo tornò a bordo di una delle Fiat Punto in dotazione alla missione della quale portava, sulla fiancata, le insegne.
“Ho controllato personalmente, è tutto a posto: vai tranquilla” disse alla ragazza aprendole galantemente la portiera, aggiungendo un “Buon viaggio, arrivederci” al che l’Aida rispose con un grazie condito da uno dei suoi bei sorrisi.
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Dopo appena un paio di chilometri la Punto saltò in aria e della povera Aida non raccolsero che pochi resti.
La sua morte provocò dolore e rabbia non solo nel reparto italiano, ma nell’intero contingente internazionale che aveva avuto occasione di conoscerla e di ammirarla per la sua simpatia, la sua efficienza nei servizi affidatile, oltre che per la sua bellezza. E fu lutto sincero e sentito anche da parte della popolazione locale nei cui confronti la ragazza italiana si era sempre comportata con grande umanità contribuendo a distribuire cibi ed altri generi di prima necessità, a trasportar malati ed a occuparsi di vecchi e di orfani.
La commissione d’inchiesta - alla quale partecipò anche il Sergente Sucrù quale esperto in materia automobilistica - subito avviata dal Comando militare accertò che la vettura era saltata su di una mina piazzata sulla strada percorsa dall’Aida da quei terroristi che si oppongono con ogni mezzo, anche il più vile, al distacco del Kossovo dalla madre Serbia.
La riprovazione fu unanime, specie per la violenza usata ad una donna generosa e incolpevole, e da quell’episodio prese vieppiù vigore il risentimento dei kossovari che attribuirono il crimine agli odiati serbi.
I funerali furono solenni alla presenza di tutti i militari di ogni nazionalità componenti la missione ONU, dei loro comandanti e di una gran folla di civili con i loro rappresentanti in testa; e tutti rievocarono la figura dell’Aida esaltandone l’ attaccamento al dovere, l’umanità, e, taluno, anche la bellezza.
Alla memoria di Aida Graminelli fu concessa dal Capo Missione ONU la “Medaglia della Solidarietà e della Pace” , e dal Sindaco di Pristina l’onorificenza della “Croce della Liberazione” dedicata a quanti danno il loro contributo all’indipendenza del Kossovo.
In prima fila, fra le rappresentanze militari, il reparto turco ben inquadrato, agli ordini del suo comandante fiero ed impettito in alta uniforme.
Al momento della resa degli onori il Sergente estrasse la spada e la tenne ben alta, il braccio teso, in segno d’ omaggio al coraggio della donna che aveva perso la vita per aver osato dir no ad Hamil Sucrù.
Giovanni Zannini

Pubblicato su "La Nuova Tribuna Letteraria"

venerdì 23 settembre 2011

BANDIERA NEUTRA: IL C.L.N. RISORGIMENTALE

Tra Garibaldi e Mazzini, si sa, non correva buon sangue.
Uniti dall’ ideale dell’unità d’Italia, erano però fieramente divisi sul mezzo per arrivarvi.
Garibaldi, pur convinto della bontà del sistema repubblicano, si pose al servizio della monarchia ritenendo che solo sotto la guida e nel nome dei Savoia l’agognata unità d’Italia sarebbe divenuta realtà.
E’ lui stesso a dirlo nelle sue memorie:”...Io posso con orgoglio dire: fui e sono repubblicano…In un paese libero…il sistema repubblicano è certamente il migliore” ma “non essendo possibile per ora, 1859, la Repub blica,…presentandosi l’opportunità di unificare la penisola con la collaborazione delle forze dinastiche e nazionali, io vi ho dunque aderito immediatamente…” .
Mazzini, invece, repubblicano puro e duro, era convinto di potercela fare anche senza i Savoia grazie ad un’azione condotta all’insegna “Dio e Popolo” che con insurrezioni fomentate in ogni parte d’Italia, con una guerra per bande, avrebbe egualmente raggiunto l’obbiettivo desiderato.
Invece, ogni rivolta da lui organizzata, a causa dell’impreparazione del popolo a condividere, all’epoca, l’ideale unitario, fallì, con gravi perdite di vite umane: ma questo non lo scoraggiò ritenendo egli che l’esempio e l’eroismo di pochi avrebbero alla fine convinto l’intero popolo a condividerne gli ideali, ed a seguito di ciò la meta agognata sarebbe stata raggiunta.
Per questo, visto l’esito negativo degli ultimi moti da lui ispirati ( Francesco Bentivegna in Sicilia 1856 e Carlo Pisacane in Campania 1857) i mazziniani si accordarono con Garibaldi mettendo provvisoriamente da parte gli ideali repubblicani in nome del risultato finale: l’unità d’Italia. Così, essi decisero di partecipare alla spedizione dei Mille all’ombra di una “Bandiera Neutra” - una sorta di “CLN” risorgimentale, “ante litteram”, simile a quel “Comitato di Liberazione Nazionale” che poi, durante la Resistenza, unì i partiti italiani che, accantonate per il momento le proprie singole diverse ideologie, combatterono il nazifascismo – rinviando la decisione definitiva sulla struttura istituzionale dell’Italia ad un periodo successivo all’unificazione.
Si veda, in proposito, la lettera 24.2.1860 di Rosolino Pilo (siciliano mazziniano) a Garibaldi con cui lo informa “..dei mezzi preparati e messi insieme da Mazzini CHE NON FA QUESTIONE DI REPUBBLICA “ per favorire l’auspicata spedizione.
La conferma che Mazzini si prodigò nella raccolta di fondi per finanziare la Spedizione dei Mille emerge anche dalla lettera 10 maggio 1860 (mentre già Garibaldi veleggiava per la Sicilia) spedita a Celeste Gandolfi: ” Fratello, Garibaldi come sapete è passato per aiutare l’insurrezione nel sud. Savi è con lui, ma non basta. E’ necessario che ciò che si compie per mare si compia anche per terra. E’ necessario varcare la frontiera attuale romagnola e promuovere l’insurrezione delle Marche e dell’Umbria con gli Abruzzi. Così s’aiuta la Sicilia davvero. Così si fonda l’Italia d’ una gente, tutti i buoni devono ora agire con tutti i mezzi possibili nella divisione Roselli composta com’è di buoni elementi per indurre gli uffiziali e bassi uffiziali a un pronunciamento in quel senso. Raccogliere OFFERTE PER LA SICILIA e per darle all’impresa della quale parlo. …Preparare cannoni ed armi per essi : studiare i mezzi d’inviarle ad un punto estremo della frontiera romagnola…”.
E ancora, il giorno successivo, sempre a Gandolfi: “Fratello, v’ho scritto: vi riscrivo …Mentre Garibaldi opera sul sud e in Sicilia combatte, bisogna agire sul centro , quella provincia romana e versarvi quanti elementi disponibili esistono…Centiplicate la vostra energia, e facciamo l’Italia. LA BANDIERA E’UNITA’, LIBERTA’”.
Ossia, BANDIERA NEUTRA, perché Mazzini, in quel momento, di Repubblica non parla proprio.
E cosa ottenne Mazzini sul fronte dell’Italia centrale, in appoggio all’azione che Garibaldi stava combattendo su quello sud?
La “divisione Roselli”, di cui parla Mazzini, era una formazione dell’esercito papalino comandata dal generale Pietro Roselli, lo stesso che, allora Maggiore, Pio IX, all’epoca liberaleggiante, aveva inviato con il suo battaglione assieme al corpo di spedizione comandato dal gen.Giovanni Durando in aiuto a Carlo Alberto allora impegnato nella 1° Guerra d’Indipendenza del 1848. Ma successivamente, allorchè il Papa - deludendo i patrioti che avevano creduto in lui, fra cui lo stesso Garibaldi - mutò, come sappiamo, pensiero per il timore di uno scisma in Austria, il corpo di spedizione papalino che aveva combattuto valorosamente in Veneto a fianco dei Piemontesi, ricevette l’ordine di abbandonare il fronte e di rientrare alla base di partenza.
Già allora l’ordine non fu bene accetto, tanto è vero che molti papalini, invece di obbedirvi, si recarono a Venezia per difendere la Repubblica di S. Marco assediata dagli austriaci: dunque, in quella divisione vi erano dei fermenti fra “uffiziali e bassi uffiziali” che Mazzini voleva appunto alimentare per fomentare una rivolta.
Che, in effetti vi fu: quando, infatti, Vittorio Emanuele invase lo Stato Vaticano – poi sconfitto a Castelfidardo - marciando verso sud per ricongiungersi con Garibaldi, il Roselli si mise ai suoi ordini e nominato Tenente Generale dell’esercito italiano si distinse nella conquista di Ancona di cui comandò per un breve periodo la piazza militare.
Dunque, il contributo di Mazzini all’impresa dei Mille vi fu, sia pure in un periodo successivo alle vittoriose battaglie di Garibaldi che già il 7 settembre 1860 era entrato vittorioso in Napoli, ed in maniera cospirativa e non, come avrebbe voluto, con “cannoni ed armi” sul fronte dell’Italia centrale.
A questo punto Mazzini riprende la sua libertà d’azione, ammaina la “Bandiera Neutra” , innalza di nuovo quella repubblicana e si precipita a Napoli per convincere, ma invano, Garibaldi a non unificare il sud Italia al Regno dei Savoia. Accolto in città (ove trova anche il tempo di fondare un ennesimo giornale, “Il Popolo d’Italia”) con vivaci proteste dai fautori dell’unificazione, e fatto anche oggetto di minacce, affranto da sofferenze fisiche oltre che morali, rinuncia a sostenere le sue idee e parte per Lugano e poi per l’Inghilterra, mentre, dopo i plebisciti del 21 e 22 ottobre 1860 che decretarono l’annessione del Mezzogiorno al regno sabaudo, Garibaldi e Vittorio Emanuele, nell’incontro di Teano, sancivano la raggiunta unità d’Italia.

Giovanni Zannini

giovedì 22 settembre 2011

QUEL DIO DI STALIN

"La seconda Guerra Mondiale" in 12 volumi di Winston Churchill è un'opera poderosa (che gli meritò il Premio Nobel 1953 per la Letteratura) dalla quale oltre alla cronaca precisa e, a mio avviso, sufficientemente obbiettiva, del secondo conflitto mondiale visto dall'ottica opposta a quella di noi italiani , emergono spunti che aprono alle più varie considerazioni e suscitano commenti.
Nell'8° volume si legge che venerdì 12 agosto 1942 Churchill assieme ad Averell Harriman (in rappresentanza di Roosvelt) e con un seguito di alti generali s'incontra a Mosca con Stalin il quale, alle corde per l'avanzata tredesca che minaccia la capitale, pretende, furioso, dagli alleati inglesi e statunitensi l'apertura nello stesso anno 1942 di un secondo fronte ad ovest (lo sbarco sulle coste francesi secondo lui promesso dagli alleati) per alleggerire la tragica situazione in cui si trova.
Churchill e gli altri gli dicono chiaramente che i piani per l'invasione della Francia non sono ancora pronti e che quindi di sbarcarvi nel 1942 non se ne parla neppure, per evitare di andare incontro ad un sicuro insuccesso.
Di fronte alla violenta reazione di Stalin gli viene illustrato un piano diverso ma che avrebbe avuto lo stesso effetto di alleggerire la pressione tedesca su Mosca: l' apertura di un secondo fronte ma non nella Francia settentrionale, bensì nell'Africa settentrionale francese, nell'ottobre dello stesso anno 1942.
Stalin comiuncia a drizzare le orecchie.
Si tratta del "Piano Torch" in base al quale gli alleati sarebbero sbarcati in Marocco ed in Algeria per prendere alle spalle, come avvenne, con manovra a tenaglia, italiani e tedeschi impegnati in Libia a tener testa agli inglesi avanzanti dall'Egitto.
In tal modo i tedeschi avrebbero dovuto allentare la pressione su Mosca per affrontare il nuovo fronte africano, con evidente vantaggio per i russi.
Stalin, di fronte a questa prospettiva si placa, si convince della sua bontà e, come scrive Churchill, esclama:" Che Dio benedica questa impresa".
In occasione dello stesso incontro tenutosi a Mosca dal 12 al 15 agosto 1942 vi furono molti altri colloqui fra il Premier inglese e Stalin durante i quali non mancarono accenni polemici di quest'ultimo a proposito di dichiarazioni riguardanti il regime sovietico rilasciate in passato da Churchill, e contenute (per ovvi motivi diplomatici) reazioni da parte di quest'ultimo.
Ma durante il pranzo ufficiale di saluto offerto da Stalin all'ospite inglese vi fu una specie di riappacificazione fra i due e Stalin concluse:"...Tutto ciò è ormai cosa passata, ed il passato appartiene a Dio".
Ma qual'era il Dio di Stalin?
Giovanni Zannini