giovedì 23 dicembre 2010

IL DODECANNESO: "LA PREDA SFUMATA"


Doverosamente, in occasione dell’8 settembre di ogni anno, viene rievocata la sorte dei militari italiani  dislocati a Cefalonia e nelle circostanti isole greche del mar Jonio  che, rimasti senza ordini, tentarono di opporsi ai tedeschi e per questo subirono un tremendo  massacro.
Episodio, questo, rievocato da un monumento forse unico in Italia che sorge a Padova nel piazzale a fianco della chiesa della SS.Trinità voluto dal defunto parroco don.Giulio Bovo,  già Cappellano Militare della Divisione “Acqui”, che visse quella tremenda esperienza”.
Meno note e rievocate sono invece  le drammatiche vicende di  altri  militari italiani all’estero rimasti senza ordini dopo l’armistizio, come nel Dodecanneso, gruppo di isole – Rodi la maggiore -nel mare Egeo che l’Italia aveva occupato nel 1912 e che era divenuta nel 1930 colonia italiana. 
Nella sua poderosa opera “La seconda guerra mondiale” ( Vol.IX  - Cap.XII intitolato “La preda sfumata”) Churchill (al quale fu attribuito, ricordiamolo, nel 1953 il “Premio Nobel” per la Letteratura),  si occupa di questo argomento  ed illustra i diversi punti di vista degli inglesi e degli americani  sull’opportunità o meno di occupare il Dodecanneso prima che lo facessero i tedeschi:  ed ammette di aver provato,  a causa delle divergenze avute a tal proposito con il gen.Eisenhower, “ uno dei più acerbi dolori della guerra”.
Gli inglesi, infatti, sostenevano l’opportunità di conquistare quelle isole, considerate facile preda, perché il possesso di Rodi dotato di un grande aeroporto avrebbe consentito agli inglesi di proteggere più comodamente con l’aviazione  le truppe impegnate in Egitto e Cirenaica e le  forze navali operanti nelle acque dell’Egeo.
 Oltre a ciò, il successo dell’operazione avrebbe potuto influire positivamente sulla titubante confinante Turchia ed indurla a rompere gli indugi dichiarando guerra alla Germania, con il che sarebbe stato possibile agli anglo-americani inviar aiuti all’alleata Russia – che li reclamava energicamente –attraverso i Dardanelli  anziché navigare sulla rotta lunga, pericolosa e costosa, del mare Artico.
 Eisenhower, da parte sua, impegnato in Italia e nella  complessa preparazione  di quell’enorme impresa che fu l’operazione “Overlord” (lo sbarco alleato in Normandia  del 1944), ritenne invece di non poter  trascurare neppure in minima parte  e per breve tempo  quei due impegni primari a favore di un’impresa –l’”Accolade”, appunto, come la definiva Churchill, forse con riferimento all’”investitura” dei cavalieri di Rodi – da lui ritenuta secondaria: e negò ogni aiuto.
Hitler, al contrario, ritenne fondamentale il possesso di quelle isole  perché temeva i riflessi psicologici negativi che lo loro perdita avrebbe potuto avere sui propri alleati del fronte sud-orientale (Romania, Bulgaria, Ungheria) che si sarebbero visti minacciati da sud, oltre, a sua volta, per influire  sulla incerta e neutrale Turchia  sempre in dubbio se schierarsi da una parte o dall’altra in attesa dell’occasione buona per farlo con quella che apparisse la più forte.
Allora Churchill, convinto della necessità di confermare la presenza inglese nel Mediterraneo orientale , dopo aver ribadito agli americani che la temporanea,  breve distrazione dal progetto “Overlord”  di una piccola forza da sbarco nell’Egeo “per rinsanguare le forze britanniche”  non avrebbe compromesso né la  campagna d’Italia, né lo sbarco in Normandia previsto del resto fra 6 mesi, rotti gli indugi, decise di fare da solo.
Ed il 15 settembre 1943, avvalendosi del  poco naviglio da guerra disponibile e di ogni pur minima risorsa nautica  ( perfino  lance di salvataggio e canotti)  gli inglesi riuscirono a sbarcare  nelle isole di Castelrosso, Lero, Samo, Coo – dotata, quest’ultima, di campo d’aviazione – e su altre isole minori.
“Le guarnigioni italiane – scrive Churchill – quando c’erano si dimostrarono abbastanza amichevoli, ma le loro vantate difese costiere e contraeree si dimostrarono piuttosto male in arnese, e il trasporto delle nostre armi e dei veicoli più pesanti era praticamente impossibile con il naviglio a nostra disposizione”.
Fallì, invece, dopo un disperato tentativo, la conquista di Rodi (l’isola strategicamente più importante dopo Creta già in mano nemica)  ove i tedeschi, sopraffatti gli italiani, si erano insediati, e donde, tenendo sotto costante controllo aereo l’intero arcipelago, scatenarono la controffensiva.
I 1200 inglesi che presidiavano Coo – e che non ebbero, in questo caso, la nostra collaborazione –sgomberarono nottetempo l’isola dopo aver distrutto cannoni e difese portando seco “tutti gli ufficiali italiani e quanti altri italiani possibile”.
Lero  (come racconta il sopravvissuto Renato Niccoli nel suo libro “La verità sulla storia  di un’isola – Lero”) fu evacuata dopo la dura resistenza  di quasi due mesi dei militari italiani, soprattutto marinai, che combatterono fianco a fianco con i 3000 inglesi che vi erano sbarcati, contro la superiorità aero-navale dei tedeschi.  Grazie alla valida collaborazione della marina greca, furono portati in salvo inglesi, greci ed anche italiani, per evitare, scrive Churchill, e ciò gli fa onore, che gli ufficiali italiani venissero fucilati, come accadde  a Cefalonia.
Contemporaneamente, furono sgomberate le piccole guarnigioni di Samo e di altre isole minori cosicchè l’intero arcipelago rimase in mano ai tedeschi anche se piccoli gruppi di partigiani greci ed italiani continuarono a combatterli.
Con questo successo i tedeschi ottennero i risultati che si erano prefissi e che Churchill aveva previsto e temuto.
Scrive il Primo Ministro inglese, nel capitolo più sopra citato: “Mi addolorava che fossero state così tenacemente avversate e respinte le piccole richieste da me fatte che,  senza arrecare alcun pregiudizio alla preparazione dell’”Overlord”  avrebbero  potuto aggiungere a tutti i frutti della campagna d’Italia anche il controllo dell’Egeo e, con ogni probabilità, l’entrata in guerra della Turchia”: ma, conclude,  “quando tanti e gravi problemi incombevano, non potevo rischiare il minimo screzio nei miei rapporti personali con il Presidente degli Stati Uniti”, e si rassegnò a veder “sfumare  una preda” che riteneva sicura.
Ma, sottolinea, “a denti stretti”.
Noi italiani non possiamo  che condividere il rammarico di Churchill.
Se, infatti, gli alleati, subito dopo la firma dell’armistizio con l’Italia fossero sbarcati con azione decisa e tempestiva  nel Dodecanneso  ed a Cefalonia,  molte stragi di italiani sarebbero state evitate.   
                                                                                Giovanni Zannini

La sconfitta alleata di Dieppe - L'operazione "Jubilee"

Nel giugno  1942 Churchill con un rappresentante di Roosevelt si recò precipitosamente a Mosca per incontrare Stalin che, furioso, esigeva l’immediata apertura di un secondo fronte ad ovest per alleggerire la pressione tedesca su Mosca.
Forse timoroso che i rovesci subiti inducessero i russi ad una pace separata con i tedeschi, Churchill, pur confermando che uno sbarco in Francia sarebbe stato possibile solo fra un paio d’anni, promise a Stalin che sarebbero state prese iniziative per impegnare maggiormente le forze tedesche ad ovest.
Tornato a Londra, il primo ministro pretese dai militari un’azione di forza contro i tedeschi in territorio francese e lo sbarco a Dieppe del 19 agosto 1942 voluto da uno stratega “amateur” (dilettante – evidente l’allusione a Churchill che collaborò attivamente alla preparazione dell’impresa vista con molte riserve dagli esperti militari) clamorosamente fallito fu  il prezzo pagato dagli alleati per onorare le promesse del premier inglese a Stalin.
Questo, dunque, il movente del fallito “raid” su Dieppe, una sconfitta che gli alleati preferiscono obliare, e solo pochi visitatori si recano nel piccolo, polveroso e poco pubblicizzato  museo della guerra di Dieppe.      
Per una migliore comprensione dell’episodio che venne esaltato dai tedeschi come prova dell’impossibilità di violare il “Vallo atlantico” occorre premettere che quel “raid” non aveva lo scopo di occupare stabilmente il territorio attaccato, bensì quello di danneggiare quanto più possibile  il potenziale militare nemico ivi esistente e quindi rientrare alle basi di partenza.
Questo intento fu chiaramente manifestato agli abitanti di Dieppe invitati dagli alleati a restare passivi per  evitare possibili rappresaglie  assicurando, nel contempo, che il momento della completa liberazione non era lontano.
I “dieppois” obbedirono ed i tedeschi, ritenendo, a torto,  tale atteggiamento ostile agli invasori e favorevole a loro, li vollero premiare liberando i soldati francesi di Dieppe che erano stati fatti prigionieri dall’inizio della guerra.
L’operazione - denominata in codice “Jubilée” e che avrebbe dovuto risolversi in una dozzina di ore – prevedeva la distruzione dell’artiglieria posta a protezione della città,  dell’aeroporto, delle installazioni radar ed elettriche, delle attrezzature portuali e dei depositi di munizioni e di carburante; la ricerca di documenti; la cattura di prigionieri; infine, il confronto aereo con la Luftvaffe per saggiarne le potenzialità.
Era previsto che lo sbarco sarebbe avvenuto su di un tratto di spiaggia di una ventina di chilometri con al centro Dieppe, in molti punti delimitata da alte falesie irte di cannoni tedeschi.
In un primo tempo “commandos” inglesi e unità canadesi avrebbero dovuto distruggere le difese tedesche a sud (Varangeville, Pourville) ed a nord (Puys, Belleville, Berneval) della città, dopo di che sarebbe scattato  l’attacco frontale contro il centro cittadino.  
Così, una flotta composta da 250 natanti fra mezzi da sbarco e navi da battaglia recante a bordo 6000 uomini in maggioranza canadesi, con una copertura aerea costituita soprattutto da caccia, salpa,  nella notte del 18 agosto 1942, dai porti inglesi di Newhaven, Shorham, Portsmouth, Southampton e Gosport ed alle 3 del giorno successivo si presenta dinanzi alle coste francesi.
Ma le cose non vanno secondo i piani prestabiliti.
A sud di Dieppe, a Varangeville, il “commando n.4” britannico, raggiunto l’obbiettivo (distruzione di una batteria costiera) si reimbarca; ma un migliaio di canadesi sbarcato a Pourville, dopo qualche iniziale successo viene sopraffatto dai tedeschi e riesce a fatica a reimbarcarsi  perdendo quasi metà degli effettivi.
A nord, a Puys, il fallimento è totale: i canadesi vengono falciati appena presa terra, 128 muoiono e 250 sono catturati.
Anche al “commando n.3” inglese va male: un reparto sbarcato a Belleville  distrugge  una batteria costiera tedesca ma poi, a corto di munizioni è costretta a reimbarcarsi; l’altro sbarcato a Berneval  dopo un duro combattimento si arrende.
A questo punto, pur dopo questi insuccessi, l’Alto Comando delle Operazioni Combinate, forse anche a causa di difettose comunicazioni con i reparti impegnati, ordina egualmente di sferrare l’attacco frontale.
Ma l’esito è disastroso: i genieri incaricati di praticare varchi nella difesa tedesca per aprire la strada ai carri armati “Churchill”, impiegati per la prima volta, sono annientati e, di conseguenza, i mezzi corazzati, non appena toccata terra,  distrutti, mentre i difensori dai bunker ed anche dai tetti degli alberghi prospicienti il luogo dello sbarco, fanno strage degli assalitori.
Solo una ventina di canadesi raggiunte le prime case dell’abitato, il Casinò ed il teatro,  riesce a penetrare nelle vie circostanti prima di essere uccisi o fatti prigionieri nonostante il sopraggiungere di rinforzi che a quel momento si manifestano inutili. 
Molte le cause della sconfitta: la rinuncia a preliminari massicci bombardamenti aerei e navali per scompaginare le difese avversarie; il mancato impiego di paracadutisti; l’insufficiente numero di uomini impiegato nell’impresa; i materiali inadatti ; l’eccessiva rigidità nel voler applicare ad ogni costo i piani prestabiliti; la scarsità del munizionamento e le difettose comunicazioni.
Caro il prezzo in vite umane e materiali pagato dagli alleati:  1.197 morti di cui ben 900 canadesi; 1.500 feriti; circa 2000 prigionieri; 34 navi affondate; 108 aerei abbattuti; carri armati,
armi e munizioni abbandonati sulla spiaggia.
Ma i soldati canadesi vittoriosi che l’1 settembre 1944 liberarono  
Dieppe seppero vendicare i camerati caduti nel “raid” del 19 agosto 1942.
E le innumeri bandiere bianche e rosse con la foglia d’acero al centro che sventolano a Dieppe dando al visitatore l’impressione di trovarsi, per chi sa qual prodigio, in Canada anziché in terra di Francia, attestano l’imperitura riconoscenza della città per i canadesi.
Ricordando, non dimentichiamolo, che lo sfortunato “raid” non fu vano perché costituì una preziosa esperienza – anche se pagata a caro prezzo -  per il successo, due anni dopo, con l’operazione “Overlord”, del vittorioso sbarco in Normandia del 6 giugno 1944.

                                           Giovanni Zannini