martedì 18 ottobre 2016

Taccagna l'URSS con i compagni nella guerra civile spagnola - ARMI SI, MA PAGAMENTO SULL'UNGHIA E ANTICIPATO

La guerra civile spagnola ebbe inizio il 17/18 luglio 1936 (quindi 70 anni fa) con il “pronunciamento” - la rivolta dei militari in Marocco Spagnolo dei quali assunse il comando il generale Francisco Franco Bahamonde - contro il governo legittimo del ”Fronte Popolare” di sinistra uscito vittorioso dalle elezioni del 16 febbraio 1936.
E, come tutte le guerre, vide un enorme dispendio, oltre che di vite umane, anche di armi e di materiale bellico.
Dato il sottosviluppo industriale spagnolo degli anni 30 e, quindi, l’impossibilità di produrre armamenti (con l’eccezione di alcune fabbriche nei Paesi Baschi ed in Catalogna), le forniture militari dall’estero erano un necessità e per poter prevalere gli uni sugli altri i due fronti contrapposti si dovettero rivolgere a nazioni simpatizzanti per le due ideologie in contrasto: i nazionalisti di Franco all’Italia fascista ed alla Germania nazista; il governo spagnolo di sinistra all’Unione Sovietica.
Con ciò il conflitto assunse una dimensione internazionale nonostante l’esistenza di un “Comitato del non intervento” (cui parteciparono 24 nazioni fra cui principali Inghilterra, Francia, Germania, Italia e Unione Sovietica) che, sorto per “sterilizzare” la guerra civile spagnola vietando ogni afflusso di armi nella penisola, si manifestò organismo equivoco da nessuno rispettato e men che meno da Italia, Germania ed URSS, definito dal Pandit Nehru “la suprema farsa del nostro tempo”.
Ma gli aiuti forniti da Italia e Germania ai nazionalisti del ribelle generale Franco, e dall’URSS al legittimo governo repubblicano, non furono gratuiti gesti di solidarietà fra gente che la pensava allo stesso modo, sibbene vere forniture commerciali che esigevano il pagamento di un prezzo.
L’Italia, oltre a circa 50.000 (altri dicono 100.000) volontari che erano, in realtà, soldati del regio esercito e camicie nere delle divisioni “Littorio”, “23 Marzo” e “Fiamme Nere” con molti reduci dalla guerra d’Abissinia), fornì da 7 a 800 aerei (fra i piloti, Bruno Mussolini), carri armati leggeri (inferiori dunque a quelli russi), artiglieria mobile, autoblindo, autocarri ed anche 90 unità navali fra cui sommergibili e cacciatorpediniere.
Da “La guerra civile di Spagna” di Harry Browne si apprende che gli aiuti italiani furono di tre volte superiori a quelli forniti dalla Germania, che il pagamento avvenne a rate mensili e che dopo molto tempo, alla fine del 1967 l’Italia addivenne ad una transazione con i camerati franchisti accontentandosi di incassare un terzo del credito maturato, mentre i tedeschi trattarono con i nazionalisti con modalità di tipo più affaristico.
La Germania aveva fornito 12000 uomini molto ben mimetizzati cui era severamente proibito indossare le uniformi germaniche, un migliaio di aerei (gli “Junker 52” da trasporto - cui si deve, con il primo ponte aereo della storia, il trasferimento dell’Armata d’Africa di Franco dal Marocco al sud della Spagna -, bombardieri “Heinkel 111” e “Junker 52”, ed i velocissimi “Messerschmitt 109” da caccia in grado di competere con i “Chatos” ed i “Rata” russi), fra cui quelli della Legione Condor, un’unità mista aerea e carrista che contava 6000 uomini, responsabile del bombardamento su Guernica, ed i cui carri armati riuscirono a contrastare validamente quelli russi.
A conflitto terminato essi trattarono con i nazionalisti con modalità di tipo più affaristico.
Così, alla fine, scrive Browne “i nazionalisti combatterono la guerra soprattutto a credito“ al contrario di quanto accadde, come vedremo, ai repubblicani con i loro compagni sovietici.
La Russia, oltre a provvedere al reclutamento dei volontari internazionali attraverso il “Cominform” e ad inviare 500 “consiglieri militari”, aveva costituito alla fine di agosto 1936, su ordine di Stalin, un apparato incaricato di spedire ai repubblicani spagnoli aerei, carri armati, autoblindo, artiglierie ed altre attrezzature militari cosicché la maggior parte degli equipaggiamenti dell’esercito repubblicano era russa.
Ma per il pagamento di queste forniture i sovietici, mettendo da parte ogni solidarietà si dimostrarono con i compagni spagnoli freddi, intransigenti e malfidenti, in stile con la peggiore mentalità commerciale capitalistica.
I primi aiuti militari dell’URSS (carri armati, autoblindo ed artiglieria) arrivarono ai repubblicani spagnoli il 15 ottobre 1936 nel porto di Cartagena (base militare della Marina repubblicana) a bordo della nave “Konsomol” solo dopo che un decreto del ministro delle finanze Juan Negrin, firmato dal Presidente Manuel Azana e mai sottoposto all’approvazione delle “Cortes” (il parlamento spagnolo) aveva autorizzato il trasferimento dell’oro della Banca di Spagna in Russia a garanzia del pagamento delle future forniture militari.
E nell’inserto-storia n.8 della “Domenica del Corriere” dal titolo “La guerra di Spagna” a firma Ricciotti Lazzero si legge che pochi giorni dopo arrivò a Cartagena, a capo di una missione composta da agenti segreti ed esperti militari e da Paul Allard, “colletto bianco” della pirateria finanziaria del Comintern, il generale russo Alexander Orlov che aveva ricevuto un ordine cifrato con il quale Stalin in persona gli ordinava di “disporre la spedizione delle riserve auree spagnole nell’URSS per mezzo di un piroscafo sovietico senza rilasciare sul posto alcuna ricevuta”. Egli provvide perciò a far caricare il tesoro su di una nave sovietica (la stessa Konsomol?) diretta a Odessa donde il prezioso carico fu trasbordato su di un treno che lo portò a Mosca.
Si trattava di 7800 cassette di legno tutte eguali contenenti 510.079 chili d’oro in lingotti e monete del valore di 1 miliardo e 582 milioni di pesetas dell’epoca costituenti il 78% del tesoro della Banca di Spagna.
In tal modo i sovietici si erano fatti pagare pronta cassa, in via anticipata ed anche, a quanto si dice, guadagnandoci sopra: fu infatti calcolato un divario contabile a favore della Russia fra il prezzo degli armamenti da essa forniti ed il valore dell’oro dato in pagamento.
Oltre a ciò, i russi, assieme a materiale bellico nuovo e moderno, rifilarono ai loro compagni spagnoli anche pezzi di artiglieria obsoleti ed armi portatili antiquate.
Scrive Adriano Bolzoni nell’articolo “1939: Morire a Madrid – Al resto pensò Stalin” che all’arrivo a Mosca del treno carico dell’oro spagnolo “”..Stalin offrì un sontuoso ricevimento e che tra le risate di tutti, Nikolai Yezhov – detto “Il nano sanguinario” - capo della polizia segreta e della NKVD disse, brindando:”Non rivedranno mai più il loro oro così come non vedono i propri orecchi.” “” Giovanni Zannini



mercoledì 12 ottobre 2016

UNA STRANA DIMENTICANZA DI CHURCHILL

Churchill di memoria ne aveva molta, moltissima, tanto da riempire ben 12 volumi sulla storia della 2a  guerra mondiale che gli hanno valso il Premio Nobel per la Letteratura 1953:  strano dunque che abbia dimenticato un'informazione  che, oltrettutto, gli fa onore.
La guerra fra Inghilterra e Germania è appena scoppiata il 3 settembre 1939 e già i tedeschi assestano agli inglesi un brutto colpo.
La potente "Home Fleet" britannica  è ormeggiata nella base di Scapa Flou, nelle isole Orcadi (Orkney), a nord  della Scozia, un'immensa baia protetta da una serie di isole  tra le quali esistono stretti canali  ostruiti con navi affondate per impedire l'accesso ad eventuali audaci incursori: la sua sicurezza è considerata massima.
Ma non è così  perchè alle 1,30 del 14 ottobre 1939 il sommergibile tedesco U  47 al comando del tenente di vascello Gunther Prien con un'audacia ed abilità eccezionali che tuttora suscitano  ammirazione, riesce a violare Scapa Flou.
Approfittando di un'eccezionale alta marea, nonostante il mare mosso e le violente correnti, imbocca  il canale  Kirk Sound, sguscia  fra le   navi affondate che non costituiscono, come dovrebbero, un'ostruzione insuperabile, e si trova indisturbato - nessun allarme è scattato -  al centro della base ove si eleva l'imponente  mole della corazzata "Royal Oak".
Il sommmergibile lancia un primo siluro che  colpisce la prua della grande nave senza arrecarle danni importanti e gli inglesi ritengono che si tratti di una deflagrazine dovuta ad un g uasto interno , ritenendo impensabile un'aggressione esterna.
Ma venti minuti dopo una  salva di tre o quattro siluri  colpisce  in pieno la corazzata che in meno di due minuti si capovolge e affonda trascinando con sè 800   fra marinai e ufficiali compreso il comandante contrammiraglio H.E.C. Blagrove.
L' U 47, indenne, si mette in salvo percorrendo al contrario  la  rotta seguita all'andata.
Il fatto ha un'enorme risonanza negativa in Inghilterra ed il governo decide di abbandonare la baia in attesa del suo rafforzamento dislocando le navi nei porti di Firthof Forth, Cromarty Firth, Firth of Clyde e Loch Ewe.
I lavori di rafforzamento sono conclusi in 6 mesi ed il 12 marzo 1940  lo stesso Primo Ministro accompagna la flotta che riprende  possesso della storica base.
Essi, effettuati per "porre riparo alle negligenze del tempo di pace" sono descritti dallo stesso Churchill.
Anzitutto, le tre entrate principali del golfo furono  difese da mine e reti e si  provvide a chiudere  con navi affondate (in aggiunta, evidentemente, a quelle , come visto, già colate a picco, alcune addirittura durante la  guerra 14/18)  il passaggio di Kirk  Sound attraverso il quale era penetrato il sommergibile tedesco. Oltre a ciò "una numerosa guarnigione armava la base e le batterie in  continuo aumento. Avevamo progettato di mettere in azione oltre 120 cannoni antiaerei, numerosi proiettori ed una linea di sbarramento di palloni aerostatici per avere il controllo del cielo nella zona di ancoraggio della flotta. Non tutte queste misure erano state completamente messe in atto ma le difese aeree erano già formidabili. Un incessante servizio di pattuglie  sorvegliava gli accessi al golfo ed una delle migliori installazioni Radar poteva in qualsiasi ora del giorno e della notte richiamare su Scapa Flou la protezione di due o tre squadriglie di "Hurricanes" dall'areoporto di Caithness".
Finalmente, conclude Churchill, ""la "Home Fleet" aveva una base. Era la famosa base da cui, durante la guerra precedente, la Marina di Sua  Maestà aveva dominato i mari"" e che vide, aggiungiamo noi, l'ecatombe della flotta tedesca che, terminata la 1a Guerra  Mondiale,  concentrata a Scapa Flou  in attesa della sua sorte,  nel dubbio di esser divisa fra le marine militari dei  vincitori preferì  autoaffondarsi cosicchè la formidabile base inglese  della "Royal Navy"  britannica divenne la tomba  di 54 unità su 74  della potente "Hochseeflotte",  la "Flotta d'altomare"  della marina tedesca.
Ed eccoci al punto della "dimenticanza" di Churchill  supportata, tra l'altro, da un opuscolo illustrante  un'opera altamente significativa:  la "Chiesetta italiana di Orkney " che costituisce, per la sua singolarità, una meta  per i turisti in visita alle  Orcadi. Il piccolo, grazioso manufatto, tuttora perfettamente conservato grazie ad un comitato locale che si occupa della sua manutenzione,  fu  costruito da prigionieri italiani catturati in Africa settentrinale e trasferiti nelle isole Orcadi (Orkney) per essere adibiti ai lavori  di rafforzamento della base di Scapa Flou ivi esistente.
Si legge, nel  suddetto opuscolo,   che i prigionieri italiani furono utilizzati per costruire una serie massiccia di strade rialzate  in  cemento , vere  e proprie dighe, per bloccare i   canali che  fra  isola ed isola portavano alla zona di ancoraggio della flotta, per evitare il ripetersi di "incidenti"  come quelli causati dal sommergibile tedesco del tenente Prien.
"Il metodo scelto - si legge ancora - fu quello di gettare sul  fondo del mare, da isola a isola delle massicce barriere di pietra e cemento.
La lunghezza totale  delle 4 sezioni della barriera è di circa due chilometri e mezzo. In certi punti la profondità dell'acqua era anche di 18 metri. Come  fondamenta  furono posate sul fondo  del mare più di un milione di tonnelllate  di pietra e roccia, e sopra queste furono costruite le strade rialzate. Esse furono realizzate con 66.000 enormi blocchi di cemento che pesavano da  5 a 10 tonnellate l'uno.  Questi blocchi sono collocati in posizioni diverse lungo entrambi i lati della barriera  in modo che i loro spigoli  ed i loro interstizi  impediscano che la marea invada la strada che ci corre sopra".
L'immane impresa  è documentata, nel fascicolo relativo alla chiesetta italiana di Orkney, da un dipinto di Domenico Chiocchetti, l'artigiano dotato di uno spiccato senso artistico che partecipò a quei lavori e che fu il promotore della costruzione della chiesetta effettuata con rottami ed altro materiale di scarto della costruzione  delle dighe.
Esse furono denominate e sono tuttora conosciute come "Barriere Churchill".
Ebbene, di queste "barriere" che portano il suo nome e che attestano la sua  inventiva e la sua intraprendenza, Churchill,                
nella sua opera citata "La seconda Guerra Mondiale", non parla proprio.
Per evitare il protagonismo, o per semplice dimenticanza?

Padova 12.X.2016                                                                Giovanni Zannini
                                                                                                                                                           
                                                                                                                                                                     

martedì 27 settembre 2016

NEVILLE CHAMBERLAIN INGLESE ACCOMODANTE COMBATTENTE CORAGGIOSO

Ve lo ricordate quel signore inglese alto e allampanato, sempre vestito di scuro, con  l’immancabile ombrello al braccio?. Neville Chamberlain fu l’uomo politico inglese protagonista della vita politica internazionale negli anni che precedettero l’ultimo conflitto mondiale. Presidente del Consiglio dei Ministri inglese, si prodigò con tutte le sue forze per scongiurare una guerra che incombeva minacciosa sull’Europa.  Accusato di debolezza nei confronti della Germania, nulla lasciò di intentato per impedire che Hitler mettesse in atto i suoi piani criminali e, se in effetti manifestò eccessiva condiscendenza per il dittatore tedesco, dimostrò d’altra parte una pazienza ed una tolleranza che evidenziarono l’esclusiva responsabilità tedesca nello scatenamento dell’ immane conflitto.
Nella sua monumentale “La seconda guerra mondiale”, l’opera che gli valse il premio Oscar 1953  per la letteratura, fonte inesauribile di informazioni poco note,  Churchill trova il modo di inserire interessanti notizie  sulla vita di questo personaggio cogliendo l’occasione da una cena da lui  – allora Lord dell’Ammiragliato – e dalla moglie offerta nel novembre 1939  a Chamberlain – allora Presidente del Consiglio dei Ministri inglese -  e consorte.
Racconta dunque che Joseph Chamberlain, ricchissimo e intraprendente uomo d’affari inglese, si  dedicò nel 1890, con i figli Austen e Neville ad un progetto di coltivazione dell’agave “sisalana”  - pianta grassa della famiglia delle Amarillidacee, assai comune nel sud-italia, dalla quale si ricava una resistente fibra tessile - per trarne vantaggi per sé e per arricchire, contemporaneamente,  l’industria dell’Impero  inglese. Individuò il luogo ove tentare la coltivazione intensiva dell’agave tessile nell’isola di Andros, nell’Oceano Indiano,  piccola e spoglia, nel golfo dei Caraibi, a circa 40 miglia da Nassau e ne acquistò la metà affidando l’impresa al figlio Neville.
Questi, e per obbedienza verso il padre, ma anche convinto della bontà del progetto, si dedicò con la massima dedizione, per ben sei anni, all’impresa. E  sorprende pensare a questo uomo che diverrà un personaggio di governo molto stilè ed inappuntabile,  confinato, in gioventù, solo, su di un’isola semideserta, a combattere, seminudo, contro uragani tropicali ed avversità di ogni genere. Tentò di attrezzare la piccola isola costruendo un piccolo porto ed una breve ferrovia. Ma l’agave non attecchiva, nonostante l’impiego massiccio di fertilizzanti che si dimostrarono inefficaci: e dopo sei anni di vita primitiva si arrese, tornando dal padre che manifestò apertamente la sua disillusione per il fallimento dell’impresa. Conclude Churchill:” …Mi parve di comprendere che il tenero amore di cui fu sempre oggetto da parte della sua famiglia fosse velato da un senso di rincrescimento per la perdita di 50.000 sterline”: perdita che, anche se sommessamente, qualcuno non mancò forse di addebitargli.
E sempre da Churchill apprendiamo anche la fine di quest’uomo che, dopo avergli  passato la mano di Primo ministro, conservò fino alla morte l'incarico di Lord Presidente del Consiglio. Egli ricorda i disagi che, durante i bombardamenti di Londra,  Chamberlain, affetto  da un tumore al colon-retto,  doveva affrontare,  per recarsi alle sedute notturne del Gabinetto che si tenevano nel salone di guerra, nel sottosuolo dell'Annexe, fra squadre di operai che mettevano in opera il necessario per rinforzare gli uffici sotterranei.
Scrive Churchill: "" Una sera, verso la  fine di settembre 1940, nel guardar di sulla soglia di Downing Stteet, vidi alcuni operai ammucchiare dei  sacchetti di sabbia davanti alle basse finestre degli scantinati  del " Foreign Office" di fronte a me. Avendo chiesto che cosa stessero facendo,  mi sentii rispondere che dopo l'operazione, Neville Chamberlain doveva sottoporsi a speciali cure periodiche  e che era una cosa imbarazzante sottostarvi nel rifugio del n.11  dove almeno una ventina di persone si rifugiavano durante le continue incursioni ; perciò si stava allestendo per lui un piccolo ricovero privato là sotto.Ogni giorno egli manteneva tutti i suoi impegni  riservato, attivissimo, impeccabilmente abbigliato. Ma questo era troppo. Ricorsi alla mia autorità. M'avviai per passaggio fra il n.10 e il n.11 e trovai la signora Chamberlain. Dissi:" Non deve restare qui nelle condizioni attuali. Dovete condurlo via fino a che non si sia ristabiito. Gli manderò ogni giorno tutti i telegrammi  che vorrà". Ella si recò dal marito. Un'ora dopo mi fece sapere i risultati : "Farà come volete. Partiamo questa sera". Non lo rividi più. Meno di due mesi dopo mancava. Sono certo che egli volesse morire sulla breccia. Non sarebbe stato giusto"".
Immaginatevi un uomo operato di tumore al colon retto in fase terminale accudito per le necessarie medicazioni e quant'altro in un rifugio antiaereo, alla presenza di una ventina di persone, mentre cadono le bombe.  
Un esempio, per tutti, dei milioni di londinesi che nel 1940, sotto spaventosi bombardamenti seppero dare una prova così alta di coraggio e di resistenza che altamente li onora.    
                                                                                                                       Giovanni Zannini

domenica 29 maggio 2016

PENSIERI SULL'ENCICLICA "BEATO SI" - Cap.II - Il Vangelo della creazione

Questo capitolo può dividersi in due parti: la prima che va dal punto 62 al punto 88, descrivendo l'universo, e che costituisce una premessa di ordine filosofico ;  la seconda,  didattica, dal punto 89 alla fine, che da tale premessa trae insegnamenti di ordine sociale.

Parte prima
Il mondo viene considerato sotto un aspetto nuovo ed inedito: non come un agglomerato confuso e indistinto di esseri, ma come l'insieme ordinato  di creature aventi ciascuna la propria personalità che non possono essere sottoposte  all'arbitrario dominio dell'essere umano.
Perchè, scrive il Papa, tali creature “...hanno un valore in sé stesse. Ogni creatura ha una sua propria bontà e la sua propria perfezione per cui l'uomo deve rispettare la bontà propria di ogni creatura”. E se non lo fa, reca offesa a Dio, che tale creatura ha creato, e genera confusione in terra.
L'insieme di queste creature costituisce – scrive il Papa - la natura “che è una continua sorgente di meraviglia e di reverenza” e che, assieme alle Scritture, manifesta l'esistenza e la magnificenza di Dio”.
Tutto il creato è in continua evoluzione perchè il creatore ha rinunciato a creare un mondo perfetto e completo in ogni sua parte per stimolare l'uomo a collaborare con lui alla creazione.
Essa costituisce il passaggio dalla potenza all'atto e consente all'uomo di proseguire, pur fra dubbi, cadute ed errori provocati dal peccato, l'azione creatrice iniziata da Dio, dal momento che – sono parole del Papa - “dal grembo stesso delle cose germoglia sempre qualcosa di nuovo”.
Ecco dunque che le odierne scoperte sensazionali dei nostri scienziati sono solo tappe verso la perfezione che si verificherà  alla fine dei tempi. Allorchè una persona della Trinità, Cristo, il Figlio, inserito in modo nascosto nell'insieme della realtà naturale, consegnerà al Padre – conclude il Papa - tutte le cose rese perfette dal progredire del tempo.

Parte seconda
 Ciò premesso, il Papa detta alcune norme che si richiamano alle encicliche sociali. Egli richiede anzitutto  “una preoccupazione per l’ambiente  unita al sincero amore per gli esseri umani e un costante impegno riguardo ai problemi della società”. Ed invita i cattolici a tenere un atteggiamento attivo,  a prodigarsi perché questa creazione che è divina venga difesa da chi vuole impossessarsene egoisticamente. Infatti,  “…le creature di questo mondo non possono essere considerate un bene senza proprietario…perché la terra è essenzialmente una eredità comune i cui frutti devono andare a beneficio di tutti…”. E prosegue:”…ogni approccio ecologico  deve integrare una prospettiva sociale che tenga conto dei diritti fondamentali dei più svantaggiati” spiegando che “la Chiesa difende sì il legittimo diritto alla proprietà privata, ma insegna anche con  non minor chiarezza che su ogni proprietà privata grava sempre un’ipoteca sociale” destinata ad “impedire che i benefici dell’ambiente  vadano a vantaggio soltanto di alcuni pochi”. Perché “…L’AMBIENTE E’ UN BENE COLLETTIVO, PATRIMONIO DI TUTTA L’UMANITA’ ” e “CHI NE POSSIEDE UNA PARTE  E’ SOLO  PER AMMINISTRARLA  A BENEFICIO DI TUTTI”.  Io penso,  in proposito, alle  enormi ricchezze naturali del continente africano i cui benefici vanno quasi esclusivamente a vantaggio di capitalisti ex coloniali e di capi di stato corrotti lasciando alle popolazioni solo le briciole dei loro immensi guadagni. Non è questo un vero e proprio “furto di beni ambientali?” Mentre ritengo interessante, in contrasto con quanto sopra, riferire le informazioni rese da  un missionario italiano in occasione di una riunione indetta dalla padovana “S.O.S. - Solidarietà, Organizzazione, Sviluppo” presieduta da Sonia Mansutti, che si occupa di aiuto ai paesi africani. Egli affermava  che il comportamento dei cinesi i quali, come noto,  si stanno espandendo in Africa, è molto più corretto, riconoscendo il giusto compenso dei loro affari agli indigeni che se ne dimostrano molto soddisfatti.
Ritengo che sia questo  un ottimo esempio di buona “politica ambientale”
   
Padova 19.5.2016                                                                          Giovanni Zannini
   

FINALMENTE PAROLE CHIARE SULLE MIGRAZIONI

Nel caos delle opposte opinioni sul fenomeno migratorio in atto da anni, dall’accoglienza indiscriminata alla reazione più becera, costituisce un punto fermo e chiaro la lettera inviata dal Presidente del Consiglio dei Ministri italiano Matteo Renzi al Presidente del Consiglio Europeo Donald Tusk ed al Presidente della Commissione Europea Jean-Claude Juncker. Essa accompagna un allegato definito “Migration compact” (“Patto sulle migrazioni”),  che l’Italia propone all’Europa per gestire l’imponente fenomeno migratorio in atto e, oltre a ciò, per scongiurare una crisi che minaccia la stessa Unione Europea “in rapporto alla tenuta di Schengen ed al principio di libera circolazione”.
Esso afferma che il fenomeno degli emigranti cosiddetti “economici” (fermo il dovere di accogliere, dopo gli opportuni controlli,  i “rifugiati”  che richiedono “rifugio” in Europa fuggendo da guerre ed altre violenze per motivi politici o religiosi ) va affrontato e risolto  a monte eliminando le cause prime che lo generano, e non con accoglienze generalizzate - sia pur dettate da ammirevoli pietà e carità cristiana - che invece aggravano il fenomeno illudendo gente disperata che,  pur a rischio della vita, l’approdo in Europa costituirà il toccasana per una esistenza migliore. Mentre, al contrario, salvo rare eccezioni, sarà per i nuovi arrivati  l’inizio di un’esistenza grama in campi di raccolta disagiati, a contendere ai residenti pochi posti di lavoro, o languire nell’ozio e nell’incertezza del domani,  oggetto sovente di sfruttamento da parte di persone di pochi scrupoli o, peggio, tentati di aderire all’IS, il terroristico stato islamico  
Meglio, molto meglio, qualche doloroso esemplare caso di respingimento e di rimpatrio forzato – ammorbidito magari da un “kit” di doni che attenui la rabbia dei respinti – atto a scoraggiare altri disperati dall’intraprendere  una strada carica di pericoli per sé e per gli altri.
Ma, attenzione!: tutto questo sarebbe criminale se non fossero contemporaneamente disposti  aiuti a quelle nazioni, soprattutto africane, da cui proviene la massa dei migranti consentendo loro di intraprendere, volendolo,  la via dell’emigrazione ma in maniera ordinata ed assistita.        
Per questo l’Italia propone all’Europa, con il “Migration compact”, di istituire un “Fondo Europeo per gli investimenti” a favore dei paesi africani  avente lo scopo di finanziare attività economiche e di attrarvi  investitori stranieri. A condizione però  che essi controllino le frontiere, contrastino l’attuale caotico flusso  migratorio, cooperino in materia di rimpatri/riammissioni ed alla lotta  al criminale traffico di  esseri umani.
Senza dimenticare la possibilità di far pervenire gli aiuti  direttamente a quella infinità di Onlus, grandi e piccole,  operanti in Africa, certamente più affidabili di enti governativi talora infidi e corrotti,  e l’opportunità di mobilitare  le rappresentanze diplomatiche europee esistenti in loco.  
Oltrettutto,  potrebbe essere questa l’occasione per la languente economia europea di rianimarsi investendo  in Africa con una specie di nuovo “Piano Marchall ” che, se nel  dopoguerra contribuì alla  rinascita dell’Europa, assicurò  nello stesso tempo agli americani  notevoli benefici: come dire che  un’economia ispirata dalla generosità è in grado di produrre  buoni frutti.                                                                                                                                                                                 

Padova 29-5-2016                                                                                   Giovanni Zannini

venerdì 20 maggio 2016

Il colera del 1835 a Torino - LE PROSTITUTE OTTIME INFERMIERE

Il libro “Il giornale degli anni memorabili” edito da Cino del Duca Editore nel 1960  raccoglie le lettere scritte da Costanza d'Azeglio (n.1793 +1862 – moglie di Roberto d'Azeglio, fratello maggiore del più noto Massimo) al figlio Emanuele poi divenuto ambasciatore del Regno Sardo a Pietroburgo, Londra ed altre capitali europee,   dal 1835 alla morte.
Esse costituiscono la cronaca di molti avvenimenti accaduti nel periodo (siamo in pieno Risorgimento e molti sono i riferimenti a personaggi illustri come Cavour, Garibaldi, Carlo Alberto, Vittorio Emanuele, Napoleone III, Massimo d’Azeglio,  ed in particolare Silvio Pellico che incontra sovente ) emergenti con particolari  poco o per nulla noti.
Fra questi molti episodi relativi all’epidemia di colera che nel 1835 colpì il Piemonte, ed in particolare Torino - ove la Costanza risiede - provocando migliaia di vittime.
L’autrice nella corrispondenza con il figlio elogia anzitutto il comportamento esemplare di suo padre,  Roberto, medico, che si prodiga senza risparmio per la cura dei malati, occupandosi anche di fornir  loro  i conforti religiosi, senza preoccuparsi del pericolo sempre incombente del contagio, provvedendo addirittura, in un caso, a trarre egli stesso dal letto tre  cadaveri che gli  infermieri si rifiutavano di toccare, riuscendo con il suo esempio a convincerli a riprendere il loro servizio. Ed anche, rifiuta di trasferirsi nell’ospedale a pagamento restando al lazzaretto “perché non  vuole abbandonare i più sventurati”.
Descrive quanto si fa per arginare il flagello, i lazzaretti miserabili (ma c’erano, anche allora!, gli ospedali per paganti) , e con particolari spesso orripilanti, le  condizioni,  l’aspetto dei malati, e le cure empiriche loro applicate come l’ Anticolera - ma non si capisce di cosa si trattasse - poi la magnesia,  lavaggi d’acqua calda e giallo d’uovo,  l’acqua di camomilla (nel colera di Parigi, ricorda, “fu distribuita a fiumi”) e quella di riso
Ma, soprattutto, il terrore del contagio che si diffonde fra  gli infermieri che talora si rifiutano di assistere i malati. A Cuneo, addirittura, ad un certo punto non se ne trovarono più e allora  il Vescovo ricorre ad un tentativo dettato dalla disperazione: trasformare le prostitute in infermiere.
Il tentativo ha pieno successo e, scrive la Costanza, “le prostitute si sono dimostrate  le infermiere più attente e più devote. Non è mai stato possibile rimproverarle”, concludendo che, evidentemente, per la salute delle loro anime il buon Dio ricava profitto anche dal colera.
Da parte sua, per risolvere la crisi, il marito di Costanza, a Torino,  si rivolge ad una certa Commissione Superiore per ottenere l’autorizzazione ad impiegare come infermiere le suore le quali “pareva che non aspettassero altro che l’onore di prodigarsi”. Ma siccome la Commissione tira in lungo, la stessa Costanza rompe gli indugi  e porta nel lazzaretto due suore “che hanno subito cominciato la loro opera passando la notte a vegliare i malati e guadagnandosi l’ammirazione di tutti…Una certa suora Angelica può dirsi l’Angelo tutelare dei malati…e si sacrifica senza stanchezza”.   
Ma tanta buona volontà ed abnegazione trovano un grave ostacolo nell’ignoranza e dalle dicerie del popolino che invitano  i malati a non ricoverarsi nel lazzaretto ove verrebbero uccisi con il veleno. Addirittura, le malelingue parlano di premi che verrebbero erogati agli avvelenatori: “il marchese di Rorà avrebbe dato  seimila franchi  per ottenere  uno stermino di poveri; il marchese di Barolo  pagherebbe venti franchi ai medici per ogni malato che riescono a uccidere” e, addirittura, il Re ne pagherebbe, a tale titolo,  ben duecento!
Non mancano, fra tante brutture  (addirittura, “un uomo colpito dal colera è stato gettato nella calce ardente prima ancora che fosse spirato”), casi strani disinvoltamente riferiti dalla nobildonna al figlio, che francamente muovono il riso.
Come “la cuoca di casa Baldissè” che, ai primi sintomi del male, si rifiuta di essere curata  dai padroni per la paura di essere avvelenata,  e si fa assistere dai fratelli “che sono poi rimasti padroni di tutta la casa” poiché i Baldissè “pensarono bene di andarsene addirittura” : ma la cuoca ci lascerà egualmente la pelle.
Viene poi citato il caso di “un giovinastro che restò colpito nella casa della sua donna” la quale invece di chiedere soccorso corre a comperare una bottiglia di “vermuth” del quale “il suo giovanotto ne trangugiò qualche bicchiere. E’ morto la mattina”.           
Peggio capitò ad un altro giovane che, rientrato a casa la sera, aveva invano bussato affinchè gli aprissero e poi, spazientito, si era diretto all’altro portone vicino al suo che era quello di una casa di piacere che non ebbe difficoltà ad accoglierlo. Ma, scrive la Costanza, “si era appena disteso sul letto   con due di quelle donne da strapazzo, che” gli venne male e  rimase come fulminato. Il colera lo aveva abbattuto…Le donne si dettero da fare, una a gridare aiuto, l’altra a pregare. Ma il giovanotto era intanto spirato”. E male ne incolse anche ad un certo marchese B. di Savignano il quale “dopo non so quale orgia, ha preso il colera ed è morto”.
Mentre la paura del colera spinse un certo “bandito di Caramagna sul quale pendeva una grossa taglia, a farsi portare da due persone della banda e da una ragazza nel lazzaretto di Torino ove morì”. Ma male andò anche ai suoi accompagnatori che, arrestati,  dopo gli accertamenti  per stabilire  che non fossero pur essi malati, vennero mandati  in prigione.
Naturalmente, la paura del morbo riattizza sentimenti dimenticati:”…Ho visto nella chiesa dello Spirito Santo il Cristo miracoloso che vi hanno esposto. Molta gente accorre a pregarlo. Piovono le offerte. Il Cristo ne è tutto ricoperto. E penso che ci si comporta un po’ meglio da qualche tempo”.
Peccato che per ottenere ciò occorra proprio un’epidemia di colera.

Padova 11.05.2016                                                                             Giovanni Zannini  


giovedì 7 aprile 2016

A QUANDO UN "CONCILIO MUSULMANO?"

Sono noti i dubbi provocati  dalla lettura del Corano.
In alcuni “versetti”, ad esempio,  si esprimono concetti condivisibili a proposito della tolleranza verso chi professa altre religioni monoteiste (“versetto” 62:”coloro che credono , siano essi giudei, nazareni o sabei, tutti coloro che credono in  Allah  e nell’ultimo giorno e compiono il bene, riceveranno il compenso verso il loro Signore);   ma, contemporaneamente, sullo stesso libro sacro dell’Islam si leggono  versetti che incitano alla violenza (“li annienti Allah“) contro i “miscredenti” (“versetti” 29, 30 e 123). 
Tutto ciò provoca perplessità fra gli stessi credenti musulmani bombardati da “pezzi” violenti  del Corano che secondo alcuni  rappresentano l’autentico pensiero dell’Islam.
Tale situazione è conseguenza del fatto che il Corano non è mai stato sottoposto ad una revisione che elimini le parti frutto di una mentalità barbarica di altri tempi ormai superata e non più sostenibile.
Revisione che è  invece avvenuta nel cristianesimo grazie a Gesù che ha saputo eliminare le storture di cui era pure ricco l’Antico Testamento donando al mondo un Vangelo che tuttora, a distanza di secoli, costituisce la guida per milioni di cattolici ed un testo che anche i non cattolici onorano e rispettano.
L’Islam, purtroppo, non ha avuto un Cristo musulmano in grado di eliminare quelle parti del Corano anacronistiche perché rispecchianti tempi lontani superati dalla civiltà e dal progresso, lasciando però inalterato il suo patrimonio religioso, etico e culturale.
E allora,  perché non auspicare un congresso, un “Concilio” di tutti i musulmani i quali, dando prova di maturità culturale, a seguito di un franco, approfondito dibattito, dicano finalmente non solo ai loro fedeli, ma a tutto il mondo che attende tale chiarificazione,  se l’Islam è la religione pacifica e illuminata predicata da Ahmad al-Tayyb, il grande Imam  dell’Università cairota di al-Azhar, la più importante istituzione dell’Islam sunnita, oppure un manuale di istruzioni per combattere la guerra agli infedeli predicata dai tagliatori di teste dell’ISIS?


Padova 7 aprile 2016                                                      Giovanni Zannini    

UN CASO DI BUONA POLITICA: ELSA FORNERO

La politica, da molti, troppi, considerata attività coltivata per ambizione,  per prebende, per intrallazzi, in una parola, “sporca”, costituisce,  invece,  il mezzo con cui l'uomo onesto pone le proprie competenze  a disposizione della società in cui vive, ispirato da sentimenti altruistici e non da interessi personali: non per nulla si dice che essa è la più alta forma di carità.
Ne deriva che l'uomo politico,  rispondendo alla  sua coscienza, deve essere disposto  ad affrontare l'impopolarità qualora provvedimenti da lui ritenuti utili e necessari alla società  possano nuocere  al suo futuro, in altra parole, alla sua carriera.
E' questo il caso della prof. Fornero, ministro del gabinetto Monti, la quale, convinta della necessità  di dover adottare duri provvedimenti per salvaguardare  il sistema pensionistico italiano, ad avviso suo, e di molti altri, in grave pericolo, non ha esitato, anche a costo di qualche lacrima,  a proporre una legge che porta il suo nome e che ha provocato dure reazioni.
Non si intende qui discutere sulla bontà o meno di quel provvedimento, ma evidenziare il comportamento di un  ministro che, pur consapevole che esso avrebbe nuociuto alla sua popolarità, non ha esitato a sacrificarsi proponendolo, firmandolo e sostenendolo in parlamento.    
Da allora essa è stata oggetto di polemiche accese, di accuse pesanti, di calunnie e, spesso, di insulti, e considerata capo di quella reazione sempre in agguato contro i diritti del popolo.
La prof.Fornero, da parte sua, è rientrata, come si dice, nei ranghi della vita quotidiana e pochi si ricordano di lei, ma ci auguriamo che altri politici siano disposti, all’occorrenza, ad anteporre gli interessi della società a quelli loro personali.

Padova 6-4-2016                                                                        Giovanni Zannini

martedì 5 aprile 2016

MAZZINI UOMO "DI CARNE E DI OSSA"

Se molto si è parlato e si parla degli amori di Garibaldi, minor  risonanza hanno avuto quelli di Giuseppe Mazzini.
Eppure esiste chi ricorda “le storie sentimentali che pure affollano il cammino della sua vita di uomo di carne e di ossa” come Bruno Gatta nel suo “Mazzini una vita per un sogno” dal quale sono tratte molte delle notizie di seguito riportate; o Gabriele Gasparro che,  in un libro di cucina nel quale -  argomento sin qui poco trattato -  descrivendo  i suoi gusti peraltro molto parchi,  afferma che egli “amava la musica, componeva canzoni, suonava la chitarra  che portò con sé in esilio” aggiungendo che “il fascino femminile lo trovò sensibilissimo sin dalla giovane età” e che “i suoi amori  lo conforteranno molto nelle ore tristi”. Aggiungendo che “a Londra era circondato da un vero e proprio circolo femminile che egli chiamava scherzosamente il suo “clan”. Lo curavano, lo servivano, lo coccolavano e lo ascoltavano rapite”.
Fra queste Francesco Fumara nel suo “Donne e amori di Mazzini” cita le sorelle Ashurst, le sorelle Mandrot, Jane Carlyle, Matilda Biggs; e  Paolo Di Vincenzo (de “Il Centro” di Pescara, in un articolo su Internet), Clementine Taylor, le sorelle (ancora!) Winlworert, Margherita Fuller, Arethusa Miller, Jessye Meriton, Sarah Nathan, senza chiarire peraltro se con alcune di esse sia stata  semplice amicizia, e con altre si sia, invece, trattato di un’  amicizia che,  con un eufemismo, s’usa  oggi definire   “affettuosa”.  Fu certamente tale il rapporto, durante l'esilio in Francia,  con la nobildonna Giuditta Bellerio Sidoli - vedova del patriota Giovanni Sidoli - dalla quale si dice abbia avuto un figlio morto a soli tre annni. 
La cosa è complicata dal fatto che nell’ 800 si usa spesso la parola amore nel senso di affetto, amicizia, come quando, ad esempio,  uomini di sicuro genere mascolino chiudevano la loro corrispondenza con gli amici (e questo mi aveva, francamente, sorpreso)  con frasi tipo “Il tuo…che ti ama” o, addirittura, “Amami come io ti amo”.
Comunque sia, la fortuna con il gentil sesso “ammaliato dalla sua profonda cultura,...da una piacevole figura e dal suo affascinante colloquiare” (così il sopra citato Paolo Di Vincenzo) sorprende lo stesso Mazzini che non sa darsene ragione, dal momento che, molto onestamente fa di sé una descrizione che non parrebbe  la più idonea ad attrarre l’interesse femminile.
”…Le donne ch’io ho conosciuto – scrive alla madre  -  hanno quasi tutte presa una grande simpatia per me; simpatia tanto più strana ch’io non ho nulla di quel che va a genio alle donne: vesto male, negletto come quando ero a Genova e più se occorre: fumo sempre e in conseguenza chi m’avvicina  può facilmente avvedersene: non so parlare di cosa alcuna che di vera; non sono galante, rovescio per la più ciò che tocco…”. Alla fine, si dà lui stesso la ragione di questo successo piuttosto anomalo :”..Circondate come sono sempre le donne da uomini continuamente ma superficialmente galanti  e devoti ,  esse simpatizzano con chi si  mostra loro  siccome una novità”.
Se poi vogliamo fare un raffronto, sul piano sentimentale, fra Garibaldi e Mazzini, possiamo dire che  il primo, con le donne,  era piuttosto spiccio e qualche volta, diciamolo, anche di bocca buona,  mentre il secondo era piuttosto raffinato, coltivando i suoi sentimenti -  talora molto combattuti, fra ripensamenti e sensi di colpa  - solo con donne di un certo ceto, colte e talora aristocratiche.    
Nel suo comportamento emerge soprattutto il contrasto  fra un serio  desiderio d’amore, ed  un inflessibile senso del dovere, uno  sfrenato attaccamento alla propria  libertà  che lo spingono a dedicarsi esclusivamente  alla lotta politica, con tutta la sua imprevedibilità ed i suoi molti rischi che,  collidendo con il primo, gli impediscono  di realizzare una serena vita familiare che pure considera ideale.    
E’ di ciò chiaro esempio il rapporto, fondamentale nella sua vita affettiva, intercorso con Giuditta Bellerio, figlia  del barone Andrea  magistrato nel regno italico, e vedova del carbonaro  Emilio Giovanni Sidoli di Reggio Emilia con il quale aveva condiviso, nel ducato di Modena, le battaglie per il riscatto dell’Italia. Ricercata per tale sua attività  rivoluzionaria, si pone in salvo a Marsiglia ove nel 1932 avviene l’incontro con Mazzini  a sua volta esiliato dal  Regno di Sardegna dopo che  a Genova era stata scoperta la sua attività di carbonaro: e scoppia l’amore.
Intenso, romantico, carico di sentimentalismo   evidente  nelle lettere dell’uomo all’amata, ove trovano luogo i più classici ingredienti  della corrispondenza amorosa, il desiderio, i baci appassionati al medaglione che la ritrae, la ciocca di capelli  che porta sempre con sé, la promessa di un amore infinito, frasi come “Tu sei un angelo, tu sei sublime per me” e così via. Lei ricambia con pari passione (ne nasce anche un figlio che muore a soli tre anni), ma la  concreta soluzione di un matrimonio, che lei sollecita, (e che anche la madre di lui, solitamente ascoltata consigliera, appoggia), ottiene una dura risposta: non può, la patria italiana e repubblicana lo chiama.
Lei, risentita,  gli scrive:”…Mi mostri qualcosa di troppo  serio, qualcosa che mi fa anche ridere, non ti incresca. Io leggo nel tuo cuore, so che di là partono le tue parole, amo, apprezzo il sentimento  che le detta ma non posso impedirmi di dire: eccolo là, sempre quello, facitore di poesia, di amore, in tutto quello che di vero, di sensibile nell’anima, ma sfuggendo sempre alla realtà della terra”: e tutto finisce.
E che dire delle passioni amorose che -  talora involontariamente, ma non sempre - l’esule italiano accende nelle famiglie che lo accolgono, suscitando talora qualche sconquasso? 
A Losanna,  in casa dell’avv.Giovanni Mandrot aveva addirittura provocato una vera eruzione vulcanica di passioni nel cuore della moglie Louise (o Lisette), e pure di tre delle sue cinque figlie, Caterine, Maria ed Elisa. Cosicchè, allorchè Mazzini  lascia la Svizzera per Londra, la Maria non esita a dichiarargli il suo amore e ne nasce una corrispondenza con la quale  Mazzini, delicatamente, la informa di non poterlo corrispondere. Ma siccome la fanciulla  non si dà per vinta,   prega il comune amico Luigi Amedeo Melegari lui pure patriota   esule a Losanna,   rimasto sul posto,   di convincerla che non c’era niente da fare. Resta da dire che la conclusione   di questo “affaire” amoroso fu certamente singolare perché  il Melegari, dopo aver spento  l’incendio  della fanciulla per Mazzini, prese fuoco a sua volta per lei,  e se la sposò.
Durante il suo soggiorno in Inghilterra, che fu la sua seconda patria, l’esule italiano ebbe rapporti di grande amicizia con l’avv.William Henry Ashurst, la moglie di lui, il figlio William  -  che fu banchiere di Garibaldi -   e le  tre sorelle Elisa, Emilia e Carolina “tutte –scrive sempre Paolo  Di Vincenzo – innamorate di lui” anche se  Mazzini afferma che, per quanto lo riguardava, si trattò di  semplice amicizia. Sta di fatto che Elisa, l’unica nubile, s’infatuò perdutamente e “non ricambiata condusse una vita errabonda finendo per sposare un operaio francese morendo poi giovanissima”.
“Emilia – prosegue di Vincenzo  –  che pare fosse la prediletta, intrattene con lui una fitta corrispondenza, ma quando venne in Italia per incontrarlo conobbe un ufficiale garibaldino (evidentemente assai più fascinoso  di Mazzini – ndr) che sposò dopo aver ottenuto il divorzio dal marito inglese”.
Infine, anche la Carolina,  sebbene sposata -  sottolinea lo stesso autore - ebbe una lunga  relazione epistolare con Mazzini interrotta  solo dalla sua morte.
Ma dove emerge in  modo assai evidente il singolare modo di Mazzini di  manifestare la propria affettività sempre sul filo del rasoio fra amore ed amicizia, è nel rapporto instauratosi a Londra nel 1837                       fra lui e Jane Carlyle,   moglie di Thomas, critico e scrittore scozzese che accolse con molta cordialità nella sua casa l’esule italiano  da lui ritenuto “…uomo di chiara intelligenza e di nobili virtù, pieno di musicalità…un po’ lirico per natura “. Le frequenti visite di Mazzini nella sua casa  di Cheyne Row, a Celsea, favorirono il nascere di una profonda amicizia fra lui e Jane, che non insospettì affatto il marito  Thomas  un  po’ distratto perché,  scrive Gatta, “sentimentalmente indaffarato  con tal Lady Harriet Baring…”.
Ad asserire che di sola amicizia si trattava,  bella e sincera,  è Mazzini nelle sue frequenti lettere alla madre, sua confidente e fidata consigliera. Dopo averle descritta Jane (… ancora giovine, non bella, non brutta, occhi e capelli neri, magra, piuttosto alta, vivace…) l’assicura “affinchè l’esser ella ancor giovine  non vi faccia sospettare oltre il  vero, ch’io non l’amo  se non come sorella  per le eccellenti qualità del suo cuore, per l’amore che porta al paese mio  ed alle mie idee…Essa pure, benché forse m’ami  più ancora  ch’io non l’amo, m’ama come sorella, d’amicizia donnesca, esaltata, ma pur d’amicizia…”.
Successivamente, però,  con la lettera 19 marzo 1840 sempre diretta alla madre, parlandole  di Jane, premesso che “non ho quasi in nulla svelata  la mia natura con lei”   ammette che “v’è una strana simpatia  che l’attira verso di me, e mi pare ch’essa stimi il mio cuore più che la poca conoscenza diretta”: insomma, si accorge che l’altra si è innamorata di lui, mentre lui insiste a considerarsi solo ed esclusivamente suo amico, giungendo a sconsigliarla di abbandonare, come lei vorrebbe, per le sue ripetute infedeltà, il marito.
E  che  per Jane quell’amicizia fosse  amore vero, di cuore e pure  di sensi, emerge da una sua lettera alla madre di lui :”…”Ama il martir d’Italia”. Non bisogna comandarmelo!...Non posso far altro!...Oh! se voi sapeste come l’amo”; ed a questo punto  una frase non chiara, forse dovuta alla modesta conoscenza dell’italiano, ma che può essere interpretata come audace, incredibile, esplicito desiderio di amore concreto:”Non “bisogna”, dico, ma mi goda!”.
A suscitar sospetti sul tipo di rapporto intercorso fra i due, stanno le  romantiche passeggiate londinesi che li portano  sul punto più elevato di Londra, sulla cupola della cattedrale di S.Paolo, ove rimangono soli, (lo scrive lui alla madre) per tre quarti d’ora in mezzo ad un vento diabolico.
Oppure, di notte, nel mezzo di un ponte sul Tamigi, ove rimangono una diecina di minuti ad osservare il fiume e le imbarcazioni “tra l’umido  e un vento  rabbioso e freddissimo che urlava d’intorno a noi” (e sappiamo pure che lui aveva, in quell’occasione, il mal di denti che, forse per la violenta reazione causata dal vento e dal freddo, il giorno dopo, come d’incanto,  era sparito).
Bruno Gatta, nella sua opera più volte citata, si chiede se questa  “liaison” sia stata o no solo platonica. E noi pure  ci chiediamo se fra i due,  oltre a scarpinare sugli scalini della cupola di S.Paolo, o ad osservare di notte, da un ponte, il Tamigi, vi sia stato  un rapporto meno freddo del vento che, ostinatamente,  accompagnava, a Londra,  i loro incontri.


Padova 5.4.2016                                                                                                          Giovanni  Zannini                                                                                                      

mercoledì 30 marzo 2016

L'intervento dell'italia nella I Guerra Mondiale - NO ALLA SANTA SEDE NELLA FUTURA CONFERENZA DI PACE

Abbiamo già rilevato con una certa sorpresa, il contenuto dell'art.XII  del  Memorandum segreto
presentato  nel marzo 1915  dall'Italia all’Inghilterra contenente  le condizioni alle quali l'Italia stessa subordinava la sua entrata in guerra a fianco delle potenze dell’Intesa (Inghilterra, Francia, Russia), che così recitava: ”… L’Inghilterra e l’Italia si obbligano alla reciproca garanzia dell’indipendenza dell’Yemen…”.
Pari sorpresa suscita il successivo art.XV  dello stesso Memorandum del seguente tenore: ” Inghilterra, Francia e Russia s’impegnano ad appoggiare l’Italia nell’opporsi ad ogni eventuale proposta di ammissione di un  rappresentante della Santa Sede  nei negoziati per la pace  al termine della presente guerra”.
Riteniamo anzitutto strano che in un documento destinato a programmare una guerra alla quale fino ad allora era rimasta estranea, l’Italia pensasse già ai negoziati di pace che si sarebbero verificati alla fine del conflitto.
Perché, allora, tanta prudenza e preveggenza? Cosa c’era sotto?
L’on.Meda del Partito Popolare  nel “I  cattolici italiani nella guerra” del 1928 scriveva apertamente di “mal dissimulate prevenzioni antivaticane di Sonnino (ministro degli Esteri dell’epoca al quale si attribuisce la stesura del “Memorandum”  italiano – nda),  mentre nelle infuocate giornate del maggio 1915,  “i politicanti vaticanisti” scrive Antonio Salandra nel suo  “L’intervento “ del 1930,  “sbraitavano  contro Sonnino ebreo e protestante…”.  
Niente vero,  ribatte Salandra: Sonnino, figlio di un commerciante di origine ebraica e di madre inglese che allevò i figli nel culto anglicano, non era affatto anticlericale, a meno che non si volesse  considerare tale chi, come del resto anche lui stesso, si proclamava liberale.
Infatti,  il vero motivo dell’ostracismo di Sonnino e  di Salandra alla partecipazione della Santa Sede ai futuri trattati di pace era soprattutto ispirato da preoccupazioni di carattere costituzionale e cioè dal timore che in quella sede si attribuisse  alla Santa Sede  quella qualifica di Stato cui essa aspirava ma che non aveva.
La “Legge delle Guarentige” del 1871, scrive Salandra,  aveva stabilito che al Pontefice fosse attribuita la qualità di Sovrano, ma aveva contemporaneamente stabilito “che fosse rigorosamente esclusa l’esistenza di uno Stato Pontificio…”.
Quindi il rappresentante del Sovrano Pontefice, che non aveva uno Stato (cosa  ben singolare! – nda),  non avrebbe potuto sedere a fianco dei rappresentanti di  altri Sovrani che, invece, lo Stato ce l’avevano eccome: e l’Italia temeva che questo stato di cose potesse,  in occasione della conferenza di pace,  essere modificato.
Però, oltre a questa preoccupazione di diritto costituzionale, Salandra non nascondeva il  timore che in una  futura  Conferenza della Pace cui partecipasse anche la Santa Sede qualche  potenza , simpatizzante per il papato, volesse porre il problema, già da qualcuno accennato (come ad esempio i cattolici tedeschi e, in una occasione, l’ambasciatore di Spagna a Londra),  della soluzione dei rapporti fra Stato Italiano e  Santa Sede, o che, addirittura, fosse lo stesso eventuale rappresentante della Santa Sede, a suscitarlo.
Furono dunque questi, conclude Salandra, “i motivi, esenti da ogni passione anti-cattolica o anti-religiosa, che ci indussero ad inserire nell’art.XV dell’accordo di Londra una clausola esprimente la chiara e ferma  nostra volontà, già preventivamente fatta nota  agli Imperi Centrali del pari che alle potenze dell’Intesa”.
E Gabriele De Rosa scrivendo di Benedetto XV sulla “Enciclopedia dei Papi – Treccani”
conferma l’assoluta resistenza di Salandra sul punto anche quando l’abile Card. Gasparri propose di così modificare  l’art. XV:  “Nessun non belligerante sarà ammesso all’eventuale conferenza di pace se non con il consenso dei sottoscrittori (dell’Accordo di Londra – nda)”.
Solo il governo inglese si dichiarò favorevole alla modifica proposta da Gasparri osservando che essa non ne alterava la sostanza e che anzi essa “avrebbe potuto presentare qualche vantaggio non solo per l’alleanza in generale ma anche per l’Italia”.
Invece il governo francese e quello americano, scrive De Rosa, non presero in alcuna considerazione la proposta della Santa Sede.
Anzi, il ministro Sonnino confermò che il governo italiano non poteva in alcun modo consentire che si ponesse in discussione “qualsiasi revisione o sostituzione delle disposizioni sancite dalla Convenzione di Londra del 1915” che “dovevano restare intatte…così per l’art.XV come per tutto il resto”.
Chiara la minaccia che ove, invece, ciò fosse accaduto, i termini della Convenzione stessa sarebbero stati rimessi in discussione.
In conclusione ci si chiede il perché della  strenua resistenza del governo italiano dell’epoca a difesa dell’art.XV dell’Accordo di Londra.
Con il senno di poi ci si chiede se non sarebbe stato invece utile all’Italia, e addirittura auspicabile,  che un consesso internazionale già intento a risolvere importanti problemi,  affrontasse e risolvesse anche quello annoso dei rapporti fra Stato e Chiesa insorti all’indomani dell’unità d’Italia.
                                                                                  

 Padova 6-3-2016                                                                                                  Giovanni Zannini    

CHURCHILL E LA "LEGIONE GARIBALDI"

CHURCHILL E LA "LEGIONE GARIBALDI"

Fin dal giorno dell’entrata in guerra dell’Italia contro gli alleati Churchill si sforzò in ogni modo di indurre  gli italiani a separarsi da Mussolini ed a rovesciare il duce. E dopo che l’Italia ebbe perso l’Etiopia e fu sconfitta in Cirenaica egli tentò   di  indurre molti del gran numero di  militari italiani di sentimenti antifascisti  fatti prigionieri  a combattere a fianco degli alleati.
Nacque così, nel 1941  il progetto, appoggiato da Churchill, di organizzare questi ex prigionieri in una “Legione Garibaldi” facendo leva sull’esempio dei molti garibaldini che in passato avevano combattuto per l’unità d’ Italia e che ora avrebbero dovuto salvarla abbattendo la dittatura fascista.
Il Primo Ministro inglese ipotizzava che tra “ le centinaia di migliaia di  prigionieri che abbiamo preso” se ne sarebbero potuti selezionare “quattro o cinquemila…votati alla liberazione dell’Italia dal giogo di Hitler e Mussolini”. Si sarebbe potuto insediarli “in Cirenaica sotto bandiera libero-italiana trattandola non diversamente da come sono trattate le colonie di De Gaulle sottoposte al nostro controllo militare”: Da lì sarebbero  partiti  una forte propaganda antimussoliniana ed anche  missioni di antifascisti clandestini in  Sicilia e Sardegna che avrebbero dovuto preparare il terreno per uno sbarco alleato  e costituire i nuclei di una libera Italia.
Per raggiungere tale risultato il progetto prevedeva anzitutto di separare i prigionieri di sentimenti chiaramente antifascisti dagli altri più tiepidi o addirittura filofascisti,  per dare ai primi una  nuova cultura politica ed addestrarli al sistema militare alleato.
Il compito di creare la “Legione Garibaldi” fu affidato dall’inglese  S.O.E. (Special Operations Esecutive)  a Peter Fleming, ufficiale del reggimento “Grenadier Gards”, viaggiatore e scrittore, amante dell’avventura come del resto molti altri componenti delle Missioni Militari Alleate che assistettero ed organizzarono partigiani combattenti contro i nazifascisti in molte nazioni.
A tal fine Fleming creò la “Missione YAK” composta da una mezza dozzina di uomini che, muniti dei fondi  necessari e di dizionari tascabili di lingua italiana che nessuno conosceva, coperta da “priorità straordinaria”, raggiunse Il Cairo iniziando ivi la sua attività.
Ma il suo fallimento fu completo perché non riuscì a reclutare fra i prigionieri italiani un solo volontario disposto  a far parte della costituenda Legione.
Non solo, ma non fu neppure in grado di trovare un De Gaulle italiano  disposto  a comandarla: infatti la proposta di affidarla   al gen.Bergonzoli (detto “barba elettrica”) fu respinta dal Ministero della Guerra britannico che lo giudicò un “gabbamondo”.
Il progetto della “Legione” restò sulla carta, fu archiviato e non se ne parlò più.
Peccato, perché una “Cobelligeranza” ben anteriore a quella tardiva succeduta all’armistizio fra Italia ed alleati, avrebbe potuto migliorare le future condizioni del trattato di pace.
E Fleming? La “Missione YAK”, dato il fiasco ottenuto,  sarebbe stata cancellata se non vi fosse stato il pericolo tedesco nei Balcani  e la conseguente necessità  di assistere i partigiani ivi operanti, il che egli fece, con il consueto spirito di avventura, di buon grado.  
Aggiungiamo, in argomento,  che non ebbe miglior sorte un analogo  tentativo di Randolfo Pacciardi che dopo la fine della guerra civile spagnola alla quale aveva partecipato a fianco dei repubblicani contro il gen.Franco, si era rifugiato negli Stati Uniti.           
Ivi egli si attivò, ma senza esito, per creare una “Legione Italiana” composta da prigionieri italiani antifascisti da affiancare agli Anglo-Americani; ed una sua lettera al gen.De Gaulle per chiedergli di associare al suo movimento “France Libre” la “Legione” che stava progettando, restò senza risposta.


Padova 17-3-2016                                                                             Giovanni Zannini 

Il calvario dei prigionieri "irredenti" nella I Guerra Mondiale - ITALIANI DISPERSI IN RUSSIA

Si dice che la storia si ripete, ed è vero, perchè anche la prima Guerra Mondiale conobbe la tragedia, poi verificatasi nella seconda,  di  molti soldati  di etnia italiana fatti prigionieri e poi dispersi in Russia.
Infatti il “Corriere della Sera” del 14 marzo 1927 ha il titolo ”Gli italiani dispersi in Russia” che potrebbe apparire su qualsiasi altro giornale dei giorni nostri  a proposito dei militari italiani dispersi in Russia, ma nella II Guerra Mondiale e ci si chiede come mai questa situazione si sia potuta verificare.
Occorre dunque chiarire che nel primo conflitto mondiale  l'Austria aveva arruolato soldati di etnia italiana  poi da noi definiti “irredenti”, ossia nativi di quelle terre che all'epoca sotto dominazione austriaca furono poi “redente”, ossia assegnate all'Italia dopo la sconfitta degli austriaci.
Essi, nativi del  Trentino, Venezia Giulia e Dalmazia, dopo l'entrata in guerra dell'Italia furono mandati dall'Austria a combattere sul lontano fronte russo  nel dubbio fondato che le aspirazioni autonomistiche di molti di loro, insofferenti del dominio austriaco, avrebbero negativamente influenzato la loro combattività a favore dell'odiato austriaco.
Coinvolti nelle drammatiche battaglie fra russi ed austriaci che insanguinarono il fronte orientale a cavallo tra il 1914 ed il 1915, gli italiani “irredenti” privi di ogni motivazione per combattere a favore del loro oppressore preferirono arrendersi e circa 25.000 di loro furono fatti prigionieri dai russi e sparpagliati in tutto l'immenso territorio dell'impero zarista.
Ma quando nel 1915 l'Italia, dopo un anno di neutralità, entrò in guerra a fianco della “Triplice Alleanza” (Inghilterra, Francia e Russia), gli italiani “irredenti” che rinnegarono il giuramento fatto all'Imperatore d'Austria (12 o 13.000 uomini), divennero automaticamente alleati della Russia, e per questo liberati dai campi di prigionia: ma lasciati completamente in  balia di loro stessi.
Stupisce che, anziché utilizzare questi uomini facendoli  combattere non più per l'Austria, ma contro di essa, i comandi della nuova quadruplice alleanza (la “Triplice” più l'Italia), naturalmente avidi di “manodopera” combattente,  abbiano invece rinunciato al loro apporto. Ma quella “manodopera” era inutilizzabile militarmente dal momento che gli “irredenti”, se catturati, sarebbero stati immediatamente passati per le armi come disertori (vedi Cesare Battisti e Nazario Sauro), e questo timore avrebbe bloccato del tutto le loro capacità combattive: donde la decisione di smobilitarli e farli rientrare in Italia.
Per questo, una commissione militare italiana nella quale spiccava il Capitano dei Carabinieri Cosma Manera - ufficiale intraprendente, molto efficiente ed abile che prese a cuore la sorte di quegli uomini sfortunati - giunta in Russia, si dedicò anzitutto a "rastrellarne" quanti più possibile  ed a concentrarli  in campi di raccolta a Kirsànov ed a Tambov..
Ma il loro rimpatrio si rilevò  immediatamente assai arduo perchè la via più breve per raggiungere l'Italia attraverso la Grecia era ostruita dalla Bulgaria entrata in guerra a favore degli austro-ungarici per cui fu giocoforza scoprire vie nuove.
Una prima soluzione fu quella di raggiungere in treno il porto di Arcangelo nel nord della Russia, sul Mar Bianco, e da qui imbarcare circa 4.000  “irredenti” su piroscafi che, dopo aver aggirato il nord della penisola scandinava,  raggiunsero l'Inghilterra e da qui, attraverso la Francia, l'Italia.
Ma allorchè i ghiacci impedirono la navigazione sul Mar Bianco, gli organizzatori furono costretti a scovare per gli uomini rimasti a Kirsànov ed a Tambov una nuova via di fuga.
Fu così studiato un itinerario ancor più lungo e periglioso, che mediante la ferrovia Transiberiana raggiungeva alla fine, nell' estrema parte orientale della Russia, il porto di Vladivostok sull'Oceano Pacifico ove gli "irredenti" si sarebbero imbarcati per raggiungere, dopo una lunga navigazione sull'Oceano Indiano e attraversato il Canale di Suez, l'Italia.
Ma, arrivati a Vladivostok, la situazione nel frattempo precipitata a causa dello scoppio della rivoluzione comunista i n Russia,  indusse gli organizzatori di questo tragico trasferimento a spostare gli ex prigionieri in un altro porto più sicuro  da cui imbarcarli. Iniziò così ' un nuovo massacrante viaggio che da Vladivostok, attraversata la Manciuria, raggiunse la “Concessione di Tientsin” poco distante da Pechino, una specie di colonia ottenuta dall’Italia, come da altri paesi europei, nel  1902, dalla Cina come compenso  per l'aiuto ad essa prestato nella guerra contro i "Boxer". 
Ma non era finita.
Una piccola parte degli “irredenti” potè imbarcarsi e raggiungere finalmente l’Italia, ma quelli rimasti furono coinvolti nella guerra civile scoppiata in Russia dopo la rivoluzione che oppose  i russi comunisti a quelli “Bianchi”, i contro-rivoluzionari rimasti fedeli al defunto Zar che l’Italia, paventando con  inglesi e francesi il prevalere dei comunisti nell’intera Europa, avevano deciso di appoggiare.
Per questo fu costituito il C.S.I.E.O. (Corpo di Spedizione Italiano in Estremo Oriente) con base a Tientsin del quale la “Legione Redenta in Siberia”, composta dagli ex prigionieri austriaci di etnia italiana ormai “redenti”, agli ordini dell'infaticabile Cosma Manera, costituì il primo nucleo poi rafforzato da un contingente di alpini giunti dall’Italia per opporsi con i francesi e gli inglesi ai rivoluzionari russi. Ad esso fu affidato nell’estate del 1919 il compito di mantenere attiva la Ferrovia Ttientsin-Vladivostok in Manciuria per approvvigionare i “Bianchi” fino a che, constatata l’impossibilità di contrastare ulteriormente i rivoluzionari russi,  il C.S.I.E.O. fu rimpatriato alla fine del 1919: ultima, a lasciare la  Cina, la “Legione”, che al suo arrivo  in Italia fu  accolta con qualche contrasto da quanti le rimproveravano il suo passato al servizio degli austriaci.
Ma non tutti gli ex prigionieri  “irredenti” lasciarono la Russia. Scrive infatti il "Corriere della Sera" del 14-3-1927:"... Dei superstiti,  non pochi riuscirono a rimpatriare; altri  sono rimasti, sparsi un po' dappertutto .Nel complesso le loro condizioni non sono buone, tuttavia essi si sono adattati a tali condizioni di vita e non si lagnano,  vivendo in uno stato di completa apatia morale. Qualcuno si è formato una famiglia e questi nuovi vincoli hanno fatto loro scordare i parenti  che in Italia attendono invano il loro rimpatrio…".
Quella stessa "apatia morale" che con incredibile analogia (ricordate il film di De Sica, i "Girasoli",, interpretato da  Mastroianni e dalla Loren?) alla fine della I I Guerra Mondiale, colpì altri soldati italiani  cui la violenza della guerra, le inaudite sofferenze, e, perché no, talora,  il fascino slavo della donna russa, avevano attenuato, e poi, completamente annientato, ogni legame con la terra natia.

Padova 24.3.2016                                                                               Giovanni Zannini

  

mercoledì 3 febbraio 2016

SPERIAMO CI PENSI PAPA FRANCESCO

La relazione finale del  recente Sinodo dei Vescovi sulla Famiglia ha saputo dare risposta a molte questioni assai dibattute in ambito cattolico, ma ha lasciato delusi quanti attendevano, finalmente, una parola chiara a proposito della morale sessuale nel matrimonio. 
Un’esigenza avvertita da una voce autorevole quale Giuseppe Trentin il quale ha nei mesi scorsi ripetutamente trattato l’argomento sulla “Difesa del Popolo”, il settimanale della Diocesi di Padova.
L’1 febbraio 2015 sotto il titolo ”Dio ti dà i mezzi, da genitore sii responsabile”, egli auspicava che il Papa o i padri sinodali riprendano i contenuti della “Humanae vitae”, l’enciclica  di Paolo VI, chiarendo alcuni punti controversi  sulla procreazione e li attualizzino. Riportava l’interrogativo  di quanti si chiedono:” Perché mai, in una situazione di conflitto fra esigenze dell’amore e procreazione responsabile chi adotta metodi diversi da quelli indicati è da ritenersi  cattivo, poco generoso, non  aperto alla vita?”. E concludeva:” L’auspicio è pertanto che il Papa o i padri sinodali…aiutino i coniugi a ritrovare quella serenità di coscienza che permetta loro di non sentirsi in colpa se in determinate circostanze ritengono di dover adottare metodi e comportamenti diversi da quelli indicati da un’Enciclica che per molti versi è senz’altro molto bella e profetica, ma per altri è difficile e controversa”.    
Il successivo 6 settembre egli rileva poi “che qualcuno,  in riferimento ad una divaricazione sempre più ampia e profonda  fra dottrina della Chiesa  in materia di sessualità, e comportamenti personali,  ha parlato di "scisma sommerso”, evidente riferimento all’opera “Lo scisma sommerso” di Pietro Prini – autorevole filosofo d’ispirazione cattolica morto nel 2008 - pubblicata da Garzanti nel 2002, che così ampio dibattito ha suscitato.
Sullo stesso argomento nel numero del 19 luglio 2015 sempre della “Difesa del popolo” evidentemente interessata all’argomento, con il titolo “E’ ora di prendere delle decisioni”, Gianpaolo Dianin, docente di teologia morale,  rilevava che nell’”Instrumentum laboris” preparatore  del Sinodo di ottobre “non è molto sviluppata la problematica  della contraccezione che, non possiamo negarlo,  è un tema che vede la maggioranza dei cristiani lontani dalle indicazioni della chiesa”.
Ebbene, di fronte a tanta attesa la  relazione finale del Sinodo, al punto 63 – “La responsabilità generativa” votata  con 237 voti a favore e 21 contrari - non fa che confermare la dottrina ufficiale della Chiesa in materia di contraccezione consentendo solo il ricorso  ai metodi fondati sui “ritmi naturali di fecondità” sempre sostenuti dal Card.Elio Sgreccia.
Senza tener conto che due specialisti padovani in materia, il  Prof.Paolo Benciolini e la moglie Luisa, che per diverso tempo si sono sforzati di diffondere tale metodologia in un consultorio familiare, sostengono ora (v. “La Difesa del popolo” dell’ 8 febbraio scorso) non solo che “sarà opportuno riesaminare con attenzione la validità scientifica dei  metodi di regolazione naturale della fertilità,  ma anche, soprattutto, la loro applicabilità  nelle concrete situazioni  della vita coniugale”.
 Aggiungendo che il ricorso a tale metodologia “è diventato per alcune coppie fonte di tensione e di disarmonia talora addirittura sfociate in separazioni e divorzi”. E allora?     
Maurizio Patriciello (che è  sacerdote e parroco) su “Avvenire” del 22 gennaio scorso interpreta la nota frase del Santo Padre  – “Essere cattolico non vuol dire fare figli come conigli” e, aggiungiamo noi, il caso, che ha suscitato la sua disapprovazione,  di una donna con sette parti cesarei che attendeva  l’ottavo figlio  - come apertura verso la contraccezione nel matrimonio.
Quanti condividono il suo pensiero si augurano che, tenuto conto della necessità di “formulare nuove norme di comportamento, di tracciare strade e percorsi più articolati  e rispondenti al bene concreto e possibile delle persone e della società in cui viviamo” (Giuseppe Trentin su “La Difesa” del 6 settembre scorso), il Santo Padre nella sua attesa ”Relazione postsinodale” pronunci parole chiare in materia di contraccezione nel matrimonio capaci, per concludere con Maurizio Patriciello (v. sopra) “di far scendere la pace nei cuori di tanti sinceri credenti tormentati e dei loro parroci”.   
                                                                                                    Giovanni Zannini

             

CARDUCCI E LA SPEDIZIONE DI GARIBALDI IN FRANCIA

Giosuè Carducci rievoca la spedizione di Garibaldi in Francia con un suo articolo del 21 gennaio 1872 pubblicato su “Prose di Giosuè Carducci” edito dalla Nicolo Zanichelli di Bologna nel 1905.
Con il suo stile classicheggiante ed epico ricco di riferimenti storici e leggendari,  l'autore risponde anzitutto a coloro che si erano stupiti dell'accorrere  dell'Eroe in soccorso delle giovane repubblica francese in pericolo, dopo la sconfitta di Sedan, di fronte all'avanzata dell'esercito prussiano.
Ma come, si chiedevano costoro, Garibaldi che “sotto le mura di Roma tante volte  disfrenò l'invitto animo  e la spada e il cavallo  nel fitto delle legioni francesi..., va a combattere in carrozza per la Francia...” anzichè compiacersi “che cotesta superba e vana gente sia ridotta all'impotenza di nuocere , d'impedire, d'immischiarsi, d'imporre?”. 
Perchè va a combattere i prussiani che con la loro vittoria, vendicavano, sia pure involontariamente,  i numerosi torti a lui arrecati dai francesi,  da Mentana a Roma?
Così, risponde Carducci, avrebbe pensato “chi ha la passione dei piccoli avvenimenti, il rancore dei fatti singoli e staccati”, ma non chi, come Lui, “uomo di stato”, ha “il dolce e freddo occhio aquilino...di chi vede per entro i destini delle nazioni”.
Ecco dunque perchè Garibaldi accorse in Francia nel 1870.
Perchè vedeva  il pericolo che  l'ideale repubblicano a lui caro allora incarnato dalla Francia donde “la libertà e la filosofia avean preso le  mosse”, potesse soccombere di fronte all'imperatore Guglielmo; e che “l' elemento germanico dopo Sadowa  e Sèdan tende  naturalmente a dilagare ; intende forse a soprafffare”. Perchè,  scrive Carducci, interpretando il pensiero di Garibaldi, “con principi e con imperatori non facciamo fidanza”.
Non solo: ma anche perchè egli vedeva  in pericolo “l'ideale della confederazione, morale e ideale per ora, delle genti latine,  sorelle nella lingua, nelle tradizioni, nelle istituzioni, nell'arte”, quell' ideale che fa di Garibaldi il precursore dell' Unione Europea realizzatasi quasi un secolo dopo (e che taluno, criminalmente, vorrebbe oggi mettere in discussione).    
Fin qui, dunque, i motivi che hanno indotto Garibaldi all'intervento.
Ma lo scritto carducciano è ricco anche di altri accenni  interessanti.
Allorchè, ad esempio, ci si  chiede perchè “egli va a combattere in carrozza per la Francia”.
E' chiaro il riferimento al pessimo stato di salute dell' Eroe ormai sessantatreenne, colpito da una grave forma di artrite, il quale, per ispezionare  il fronte a lui affidato,  si faceva trasportare in carrozza finchè le strade lo consentivano, per poi essere trasferito su di una “letiga” condotta da due portantini allorchè il terreno si faceva accidentato.
Come pure quando Carducci non manca di manifestare il suo acceso anticlericalismo affermando di ammirare il popolo tedesco auspicando che un domani (purtroppo, sembra dire, non oggi) il suo “dio Thor  risorga con il suo gigantesco martello di ferro e picchi di santa ragione sulle chiese e le torri, carceri della vecchia Europa: oh che colpi meneranno i nipoti di Sigfrido! Si, tu diverrai un giorno come Sigfrido e ucciderai l'abominevole drago”, ossia, è chiaro, il Papa.
Ancora, allorchè afferma che i giovani italiani accorsi in Francia chiedevano ai francesi “lasciateci morire e vincere per voi”, chiaro accenno alla tiepidezza (ed in qualche caso, aperta ostilità) manifestata dai Francesi ai volontari accorsi in loro difesa allorchè facevano capire, con una certa boria,  che nessuno li aveva chiamati e che erano in grado di farcela da soli, .
Lo scritto carducciano si conclude con un forte, commosso saluto a Giorgio Imbriani “amico e fratello nostro, ricordanza acerbissima e onorata sempre”  dei giorni più belli trascorsi a Bologna,
caduto in Francia nelle gloriose giornate del 21, 22 e 23 gennaio 1871 davanti a Digione.
Saluto che Carducci  nuovamente invia il 19 novembre 1876,  in occasione della commemorazione di Goffredo Mameli, a Imbriani ed a Ferraris ( Adamo Ferraris, fratello del grande scienziato Galileo – v. il mio “Adamo Ferraris il  medico di Garibaldi”)  “cavalieri antichi nella spedizione dei Vosgi”, la montagna di Francia che diede il nome all’esercito di Garibaldi.
                                                                                                  Giovanni Zannini                                                                                                 


lunedì 11 gennaio 2016

IL DRAMMA DEI MUSULMANI

 Per cercare di capire che cosa veramente dice, con molta umiltà e senza pregiudizi,  abbiamo scorso le pagine de “Il Corano”edito da “Newton & Compton Editori” nel 1994 a cura di Hamza R.Piccardo, con la revisione ed il controllo dottrinale dell'Unione delle Comunità ed Organizzazioni Islamiche in Italia,  ricco di note esplicative: insomma, il testo ufficiale dei Musulmani Italiani.  
Abbiamo rilevato in molti punti concordanza e rispetto per le religioni monoteiste fra cui la cristiana: basti ricordare il versetto 62 della Sura II (Sura si può tradurre in “capitolo”): ”In verità coloro che credono,  siano essi giudei,  nazareni o sabei, tutti coloro che credono in Allah  e nell'ultimo giorno e compiono il bene, riceveranno il compenso presso il loro Signore. Non avranno nulla da temere e non saranno afflitti” e, in nota, si legge che “non c'è alcuna alternativa all'Islam. Ciononostante il versetto  stabilisce tolleranza e rispetto per i seguaci di un culto monoteista”.
Ed al versetto 87  si legge che “…abbiamo dato a Gesù, figlio di  Maria prove evidenti e lo abbiamo coadiuvato  con Spirito di Santità”.
Nella Sura III-42 un omaggio alla Madonna: ”In verità, o Maria, Allah ti ha eletta ; ti ha purificata ed eletta  tra tutte le donne del mondo”. 
Ma molte altre sono le consonanze con il cristianesimo che abbiamo rilevato  nel libro santo dell'Islam: ad esempio in tema di aborto, che nella nota 8 alla Sura LX-12 viene chiaramente definito infanticidio; in tema di  beneficenza (Sura II-271) espressa con un delicato concetto caro all'etica cristiana:” Se lasciate vedere le vostre elargizioni  è un bene; ma è ancor meglio per voi se segretamente date ai bisognosi”; in tema di famiglia e di matrimonio, vedi  nota 19 a pag.307:” La famiglia è la cellula fondamentale di quel complesso organismo che è la società e il matrimonio è lo strumento che ne governa la formazione....”. La Misericordia, poi, che ricorre frequentemente nel Corano (vedi Sura VII-153: “Quanto a coloro che hanno fatto il male e poi si sono pentiti ed hanno creduto…, ebbene il tuo Signore  è perdonatore misericordioso”) non è la stessa sempre invocata da Papa Francesco che le ha dedicato l’Anno Santo che noi cattolici stiamo percorrendo?
Mentre val la pena notare nella nota 18 a pag.379, con  sorpresa e curiosità, un' anticipazione di quello che dirà Lutero molti secoli dopo: ””L'uomo non può realizzare la sua salvezza con i suoi mezzi, è tramite la Grazia di Allah (gloria a Lui l'Altissimo) che sarà ammesso nella “Dimora della Quiete” (il Paradiso)””.
Ed è sulla guerra che il Corano pare manifestare piena risonanza con i principi etici del cristianesimo  e della moderna civiltà giuridica. Si legge infatti in una delle Appendici allegate al testo citato,  la n.9 a pag.582 :””Quando la comunità dei musulmani è aggredita, minacciata, oppressa o perseguitata, i credenti hanno il dovere di combattere esercitando il loro diritto-dovere alla legittima difesa...Allah dice:”Combattete   per la causa di Allah contro coloro che vi combattono, ma senza eccessi, chè  Allah non ama coloro che eccedono”. E' evidente che la guerra ha solo carattere difensivo e che deve essere condotta senza lasciarsi mai andare all'efferatezza ed alla crudeltà””.       
 Pure sulla pace, che nel Corano è citata 35 volte: “ Dio chiama al soggiorno della Pace, e dirige chi egli vuole sulla via diritta “( Sura 10-25); “Entrate in Paradiso in  Pace e con  sicurezza” (Sura 15-46), e molti altri riferimenti si potrebbero citare.


Ma questa edificante lettura viene contraddetta, nelle pagine stesse  del Corano, da affermazioni che danno fondamento e legittimità alla violenza ed alla crudeltà,  come nella Sura IX.
Dice il versetto 29: ”Combattete coloro che non credono in Allah e nell'Ultimo Giorno, che non vietano quello che Allah ed il suo messaggero hanno vietato e quelli, della gente della scrittura, che non scelgono la religione finchè non versino umilmente il tributo, e siano soggiogati”
Ed il n.30:””Dicono i Giudei :”Esdra è figlio di Allah” ed i nazareni dicono :”Il Messia è figlio di Allah”. Questo è ciò che esce dalle loro bocche. Ripetono le parole di quanti, già prima di loro,  furono miscredenti. Li annienti Allah. Quanto sono fuorviati!”.
Poi, versetto n.123: ”O voi che credete, combattete i miscredenti che vi stanno attorno, che trovino durezza in voi. Sappiate che Allah è con i timorati”.
E allora?

Anzitutto, i 6.200 versetti contenuti nel Corano  costituiscono una raccolta un po' caotica, senza filo conduttore, e assai spesso, di difficile interpretazione,  nella quale pensieri saggi e condivisibili, si affiancano ad esortazioni violente e sanguinarie.
Ma, osservano taluni, ciò si verifica anche nelle antiche scritture cristiane, come nel Vecchio Testamento, ove saggezza, bontà, onestà e generosità convivono con immoralità e violenze.
 E’ vero, ma la differenza sta nel fatto che Cristo ha saputo depurare il Vecchio Testamento dalle impurità ed efferatezze di un'epoca barbara evidenziando, invece, nel Vangelo, solo il molto bene che vi era contenuto. Al contrario l’Islam non ha avuto un riformatore (un Cristo musulmano) capace di eliminare la parte arcaica del Corano superata dalla civiltà, lasciando però intatta quella  tuttora valida e condivisibile.

Così, i fedeli sono lasciati nella confusione più assoluta, incerti su quali precetti seguire: ed ecco perché nell’Islam convivono oggi pacifici musulmani e feroci tagliatori di teste.Giovanni Zannini