mercoledì 13 marzo 2019

I ROMANI ED IL RISORGIMENTO

La fama dei cittadini romani tendenti al mantenimento dello “status quo” e non portati a reagire contro coloro che li governano anche se malamente (tanto son tutti eguali – dicono – è inutile, non cambia mai nulla) trova conferma nella scarsa collaborazione da essi prestata alle vicende risorgimentali che portarono all'unità d'Italia.
Tra gli altri, a conferma di questa tendenziale “apatia” del loro carattere, esistono due episodi che, oltretutto, manifestano singolari analogie.
Il primo riguarda il tentativo di Garibaldi che nel 1867 capeggiò una spedizione di volontari con l'intento di liberare Roma sostituendosi all'inerzia del re Vittorio Emanuele II che, temendo di entrare in collisione con la Francia - con la quale si era impegnata, con la Convenzione del 15 Settembre 1964 a difendere lo Stato Pontificio da ogni aggressione - non osava farlo.
Tentativo all'inizio segretamente appoggiato dal governo che avrebbe certamente gradito
se l'impresa fosse andata a buon fine, ma che poi, di fronte all'accorrere dei francesi in difesa del Papato, per motivi di politica estera non esitò a condannarla.
Ciononostante Garibaldi insistette nel suo tentativo che fu stroncato il 3 novembre 1867 dalla sconfitta subita nella drammatica battaglia di Mentana.
Fra i tanti commenti dedicati a questa impresa spicca la testimonianza del garibaldino Adamo Ferraris (fratello del più noto Galileo, famoso scienziato, e poi medico personale di Garibaldi nella spedizione in Francia del 1870/1871) che partecipò all'impresa.
Dunque, Garibaldi è giunto nei pressi di Roma e, scrive il Ferraris nella sua lettera 1 novembre 1867 al padre, “il Generale ci fece bivaccare tre giorni a due miglia da Roma, nella notte fece accendere dei gran fuochi. Ci fece percorrere due volte tutto il lato nord est della città stessa con tutto l'intero corpo dei volontari di Menotti (figlio di Garibaldi - ndr) forte di circa 8000
uomini, e tutto ciò con l'evidente scopo di invitare i romani ad insorgere, ovvero anche i papalini a venire a battaglia, ma tutto inutilmente. I DEGENERI ROMANI NON FECERO UN MOTO (il maiuscolo è di chi scrive) ed i papalini, dopo una ricognizione offensiva in cui spararono 25 cannonate, si ritirarono nella città facendo saltare dietro di loro i ponti...”.
Per la verità, vi furono romani che, in occasione di quella che fu chiamata la “Campagna dell'Agro Romano”, collaborarono con i liberatori, ma furono due soli con altri pochi compagni: Gaetano Tognetti e Giuseppe Monti, muratori, che, avuta notizia dell'avanzare di Garibaldi alla volta della capitale, il 22 ottobre 1867 fecero saltare in aria con una mina parte della Caserma Serristori in Roma causando la morte di alcuni zuavi pontifici, e che, processati e condannati a morte, furono decapitati.
Nè miglior sorte ebbe il generoso tentativo dei fratelli Cairoli Enrico e Giovanni e dei loro eroici 68 compagni .
Rotti gli indugi degli altri comandanti garibaldini costituitisi a Terni in Comitato d'insurrezione per la liberazione di Roma, che attendevano, prima di muoversi, l'arrivo di Garibaldi - rocambolescamente evaso da Caprera ove il governo italiano l'aveva confinato per evitare che combinasse guai - il gruppo di ardimentosi si mise in marcia
Partiti da Terni la notte del 22 ottobre, l'indomani attraversarono il confine dello stato pontificio e quindi, disceso il Tevere con alcune imbarcazioni, sbarcarono alle porte di Roma nei pressi del Ponte Molle occupando poi sul Monte Parioli la vigna e la villa di proprietà dell'ing. Vincenzo Glori ove attesero il verificarsi dell'annunciata insurrezione dei cittadini romani che invece mancò.
Dopo questa vana attesa, mentre meditavano sul da farsi, furono intercettati e attaccati da gran numero di zuavi, pur dopo un feroce impari combattimento in cui rifulse il valore dei giovani garibaldini e che vide la morte del loro comandante Enrico Cairoli – e, l'anno dopo, del fratello Giovanni (“Giovannino”) a seguito delle gravi ferite riportate - essi furono costretti alla resa e fatti prigionieri.
Il secondo episodio accaduto qualche anno dopo confermò l'apatia dei romani per le vicende risorgimentali italiane.
Approfittando dell'esito della guerra franco-prussiana risoltasi con il dissolvimento dell'impero francese dopo la sconfitta subita a Sedan l'1 settembre 1870, il governo italiano - sciolto dagli impegni assunti con la Francia con la Convenzione di Settembre 1864 che lo obbligava
a difendere l'indipendenza del Papato - colse al volo la fortunata combinazione offertagli dalla sconfitta francese e affrontò immediatamente e senza preoccupazioni il problema della liberazione di Roma per farne la capitale del Regno.
E solo 10 giorni dopo Sedan, l'11 settembre, il generale Cadorna, alla testa di 5 divisioni invade il territorio pontificio e, giunto alle porte di Roma, ancora un volta si arresta in attesa di una insurrezione popolare che offra il pretesto di entrare pacificamente nella città per ristabilire l'ordine pubblico.
Ma, ancora una volta, come scrive lo storico inglese Denis Mack Smith, “...l'indifferenza o, addirittura, l'ostilità della cittadinanza romana, e la fede e l'interesse che la spingevano a restare fedele a Pio IX...” impedì che ciò accadesse.
Fu allora necessario ricorrere alla forza dei cannoni che il 20 settembre 1870 aprirono la breccia di Porta Pia attraverso la quale i bersaglieri italiani dilagarono in Roma.
E il fatto che la città fu conquistata dopo soli venti giorni dalla provvidenziale sconfitta di Napoleone a Sedan, fa dire a molti storici (e fra questi il Mack Smith) che ciò “avvenne in maniera del tutto casuale come effetto secondario della vittoria prussiana”, in tal modo ridimensionando la gloria italiana della battaglia di Porta Pia.
Padova 21-2-2019 Giovanni Zannini