lunedì 20 marzo 2017

EDOARDO BASSINI GARIBALDINO FRA SCIENZA E STORIA

Edoardo Bassini appartiene a quella categoria di italiani che dopo aver dedicato generosamente nel periodo risorgimentale le loro migliori energie alla causa della liberazione d'Italia dal giogo straniero seppero poi trasferirle con pari entusiasmo ad opere di pace al servizio della società civile.
Era nato il 14 aprile 1844 a Pavia ove nel 1866 si era laureato presso una delle poche facoltà di medicina e chirurgia esistenti all'epoca in Italia.
Cresciuto nel clima universitario rovente di patriottismo, e ancor più sull'esempio dello zio Angelo fervente garibaldino, non esitò, all'indomani della laurea, allo scoppio della terza Guerra d'Indipendenza, a seguirlo ed a combattere in val Camonica nelle file dei “Cacciatori delle Alpi” di Garibaldi al quale si dovette, il 21 luglio 1866, a Bezzecca, l'unica vittoria italiana in quello sfortunato conflitto. Vittoria, come noto, resa inutile dall'ordine superiore – cui fu risposto con il fatidico “Obbedisco” - di interrompere l'avanzata che fin d'allora avrebbe potuto realizzare la liberazione del Trentino.
La cocente disillusione subìta portò l'anno successivo, in ottobre, il giovane medico a Terni ove si stavano concentrando patrioti intenzionati a passare il confine con il Lazio per tentare la liberazione di Roma. In attesa dell'arrivo di Garibaldi ancora “confinato” a Caprera, settanta di essi
fra cui il Bassini, comandati da Enrico Cairoli, pavese come lui e suo grande amico,
decisero di recarvisi con l'intento di indurre i romani alla rivolta e creare il “casus belli” per giustificare l'intervento dell'Italia in loro soccorso.
Partiti da Terni il 20 ottobre, passato il confine ed attraversato il Tevere, gli audaci incursori entrati in città si arroccarono a Villa Glori, sul colle dei Parioli, con l'intento di spingere i romani a sollevarsi contro il Papa.
Ma solo due coraggiosi popolani, Giuseppe Monti e Gaetano Tognetti (che, catturati dalla gendarmeria papalina saranno decapitati) entrarono in azione facendo esplodere una parte della caserma Serristori. Tutti gli altri, bollati “degeneri romani” da Adamo Ferraris - fratello del grande scienzato Galileo - che partecipò all'impresa garibaldina passata alla storia con il nome di “campagna dell'Agro Romano”, pur sollecitati ad insorgere dalle manovre dimostrative dei garibaldini attorno alle mura della città, stettero alla finestra e non fecero una mossa.
Il gruppo di Cairoli fu intercettato il 23 ottobre dai papalini e ne seguì un violento scontro nel quale perse la vita il comandante Enrico e fu gravemente ferito suo fratello Giovanni (poi deceduto l'11 settembre 1869).
Bassini, colpito dalla baionettata di uno zuavo che gli aveve devastato il basso ventre, fu ricoverato al “Santo Spirito”, antichissimo ospedale romano e si dice che il Papa Pio IX, in visita ai feriti di quel combattimento, abbia detto, al capezzale del giovane lombardo in pericolo di morte per una peritonite stercoracea:”Speriamo che guarisca e che metta giudizio”.
A ricordo della sua partecipazione a quell'eroica impresa, il nome di Edoardo Bassini è inciso nel bronzo, assieme a quello degli altri suoi 69 compagni, a retro del monumento che sul Pincio rappresenta Giovanni Cairoli mentre sorregge il morente fratello.
Rientrato nella sua Pavia, Bassini ebbe la fortuna di essere curato da Luigi Porta, suo illustre maestro, che riuscì a rimettere in piedi il discepolo.
Ma fu proprio quella ferita che, a posteriori, si può definire provvidenziale, a trasformare l'audace garibaldino in un benemerito della scienza medica.
Nel corso della lunga malattia, desideroso di poter varcare la soglia della parete addominale che nessun chirurgo era prima riuscito a violare, egli ebbe così la possibilità di approfondire, proprio su se stesso, lo studio dei visceri
Guarito, per perfezionare gli studi in materia si recò all'estero ove incontrò i migliori specialisti dell'epoca.
Rientrato in Italia nel 1875 fu primario chirurgo presso l'ospedale della Spezia; nel 1878 professore incaricato di Medicina Operatoria e Clinica chirurgica presso l'Università di Parma, poi (novembre 1882) Professore ordinario di Propedeutica e patologia speciale chirurgica, quindi di Clinica chirurgica ( maggio 1888) presso l'Università di Padova.
E' famoso per aver eseguito per la prima volta il 24 dicembre 1884 l'operazione radicale dell'ernia inguinale introducendo nella tecnica operatoria la ricostruzione con sutura a strati dei diversi piani anatomici.
Tale intervento che da lui prese il nome di “radicale Bassini” si diffuse in tutto il mondo e costituì il fondamento di numerose varianti tecniche sviluppate successivamente fino a che fu soppiantato da quelle alloplastiche.
L'illustre chirurgo viveva da solo in una piccola casa vicino all'ospedale: celibe, schivo, partecipava raramente alla vita sociale dedicandosi soprattutto allo studio, alla professione ed ai suoi discepoli. Ad essi, non avendo egli lasciato nulla di scritto, va il merito di aver ricordato che il loro maestro fu anche pioniere della chirurgia avendo praticato, oltre a quello per cui è famoso, molti altri importanti interventi: sulla tiroide, l'isterectomia subtotale, una particolare metodica per il trattamento della palatoschisi; la tecnica dell'amputazione interscapolotoracica con legatura primaria dell'arteria succlavia, per l'anchilosi temporo-mandibolare e per la fissazione del rene mobile; la resezione ileocolica e la sutura vasale.
Suo unico svago, nei rari momenti di riposo, lunghe galoppate a briglia sciolta sugli argini del Brenta o del Bacchiglione.
Sul numero di agosto 2004 di questa rivista Ferdinando Vigliani nel ripercorrere il contributo della scuola padovana alla chirurgia, ha ricordato i meriti del Bassini ed ha citato quanto scritto su di lui da Manara Valgimigli, illustre letterato che insegnò all'Università di Padova negli stessi suoi anni.
Scrive Vigliani che Bassini, raggiunto alla fine del 1919 il limite di età dei 75 anni per l'insegnamento, aveva per qualche mese proseguito la sua attività ragion per cui l'eterna, imperante burocrazia italiana gli aveva inviato un telegramma con l'invito a lasciare immediatamente l'incarico, chiedendogli altresì di giustificare il motivo di tale suo comportamento.
E Valgimigli: ”...(Bassini) Impallidì, ma subito anche si riprese. Ordinò che gli sellassero e gli menassero alla porta della clinica il cavallo. Vi montò sopra e così a cavallo abbandonò Padova, la sua clinica ed il suo lavoro, per sempre”.
Nominato senatore del regno nel 1904 morirà nella sua tenuta di Vigasio , in provincia di Brescia, il 19 luglio 1924 e la salma riposa nel cimitero monumentale della sua Pavia.


Padova 28.2.2017 Giovanni Zannini

LA "DISOBBEDIENZA" DI GARIBALDI A MENTANA

Se è a tutti noto il tonante “Obbedisco” di Garibaldi nella III Guerra d'Indipendenza del 1866, meno nota è la sua disobbedienza del 1867 all'ordine del Re di fermare la sua corsa verso Roma.
Terminata la guerra d'indipendenza del 1866 il governo Rattazzi, sospettando che Garibaldi mettesse in atto un altro tentativo di liberare Roma dal Papa per farne la capitale del regno d'Italia creando gravi complicazioni internazionali, lo confinò, prudenzialmente, sotto stretta sorveglianza, a Caprera.
Ma fin dall'ottobre 1867 molti patrioti italiani fra i quali gli stessi figli di Garibaldi Ricciotti e Men otti, si erano concentrati a Terni, con l'intento di organizzarsi in attesa di oltrepassare il vicino confine con il Lazio, di invadere “Il Patrimonio” (così erano denominate le terre dello Stato Pontificio), e puntare su Roma.
Equivoco, nei loro confronti, il comportamento del governo Italiano che aveva stipulato nel 1864 con quello francese la cosiddetta “Convenzione di settembre” con la quale si impegnava a difendere la libertà dello Stato Pontificio in vece della Francia che aveva ritirato da Roma le proprie truppe fino ad allora garanti della sovranità del Papa.
Ma sottobanco, pur a conoscenza degli intenti dei volontari, il governo Rattazzi aveva deciso di chiudere, come si dice, un occhio ritenendo che, alla fine, avrebbe fatto comodo all'Italia se il loro tentativo avesse avuto buon esito.
Intanto Menotti, rotti gli indugi, alla testa di una colonna di quasi 3000 uomini, aveva attraversato il 21 ottobre il fiume Farfa che segnava il confine con il “Patrimonio” a Passo Corese (frazione del comune di Fara Sabina), inseguito da molti altri volontari che individualmente o a piccoli gruppi, a proprie spese, malamente vestiti e peggio armati, provenienti da diverse parti d'Italia, volevano partecipare con lui all'impresa.
L'entusiasmo dei volontari è massimo allorchè Garibaldi, partito da Caprera il 18 ottobre, dopo un viaggio avventuroso raggiunge il giorno 23 Menotti ed i suoi uomini ed assume il comando della spedizione.
Il giorno seguente, lasciato Passo Corese, punta su Monterotondo e sconfitti, dopo un dura battaglia, i papalini, s' insedia nel paese.
A questo punto, di fronte alla decisa reazione della Francia che imputa all'Italia di essere collusa con Garibaldi in violazione della “Convenzione di settembre”, il governo italiano presieduto da Menabrea succeduto il 27 ottobre a Rattazzi, effettua un brusco voltafaccia.
Così, lo stesso giorno dell'insediamento di Menabrea, il Re Vittorio Emanuele emette da Firenze, ove aveva spostato la capitale del Regno, un proclama con il quale, senza nominare Garibaldi, denuncia il comportamento di “schiere di volontari eccitati e sedotti dall'opera di un partito senza autorizzazione mia né del mio governo” e confida che “i cittadini italiani che violarono quel diritto si porranno prontamente dietro le linee delle nostre truppe”, ovvero rientreranno nei confini nazionali ponendo fine all'impresa.
E Vittorio Emanuele sarebbe stato pronto, in caso contrario, ad usare di nuovo la forza come in Aspromonte, se Napoleone, per evitare questa nuova tragedia, non lo avesse esentato affermando che avrebbe lui solo provveduto alla bisogna.
Sia qui consentito, a titolo di curiosità, aprire una piccola parentesi per segnalare un notevole errore nel quale, nel suddetto proclama, il re, o chi per lui, era incappato. Esso, infatti, si concludeva con una frase sgrammaticata con la quale il re confermava l'affetto ”per questa nostra grande patria la quale mercè i comuni sacrifici tornammo finalmente nel numero delle grandi nazioni”.
Ma lasciamo questo reale svarione, e riandiamo a Garibaldi.
Dunque, il proclama viene emesso il 27 ottobre allorchè egli, dopo una cruenta battaglia era riuscito a conquistare Monterotondo ove si era insediato e donde, preoccupato e turbato, “dall'alto della torre del palazzo Piombino trascorrevo la maggior parte della giornata a guardare Roma e ad osservare gli esercizi dei nostri giovani soldati” nonché, purtroppo, anche “le continue diserzioni provocate dai mazziniani”: grave affermazione peraltro smentita da Mazzini.
Il proclama reale provoca nei volontari una violenta protesta: si urla, si grida al tradimento, mentre frate Pantaleo (che aveva la funzione di cappellano dei garibaldini), infuocato, invoca l'Anticristo.
E Garibaldi? Non vi è alcuna traccia della sua reazione all'ultimatum, neppure nelle sue memorie,
ove di esso non si fa parola alcuna. Un anno prima, in Trentino, aveva risposto con il famoso “Obbedisco”. Qui, benchè offeso, tace. Cupo, non parla, non fa gesti clamorosi: lo ignora, e tira dritto.
Sconfortato, prende una decisione:” ...A causa dello stato morale della gente appena descritto, e trovandoci noi chiusi a nord dai corpi dell'esercito italiano che ci impedivano con la loro presenza di procurarci ciò che ci necessitava, dovevamo assolutamente cercarci un altro posto dove fare l'accampamento dove avremmo aspettato gli eventi per poi decidere il da farsi. Perciò, lasciato Monterotondo, marciammo verso Tivoli per lasciare alle spalle i monti dell'Appennino e qui avvicinarsi alle province meridionali. Venne deciso di incominciare la marcia
il 3 novembre al mattino”. E qui un desolante particolare: “Ma non tutti avevano le scarpe, e perdemmo tempo nella distribuzione per cui ci muovemmo soltanto verso mezzogiorno”.
Ed inizia la tragedia.
Tutto il corpo dei volontari, lasciato Monterotondo, imbocca la Nomentana diretto verso Tivoli, ma appena superato il paese di Mentana si trova di fronte un forte contingente di papalini usciti da Roma per affrontarli. I garibaldini sono inizialmente costretti ad arretrare su Mentana dove però la battaglia volge a loro favore e gli avversari sono messi in fuga. Ma ecco sopraggiungono in loro soccorso i francesi appena arrivati a Roma inviativi in gran fretta da Napoleone III. Di fronte ai loro micidiali “Chassepot”, i nuovi fucili ad ago che sparavano 12 colpi al minuto (gran belle armi, anche se forse troppo magnificate dal momento che in nota ad un libro sulle memorie di Garibaldi si legge che esse, usate per la prima volta a Mentana “s'inceppavano e si scaldavano troppo per essere impugnate, tanto che in gran parte sia era dovuto sostituirle”) ogni resistenza è vana. I garibaldini sono costretti a lasciare Mentana, a ripiegare su Monterotondo e quindi arretrare fino a Passo Corese ove, dopo aver deposto le armi sul ponte che attraversa il Farfa, varcano il confine e rientrano in territorio italiano.
Garibaldi, accompagnato da Francesco Crispi, viene accolto cordialmente, nonostante gli ordini governativi in contrario, dal colonnello Caravà che era stato ai suoi ordini in campagne precedenti e che lo imbarca su di un treno diretto al nord. Ma a Perugia, vane le sue energiche proteste, è arrestato, ed inviato in Liguria alle carceri di Varignano donde verrà rilasciasto dopo 22 giorni dietro sua formale promessa di non allontanarsene per almeno sei mesi.
Ma vi resterà quasi tre anni allorchè ai primi di ottobre del 1870, pur stanco e malato, oramai dimentico di Mentana, si recherà in Francia per mettere le sue residue forze al servizio della Repubblica francese sorta sulle ceneri dell' impero dell'odiato Napoleone III.


Padova 10-3-2017 Giovanni Zannini