sabato 19 febbraio 2022

Un Coronavirus musicale

Come noto, il Coronavirus lascia in coloro che l'hanno avuto, e che sono scampati, disturbi di vario genere - definiti “Sindrome Post Covid-19 ” - , che persistono dopo la guarigione e la conseguente eliminazione del virus dall'organismo, destinati a sparire dopo un tempo più o meno lungo.

A me il virus ha lasciato una coda assai singolare, inedita credo, e, per fortuna, innoqua: ha risvegliato il ricordo di canzoni ormai dimenticate, direi, d'antiquariato, scritte e cantate pressapoco negli anni che precedettero il secondo conflitto mondiale, ossia decine di anni fa.

Canzoni delle quali non ricordo né il titolo, né l'autore, ma solo l' aria ed il testo, alcune leggere, direi quasi infantili, altre più impegnate a cantare l'amore e le bellezze del creato.

Fra le prime, create da musicisti alla buona e da parolieri che si sforzavano di metterci dentro le parole che facessero rima, emerge dalla mia memoria un “Bombolo” che “con i piccoli piè, con il grande gilet fece un capitombolo”, ed un tal Pippo che “quando passa ride tutta la città” perché “si crede bello come un Apollo, ma saltella come un pollo...”.

Altre volte i postumi del Coronavirus mi fanno canticchiare i “Pompieri di Viggiù che quando passano i cuori infiammano” di fanciulle che allora si accontentavano di poco e che cantavano, preoccupate, di “un uccellino che non sapeva navigare, non si dà pace il poverino: che cosa deve fare?”; mentre un'altra gorgheggiava che “se potessi avere musica leggera, tutta la mattina, fino a tarda sera, io potrei trovare tutta la felicità.

Talora, invece, mi sovviene che “Parlano d'amore i tuli, tuli, tuli pan” cantato dalle olandesine del Trio Lescano che, naturalmente, esaltavano il loro fiore nazionale, oppure mi trovo ad ascoltare il canto di un giovinotto che aspetta la sua “bella sotto il monumento con una rosa in mano...al primo appuntamento nel parco di Milano”; di un altro che dava una notizia molto interessante, e cioè che “nel bazar di Zanzibar, si può danzar, si può ballar, si può mangiar....e non pagar”; mentre un altro giovane di belle speranze esaltava il “Valzer del buon'umor che ti dà l'aria del gran signor”.

Fin qui, canzoncine di musica molto, molto leggera che al giorno d'oggi farebbero pensare che i giovani di un secolo fa che cantavano quella roba fossero un pochino sempliciotti: ma il virus porta alla mia memoria anche composizioni che non sfigurerebbero ai nostri giorni.

Come quella di un innamorato tradito che cantava “Vento, vento, portami via con te, raggiungeremo insieme il firmamento dove le stelle brilleranno a cento.....e senza alcun rimpianto voglio scordare il tradimento. Vento, vento, portami via con te”: parole aggraziate, una bella voce e un'aria che ti faceva fischiare il vento nelle orecchie, e ti portava in alto.

O l'altra in cui il cantante faceva all'amica un invito galeotto: “Vieni, c' è una strada nel bosco, il suo nome conosco, vuoi conoscerla tu? Vieni, è la strada del cuore dove nasce l'amore che non muore mai più. Laggiù fra gli alberi inondati dai raggi d'or c'è un nido semplice dove nasce l'amor...”. E tanto bastava per suscitare la fantasia d'un giovincello che l'amore non l'aveva ancora incontrato.

E poi, “Vivere!”, la canzone che ha una storia perchè criticata dalle autorità ecclesiastiche dell'epoca per il suo contenuto troppo godereccio, cosicchè, accusata di portar jella, era cantata solo da quelli che dei divieti di Santa Madre Chiesa se ne facevano un baffo.

Giudicate voi: “Oggi è una bellissima giornata” - cantava un giovinotto che si era finalmente liberato di un amore indigesto - “una giornata di felicità” perchè “oggi la mia bella se n'è andata e mai più ritornerà!”, per cui “son padrone alfin della mia vita” e “voglio vivere sempre così giocondo, voglio vivere per le follie del mondo....”.

Si, quel giovinotto era piuttosto spregiudicato, ma mi pare che la critica dei preti fosse esagerata.

Io, comunque, che con le tonache ho sempre voluto andar d'accordo, avevo trovato il modo di cantare quella canzone - che mi piaceva un mondo! – con l'anima in pace, sostituendo “vivere” con “ridere” sfruttando l'assonanza delle due parole, senza recar danno alla canzone che, anzi, secondo me, ci guadagnava.

Sentite un po': “Voglio ridere così col sole in fronte”, “Voglio ridere e goder l'aria del monte”, “Voglio ridere delle follie del mondo” e così via.

In fondo, una bella risata non ha mai fatto male a nessuno ed anzi, dicono, fa bene alla salute.

Padova 4-2-2022 

Giovanni Zannini

LEGGENDO I TESTI DEGLI ARMISTIZI

Nei libri di storia vi sono parole, espressioni, frasi, informazioni che sono forse sfuggiti all'attenzione degli storici e che meritano di essere conosciuti e commentati, senza escludere - perché ciò implicherebbe una conoscenza illimitata - che essi siano invece già stati oggetto dell'attenzione di altri.

In sostanza, il lavoro di chi, dopo che la trebbiatura era terminata, si soffermava a “spigolare”, raccogliendo i chicchi di grano sfuggiti alle maglie della trebbiatrice.

L' onore delle armi.

E' noto che la cessazione delle ostilità fra gli Alleati e l'Italia avvenne mediante due armistizi: uno sottoscritto a Cassibile (prov. di Siracusa) dal Gen. Bedell Smith per gli Alleati, e dal Gen. Castellano per l'Italia il 3 settembre 1943, reso pubblico l'8 settembre, denominato “Armistizio Breve” con riferimento alla brevità del testo (12 articoli); il secondo sottoscritto a Malta il 29 settembre dal Gen. Eisenhower comandante delle Forze Armate Alleate, e dal Gen.Badoglio Capo del Governo Italiano, denominato “Armistizio Lungo” per la lunghezza del testo composto da ben 44 articoli. .

Ciò premesso, apprendiamo dal bel volume di Elena Aga Rossi “Una Nazione allo sbando” pubblicato dalla Società Editrice “il Mulino” di Bologna nel 2003, che una prima bozza dell' Armistizio redatto dagli inglesi il 24-4 prevedeva all'art.3 che “ alle forze armate italiane sarà concesso l'onore delle armi”. Ma questa bozza venne modificata a seguito dei “rilievi americani ed al lavoro dei Capi di Stato Maggiore congiunti dei due paesi”, cosicchè nel testo definitivo dell'Armistizio Lungo quanto previsto dagli inglesi per i molti atti di valore dei combattenti italiani, scomparve e di onore delle armi alle forze armate italiane non vi è più , in quel documento, alcuna traccia.

Probabilmente perchè mentre le prime trattative per la stipula dell'armistizio avvennero mentre le Forze Armate Italiane, sia pur stremate e sull'orlo del tracollo, esistevano ancora, il Gen. Eisenhower, al momento della stipula dell'Armistizio Lungo si trovò invece di fronte un Capo del Governo italiano ormai privo di forze armate che si erano - poco gloriosamente, diciamolo - dissolte come neve al sole.

In tema di riconoscimento da parte del vincitore del valore del vinto, oltre all'intendimento iniziale, poi revocato, come si è visto sopra, di concedere l'onore delle armi all'esercito italiano, gli inglesi concessero ai loro avversari italiani, dopo la resa, questo onore almeno in due casi - senza poter escludere che ve siano altri -: nella guerra d'Abissinia ai difensori dell'Amba Alagi comandati dal Duca d'Aosta, ed alla bandiera italiana ed alla guarnigione dell'isola di Lampedusa.

Prigionieri

Il trattamento dei prigionieri di guerra alleati in mano italiana fu previsto sia nell'Armistizio Breve che in quello Lungo. Entrambi infatti disponevano che TUTTI I PRIGIONIERI ALLEATI – citando, con specifico riferimento , nell'art.32 dell'Armistizio Lungo, “i sudditi abissini confinati, internati o in qualsiasi altro modo detenuti nel territorio italiano od occupato dagli italiani” - dovevano essere immediatamente consegnati ai rappresentanti delle Nazioni Unite: ed il particolare riferimento ai prigionieri abissini manifesta uno speciale riguardo degli Alleati per coloro che furono per primi vittime della violenza coloniale fascista.

In effetti alcuni resistenti abissini patrioti, soprattutto nobili di rango, che durante l'occupazione italiana avevano combattuto contro l'invasore, furono deportati in varie località italiane (Longobucco, Mercogliano, Roma, Tivoli, Firenze, Varazze, Torino e Palermo): fra questi Ras Immirù che godette di un particolare trattamento perchè dotato di una spiccata personalità che indusse gli italiani ad un certo riguardo.

Orbene, nel Promemoria segreto n.1 del Comando supremo italiano, datato 6 settembre 1943, inviato ai tre Capi di Stato Maggiore allorchè le trattative per la stipula dell'Armistizio Breve erano in corso, emesso per “il caso che forze germaniche prendano di iniziativa atti di ostilità armata contro gli organi di governo e le forze armate italiane”, si danno invece, in tema di prigionieri, disposizioni difformi.

Infatti, al paragrafo n.3 di tale Promemoria si legge che “si potranno anche lasciare in libertà i PRIGIONIERI BIANCHI, trattenendo IN OGNI MODO QUELLI DI COLORE”: una distinzione, come si è visto sopra, non prevista dagli Alleati.

Un evidente razzismo esistente allora negli alti gradi dell'esercito italiano, che tuttora, a distanza di quasi un secolo, malauguratamente ancora sussiste nella testa di molti italiani.

Padova 11-X-2021 

Giovanni Zannini

LA “PARTECIPAZIONE” SFUMATA

Lettera al Direttore della “Difesa del Popolo” - Settimanale della Diocesi di Padova

Nel suo pregevole articolo dell'8 agosto su questo giornale, dal titolo “Senza dignità non c'è sviluppo”, Germano Bertin, Direttore Responsabile di “Ethosjob”, scrive che l'imprenditore “nel creare profitto è in grado di occuparsi e di preoccuparsi di distribuire equamente tra i lavoratori la ricchezza prodotta".

In sostanza egli pare auspicare che in Italia sia realizzata quella “Partecipazione” dei lavoratori agli utili delle imprese, che costituisce un importante principio della dottrina sociale della Chiesa: si pensi che nella sua “Rerum Novarum” del 15 maggio 1891, il Papa Leone XIII scriveva che il lavoratore ha il diritto di “partecipare in alcuna misura di quella ricchezza che esso stesso produce...”.

Ebbene, la Partecipazione – nel suo doppio significato di collaborazione dei lavoratori sull'andamento aziendale e di condivisione degli utili – era stata introdotta in Italia dalla legge n.92 del 28.6.2012 pubblicata sula G.U. n.153 del 3.7.2012.

Essa infatti, all'art.4 – comma 62 – delegava il Governo “ad adottare, entro 9 mesi dalla data di entrata in vigore della presente legge … uno o più decreti legislativi finalizzati a favorire le forme di coinvolgimento dei lavoratori nell'impresa..” e - al punto E – “la partecipazione dei dipendenti agli utili o al capitale dell'impresa...”.

Non vi è chi non veda la straordinaria, epocale importanza di questa legge.

E allora, in Italia vige la Democrazia Economica, c'è la “Partecipazione”, e non ce ne siamo accorti?

Purtroppo no: nella generale indifferenza, mentre tutti si accapigliavano sulle pensioni, mentre gli imprenditori guardavano la novità con sospetto, temendo di perdere il controllo e la libertà di gestione delle loro imprese; e le confederazioni sindacali, legate ad una vieta concezione conflittuale del rapporto fra capitale e lavoro, la snobbavano, il Governo non emise entro i prescritti 90 giorni i Decreti attuativi, per cui, scaduti i termini, i provvedimenti previsti dal comma 62 dell'art.4 della legge n.92/2012, fatalmente decaddero.

Lasciando delusi e sconfortati quanti avevano sperato che l'art.46 della Costituzione italiana (“...La Repubblica riconosce il diritto dei lavoratori a collaborare, nei modi e nei limiti stabiliti dalle leggi, alla gestione delle aziende”) fosse, finalmente, divenuto realtà, con una legge che andava addirittura al dilà del dettato costituzionale che non prevede la partecipazione agli utili.

Ma qualcosa di nuovo va maturando : l'articolo dal titolo “Ora un vero patto sociale basato sulla Partecipazione” comparso sul quotidiano “Avvenire” del 19 maggio 2020 a firma dell'allora Segretaria Generale della Cisl, Annamaria Furlan, chiede che il governo si faccia “promotore di una legge di sostegno per allargare la “governance” delle aziende ai rappresentanti dei lavoratori” per “introdurre nel nostro Paese la Democrazia Economica” onde “rendere più produttive le aziende attraverso il coinvolgimento dei lavoratori” legando “il destino delle aziende a quello dei lavoratori”.

Non parla, la Furlan, di Partecipazione agli utili, ma solo di Partecipazione come coinvolgimento dei lavoratori nell'azienda: ma la sua realizzazione sarebbe un importante passo avanti anche verso quella meta.

E se è vero, come scrive l'articolista, che anche “la CGIL parla oggi di forme di partecipazione dei lavoratori nelle aziende”, le speranze di quelli che hanno sempre creduto e credono nella Partecipazione, si rafforzano.

In attesa che gli industriali dicano se la Partecipazione non è più da essi considerata, come nel passato, un pericoloso attentato alla loro libertà.

Padova 31/8/2021 

Giovanni Zannini