mercoledì 23 gennaio 2013

LE VERE CAUSE DELLE FOIBE


LE FOIBE, QUANDO L’ODIO GENERA ODIO

Riporto qui di seguito la corrispondenza intercorsa fra la D.ssa Italia Giacca, Presidente del Comitato provinciale di Padova dell’ Associazione Nazionale Venezia Giulia e Dalmazia (A.N.V.G.D.), ed il sottoscritto a seguito del mio intervento dopo la proiezione - promossa l’11 febbraio 2012 dall’associazione stessa presso il Centro Culturale Altinate/S.Gaetano - del film “Cuori senza frontiere”.   

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“””
Padova 15/4/2012
                               All’Egregio Signor
                               PRESIDENTE della A.N.V.G.D.
                               Viale Cavallotti n.2
                                35124 - PADOVA 

In occasione della proiezione del bel film “Cuori senza Frontiere” proiettato l’11 febbraio scorso, ad iniziativa della Sua Associazione, presso il Centro Culturale Altinate/S.Gaetano,   presi la parola per esporre il mio pensiero sulle vere cause delle foibe,  e ancora mi brucia che l’ intervento abbia meritato, da parte di una signora, l’accusa di negazionismo e, peggio ancora, di giustificare le infamie compiute dall’Esercito di Liberazione Iugoslavo nei 40 giorni in cui, malauguratamente, spadroneggiò a Trieste e nella Venezia Giulia.     
In realtà ho affermato, e qui lo riconfermo,  che la responsabilità dell’immane tragedia abbattutasi su tante vittime innocenti colpevoli solo di essere italiani, non andava certamente addebitata ai governanti italiani dell’epoca  cui toccò l’improbo compito  di salvare il salvabile nella drammatica situazione d’inferiorità provocata dalla sconfitta.
Nella realtà, essa va invece fatta risalire a Mussolini ed a Hitler per aver ordinato l’invasione della Jugoslavia provocando la reazione dei patrioti jugoslavi insorti – così come  quelli italiani nella guerra di liberazione in Italia – per difendere la libertà della loro patria.
E  furono proprio gli odi ed i rancori  accumulati  dai partigiani di Tito   contro gli invasori  a scatenare la truce vendetta delle foibe contro vittime innocenti,  vero crimine contro l’Umanità che purtroppo nessun Tribunale  Internazionale ha mai condannato.
Contemporaneamente, contestando che in passato la stampa abbia taciuto sulle foibe, rivendicai, almeno per quanto riguarda “La Difesa del Popolo”, il settimanale della Diocesi di Padova con il quale collaboro, il merito  di averne  ripetutamente scritto  anche prima del  mio servizio 13 aprile 1997 qui allegato, solo recentemente reperito.
La prego gradire, Signor Presidente, i miei migliori saluti e l’assicurazione della mia piena solidarietà con la Sua Associazione.
Suo
                                                             Giovanni  Zannini – Pubblicista
                                                                                                                              “””     
Ed ecco la risposta della D.ssa Giacca:
“””
Padova  10 settembre 2012
Egr. dr. Zannini
Mentre per la maggior  parte di persone i mesi estivi sono  tempo di riposo e stacco  dall’attività, io mi ritrovo tra quelli  che rivedono gli eventi trascorsi  in vista dei futuri…Mi sono così accorta di non aver ancora dato risposta  al Suo scritto del 15-4 u.s. e mi scuso per il ritardo.
Veniamo all’intervento in occasione  della proiezione del film “Cuori senza frontiere”, dove Lei ha espresso il SUO pensiero sulle cause delle foibe, intervento che ha provocato un’ immediata replica da parte  di una signora  membro del nostro Comitato. Anche nello scritto ribadisce il Suo pensiero, che cioè le cause delle foibe e dell’esodo sono da attribuirsi “a Mussolini ed a Hitler  per aver ordinato l’invasione della Jugoslavia …e furono proprio gli odi ed i rancori accumulati  dai partigiani di Tito contro gli invasori a scatenare la truce vendetta delle foibe contro vittime innocenti…” (sic).  Egregio dr. Zannini, ora espongo il MIO pensiero: il nazifascismo si è macchiato  di crimini spaventosi, è stato colpevole di un genocidio  senza uguali, ma ritengo un’autentica forzatura  far risalire a questi anche la tragedia  che ha colpito noi italiani di Istria, Fiume e

Dalmazia,   vittime di persecuzioni titine sfociate negli infoibamenti  e nell’esodo.
Leggo proprio, mi permetta, una sorta di giustificazione logica nelle parole “e furono proprio gli odi ed i rancori accumulati…”.
E’ forse lecito accettare che dei crimini commessi in tempo di guerra vengano poi vendicati  con efferatezze inimmaginabili a guerra conclusa?
E’ noto, come scrive lo storico  Guido Rumici “con la presa del potere, nei primi mesi del 1945 da parte delle nuove autorità jugoslave  comuniste iniziarono gli arresti e le deportazioni di migliaia di persone ad opera dell’OZNA, la Polizia Segreta Jugoslava, e in tutta la Venezia Giulia una pesantissima cappa di oppressione e paura avvolse la popolazione”. Aggiungo che le deportazioni e le uccisioni  riguardavano soprattutto coloro che agli occhi dell’OZNA  potevano rappresentare un possibile ostacolo  ai pian i annessionistici jugoslavi: Tito, nel suo piano, voleva arrivare all’Isonzo, non dimentichiamo!
E a tal proposito cito le parole di Milovan Gilas, braccio destro di Tito,  poi caduto in disgrazia “ Nel 1945 io e Kardelj, ministro degli esteri, fummo mandati da Tito in Istria. Era nostro compito indurre tutti gli italiani  ad andare via con pressione di ogni tipo. E così fu fatto”. A mio avviso si tratta  di una confessione che dovrebbe togliere ogni dubbio sulle cause  e sui perché di foibe ed esodo e che mi portano, senza animosità,  ma per amore di equilibri, a formulare l’equazione: shoah sta al nazifascismo di Hitler e Mussolini  come foibe ed esodo  stanno  al comunismo  jugoslavo  di Tito. Due estremismi, due dittature, un unico, sia pur diverso, folle progetto di sterminio. E a tal proposito aggiungo un pensiero tratto dal mio intervento fatto nel Giorno del Ricordo 2011: ”La follia omicida scatenata dai totalitarismi sfrenati  non ha confini, non ha colori  non è da una parte più che da un’altra; è orrore da qualsiasi parte provenga, orrore assoluto, e la nostra potrà dirsi vera civiltà  e vera democrazia quando questo concetto  sarà condiviso, per giungere al bene assoluto, la pace, attraverso la giustizia. Ancora un cenno su quanto la stampa in passato  abbia dedicato a noi. Nel dopoguerra c’era un’atmosfera greve, i governanti avevano da ricostruire un’Italia uscita sconfitta, con le ossa rotte, i mass-media avevano una gittata contenuta… E forse con tutte queste preoccupazioni  si è dimenticato che noi d’Istria, Fiume e Dalmazia, eravamo italiani, anzi,  come più tardi ebbe a definirci Indro Montanelli, eravamo “italiani due volte, per nascita e per scelta!”. E forse ci si è dimenticati  che noi avevamo pagato per tutti  lasciando nella nostra terra divenuta straniera,  i nostri morti nei cimiteri abbandonati e i nostri morti insepolti perchè infoibati;  pagato con lo sradicamento sociale  e umano, pagato con il silenzio  di sessant’anni (qualche sporadico articolo qua e là…). Con dignità abbiamo continuato , senza recriminazioni e senza rivendicazioni: chiediamo, ieri come oggi,  solo rispetto per il nostro dolore, e ci permettiamo di ricordare  che proprio noi, esuli istriani, fiumani e dalmati, con l’abbandono delle nostre terre, abbiamo spezzato la catena dell’orrore e della vendetta: a nostre spese e per tutti gli italiani.       
Con i migliori saluti - Dr. Italia Giacca – Presidente
                                                                                                                   “””
A questa lettera ho replicato con la seguente mia:

“”” Alla Gent.ma Sig.ra D.ssa ITALIA GIACCA–Presidente Sezione   padovana della A.N.V.G.D. – Via Cavallotti n.2 – 35124 – Padova – FAX040/664917
                                                                   Padova 3.10.2012
Ricevo, Gentile Signora, la Sua 10 corr. che ho letto con la massima attenzione, La ringrazio di avermi dedicato un po’ del Suo tempo prezioso sottratto ad un meritato riposo estivo e, in riscontro:

1)    Esprimo la mia più viva solidarietà per gli esuli istriani, fiumani e dalmati che vanno annoverati fra le troppe  vittime incolpevoli di odi scatenati da ogni guerra specie nelle aree di confine  e la mia ammirazione per aver essi saputo reagire all’ingiustizia subita con grande forza d’animo e – nonostante gli scarsi aiuti loro potuti dedicare a causa del caos post-bellico – a costo di duri sacrifici portare nelle terre che li hanno accolti il contributo della loro operosità e del loro ingegno.
    
2)    Concordo  totalmente nel condannare senza alcuna riserva i crimini  commessi dall’esercito di Tito  nel periodo dell’occupazione di Trieste che furono fra i più gravi commessi  nella 2° Guerra Mondiale e che non furono purtroppo adeguatamente puniti dalla giustizia internazionale.

3)    Al Suo quesito “E’ forse lecito accettare che dei crimini commessi in tempo di guerra vengano poi vendicati con efferatezze inimmaginabili a guerra conclusa?”- e, aggiungo io, sulle inermi popolazioni – rispondo: NO, NON E’ ASSOLUTAMENTE LECITO. Ma sappiamo purtroppo che questo divieto di civiltà non viene troppo spesso osservato perché nella realtà, violando il sacrosanto concetto cristiano del perdono, l’odio scatenato dalla maledizione della guerra  produce, inevitabilmente, odio.

4)    A questo punto, per un obbiettivo giudizio storico non posso che confermare quanto già affermato: l’agente provocatore che scatenò questo odio fra italiani e jugoslavi fu, purtroppo, l’Italia fascista.
Non fu infatti la Jugoslavia ad attraversare i nostri confini, bensì l’Italia che , con l’alleato nazista,  violò la sua neutralità occupandola ed attuando una feroce repressione  contro i patrioti jugoslavi e contro le popolazioni che li appoggiavano,  rei di combattere contro gli invasori, così come i patrioti italiani  combatteranno poi contro l’invasore tedesco. Purtroppo, Gentile Signora, anche se è duro ammetterlo,  molti italiani in Jugoslavia , non furono “brava gente”:  basta leggere, fra molti, il libro di Angelo del Boca (giornalista, già presidente dell’Ordine dei Giornalisti) dal titolo “Italiani, brava gente?”  (Neri Pozza Editore- Vicenza 2005 – 5a edizione 2011) che dedica all’argomento un capitolo dal titolo “Slovenia, un tentativo di bonifica etnica”, ricco di bibliografia e di fonti. Da esso traggo una sola, agghiacciante affermazione del gen. Ribotti: ”In Jugoslavia si ammazza troppo poco!”. Crede Ella che tutto quanto accaduto si sarebbe verificato ove non vi fosse stata l’invasione  italiana della Jugoslavia che compromise lo “statu quo”  fra le due  nazioni  scatenando quell’odio di cui anche Lei è rimasta vittima?

5)    Ultima considerazione. Contesto anche ingiusta l’accusa  al governo dell’epoca di non  aver adeguatamente tutelato  gli interessi italiani in sede di trattato di pace.  Esso fece, invece, tutto il possibile, pur in condizione di netta inferiorità, per arginare le tristi conseguenze della sconfitta.  E cito in proposito quanto scritto  il 3 giugno scorso sul Corriere della Sera dal noto, autorevole storico  Sergio Romano secondo il quale alcune settimane prima delle elezioni in Italia del 18 aprile 1948 il governo De Gasperi era riuscito a indurre Inghilterra, Francia e Stati Uniti a  rilasciare una ““dichiarazione tripartita  sulla necessità di attribuire all’Italia  l’intero territorio , ossia la “Zona A” e la “Zona B” “”. Ma nello stesso periodo era avvenuta la rottura fra l’URSS e Tito cosicchè la triade, per non dispiacere al dittatore jugoslavo passato nel campo anti-URSS rinunciò a rilasciare la suddetta dichiarazione in base al vecchio detto per cui  “i nemici dei miei nemici sono miei amici”.
In conclusione,  sono lieto di questa corrispondenza intervenuta fra Lei e me in maniera franca e civile, ben diversa dal linguaggio offensivo  tenuto nei miei confronti , nella nota riunione, da parte di quella focosa signora membro del Consiglio Direttivo dell’Associazione da Lei presieduta. E di constatare che il Suo patriottismo  ed il Suo amore per l’Italia (attestato dal Suo bel nome)  corrispondono perfettamente ai miei.
Le invio i miei saluti – mi permetta - cordiali.
                                                                      Suo  Giovanni  Zannini
                                                                   
 


















martedì 22 gennaio 2013

IL NAZIONALISMO FASCISTA E LA "RESTITUZIONE" DEI COGNOMI

La “restituzione” dei cognomi è una delle forme in cui si è manifestato in passato da parte del  regime  fascista un nazionalismo esasperato, nell’ambito di quelle operazioni definite di “pulizia etnica”.
Si tratta dell’adattamento  dei cognomi di cittadini di una nazione di cui una parte sia stata trasferita sotto la sovranità di un’altra, alla lingua della nazione inglobante.
In Italia l’operazione “restituzione” riguardò i territori del Trentino e del Sud-Tirolo  che dopo la vittoria della prima guerra mondiale erano stati liberati e con il trattato di Rapallo del 20-3-1921  annessi all’Italia. Nel 1926 il fascismo si accorse che, scandalosamente, in quei territori molti cognomi originariamente italiani erano stati tradotti in tedesco  e decise di  porre rimedio a questa  grave situazione.
Così, il 24-5-1926  emanò la legge secondo la quale “le famiglie della provincia di Trento  che portano un cognome originario italiano  o latino tradotto in altre lingue  o deformato con grafia straniera  o con l’aggiunta di suffisso straniero riassumeranno il cognome originario nelle forme originarie… La restituzione in forma italiana sarà pronunciata con Decreto del Prefetto  della Provincia che sarà notificato agli interessati, pubblicato nella Gazzetta Ufficiale  del Regno e annotato nei registri dello stato civile”.
Ed erano anche previste delle penalità: infatti “chiunque dopo la restituzione avvenuta fa uso del cognome o del predicato nobiliare nella forma straniera è punito con la multa da L.500 a L.5.000”.
Successivamente, più di un anno dopo,  il fascismo  si accorse  che questa pericolosa anomalia permaneva anche nelle Province di Trieste, Gorizia, Pola e Zara  i cui territori  erano stati parimente annessi all’Italia dal trattato di Rapallo,  e dove  i cognomi originariamente italiani o latini erano stati tradotti o deformati in lingua croato-slovena.
Così,  il R.Decreto 7-4-1927 estese anche a questi territori le disposizioni della legge 24-5-1926 relative alla “restituzione”  dei  cognomi in forma italiana per cui, ad esempio, i Devetag si videro trasformati in Devetta, i Makutz in Macuzzi, i Percovich in Percuzzi, i Kastelik  in Castelli, i Katalan  in Catalani, i Braikovic in Bravini, i Domancich in Domini, i Lobenstein  in Pierleoni, i Voigt in Castaldi, i Gembrecich in Gembrini, i Beherend in Archer, i Berini in Archi, gli Husel  in Cuselli,  e così via.
Pertanto, anche a seguito di tali   provvedimenti, anziché favorire la pacifica integrazione delle popolazioni alloglotte annesse all’Italia  dopo la fine della prima guerra mondiale,  lo sciocco nazionalismo fascista favorì il sorgere del loro irredentismo. Di quello  tedesco in Alto Adige cui pose fine la saggezza dell’accordo De Gasperi/Gruber,  e di quello  slavo delle popolazioni croate e slovene  che alla fine, sommato ad altri provvedimenti ostili (quali, ad esempio, l’abolizione dell’insegnamento delle loro lingue nelle scuole) ed alla sciagurata invasione italiana della Jugoslavia nell’ultima guerra, portò ai sanguinosi giorni dell’infausta occupazione titina di Trieste,  alle foibe ed all’esodo di 350.000 italiani  che, vittime della politica nazionalista fascista, furono  scacciati dalle loro terre.
                                                                                                        Giovanni  Zannini 
                                                                                                                                      
  


giovedì 17 gennaio 2013

IL LAMENTO DI CLARETTA

Il libro “Dongo – La fine di Mussolini” – Arnoldo Mondadori Editore 1962) scritto a 4 mani da Pier Luigi Bellini delle Stelle (“Pedro”), comandante della 52° Brigata partigiana Garibaldi che il 27 aprile 1945                         catturò a Dongo Benito Mussolini e l’amante Claretta Petacci assieme ad alcuni ministri del suo governo fantoccio, e da Urbano Lazzaro (“Bill”) vice Commissario Politico,  costituisce un importante documento storico del tragico avvenimento e stupisce per il taglio obbiettivo e pacato con cui i fatti sono raccontati: nessuna  espressione  ingiuriosa verso gli importanti prigionieri così gravemente colpevoli caduti inaspettatamente nelle loro mani, ciononostante trattati con correttezza militare e, talora, fatti anche oggetto di gesti umanitari.
Colpisce, in particolare, il colloquio fra il comandante Pedro (un nobiluomo di sentimenti monarchici che per le sue notevoli capacità militari è stato eletto comandante di una brigata partigiana comunista), e la “prigioniera” Clarice Petacci detta Claretta. Esso avviene in una piccola stanza a piano terra del comune di Dongo ove alla data sopra indicata la donna viene richiusa assieme a Marcello Petacci, all’ amante ed a due suoi figlioletti. Inizialmente essa sostiene che, dovendo recarsi in Svizzera, era stata  accolta a bordo della vettura del Petacci (suo fratello, che si fingeva  un Console Spagnolo) a titolo di cortesia dato che egli era colà diretto.
Ma, di fronte alle contestazioni di Pedro cui Mussolini ha rivelato, in un precedente colloquio, che la signora è la sua amante,  confessa la sua vera identità ed inizia un colloquio patetico con il comandante partigiano - che la tratta con rispetto - durante il quale racconta la storia del suo amore per Mussolini.
A vent’anni, dice, lo  aveva  conosciuto ad una festa restando colpita dalla sua ”personalità fortissima,   per quell’impressione di audacia e di sicurezza che dimostrava. Era allora un vittorioso della vita…” e non vi è dunque da stupirsi che  anch’essa, come molte altre donne,  ne sia rimasta soggiogata.     
Osservandolo, Claretta si avvede però che, nonostante i suoi continui successi sentimentali, l’uomo non è soddisfatto perché non aveva mai incontrato l’amore vero dalle donne che se lo contendevano e si concedevano a lui  solo per ottenere vantaggi materiali  o per ambizione.
 E quando si accorge che è lei  la donna disposta ad amarlo non per interesse o favori, ma con la vera “missione” di  essere per lui  “una dolce e cara amica dalla quale si corre quando si ha bisogno di sfuggire …alle tempeste della vita, per rifugiarsi  in un posto tranquillo, in un’atmosfera di serenità e di pace”, il duce stabilisce con lei  quella “comunione intima dello spirito” che è sempre stata l’aspirazione segreta dell’anima di Claretta.
Un amore, dunque, vivo, sincero ed intenso, disinteressato, che la porta a superare la gelosia “per tutte le amanti che ha avute : lo comprendevo e lo perdonavo…e sopportavo con rassegnazione  tutti i suoi tradimenti…Mi contentavo di essere la padrona della sua anima e dei suoi sentimenti…e di essere la sua consolatrice e la confidente dei suoi  segreti dolori, mi accontentavo…che con me sola si sfogasse di tutte le amarezze che gli cagionava il potere, intrighi, lotte fra coloro che egli aveva favorito, influenze misteriose…e altre questioni che io neanche capivo  ”, dice la donna tra le lacrime. E tale da indurla a seguirlo anche nel momento della disgrazia, anziché mettersi in salvo con i suoi all’estero, come avrebbe potuto facilmente fare.
 Pedro che, lo confessa, è un po’ commosso di fronte a quelle lacrime, le rifaccia di essere stata, invece, per tanto tempo  la consigliera del duce e di essersi occupata di politica: ma la donna nega recisamente.
“Non ho mai avuto” dice “ l’idea di occuparmi di politica  o di cose di governo,  oppure di consigliarlo in tal campo…ho usato l’influenza che avevo su di lui per raccomandare qualcuno  - ufficiali, gerarchi, pezzi grossi caduti in disgrazia - che venivano a pregarmi di perorare  presso di lui la sua causa. E tutti ho cercato di aiutare perché ho sempre voluto fare del bene ad altri...Perfino (pensi che umiliazione) le sue amanti delle quali si era stancato dopo breve relazione venivano a me per raccomandarsi. Ed anche per loro, creda, mettevo spesso una buona parola…”.      
Emerge, dunque, da questo colloquio – e ciascuno è libero di credervi o no - la figura di una donna disinteressata che desidera evidenziare, al  dilà  dell’aspetto sessuale ed erotico, soprattutto il lato sentimentale ed affettivo che la legava al duce, ed il suo intento di  utilizzare i vantaggi  che le derivavano dal rapporto con lui solo per fare del bene agli altri, perfino (e questo è, francamente, assai difficile da credere)  alle  amanti  che in gran numero venivano scaricate da Mussolini.
 Nel corso del colloquio la donna chiede quali siano le intenzioni dei partigiani nei confronti suoi e di Mussolini, e Pedro le risponde di non poterle dir nulla perché in attesa di ordini dai suoi superiori .
Per quanto la riguarda, la Petacci ritiene “di non aver niente a che fare con le autorità: chi vuole che si occupi di una povera donna come me? Io non ho delitti o colpe di cui rispondere , non possono accusarmi di niente, e quindi mi lasceranno certamente libera ”, mentre più la preoccupa il destino del suo amante che, a suo avviso, andrebbe consegnato agli Alleati.
Decisa è la reazione di Pedro: Mussolini, secondo lui,  non andrà consegnato agli Alleati perché “la questione riguarda esclusivamente gli italiani e solo noi siamo in diritto di giudicarlo” al che la donna replica, sdegnata:”Un processo? E’ terribile…meglio sarebbe stato, allora, che morisse subito…”. E l’altro: ”Avrebbe potuto morire subito, signora. Quando  è stato scoperto e arrestato, era armato e in mezzo ai suoi uomini. Perché  non ha cercato di difendersi ingaggiando combattimento? Avrebbe potuto, quasi certamente, uscire vincitore, oppure sarebbe stato ucciso combattendo,  e sarebbe certamente stata una fine più dignitosa per lui”. “Era troppo abbattuto, troppo spossato…non avrà avuto la forza…” è la risposta.
Il colloquio (durato, scrive Bellini delle Stelle, “un’ora buona e forse anche più”) è finito, ed il partigiano, dopo aver salutato ed averle confermato che finchè dipenderà da lui, nulla di male le potrà accadere, si avvia alla porta, ma la donna lo ferma  invocando: ”Mi  metta con lui!”.
Pedro risponde che prima di decidere sulla sua richiesta, si deve consultare con i compagni, ed esce.
“Neri” (Luigi Canali – Capo di Stato Maggiore della Brigata) e “Pietro” (Michele Moretti -                                      Commissario politico)  interpellati, dicono di non aver nulla in  contrario alla riunificazione dei due amanti: e quando  il comandante le riferisce  che la sua richiesta è stata accolta,  la Petacci, fra le lacrime, mormora “Grazie! Grazie” ed afferra la mano dell’uomo, che la ritrae, per baciargliela.
L’episodio è certamente toccante, e Pedro scrive:”…A tanto giunge dunque l’amore di quella donna! Non posso ora evitare  di guardarla con ammirazione e pietà”.
Esso manifesta altresì il comportamento corretto dal punto di vista militare - ed in alcuni casi umanitario  – tenuto dai partigiani che catturarono Mussolini, l’amante ed il suo seguito,   nei loro confronti.
Ben diverso da quello del  colonnello Valerio che irrompe a Dongo carico di odio e di quei sentimenti di vendetta che avranno il loro culmine nell’indegno  tumulto popolare di Piazzale Loreto infliggendo  una così grave ferita alla nobiltà della lotta di liberazione italiana.                                   Giovanni  Zannini
Padova 14.1.2013    

lunedì 14 gennaio 2013

GARIBALDI PROFETA DELL'UNIONE EUROPEA E DEL DISARMO


Il 15 ottobre 1860,  sancita l’annessione delle Due Sicilie al Regno d’Italia, Garibaldi considera conclusa la  missione dei Mille ed allarga lo sguardo all’infuori dell’Italia scrivendo  di suo pugno un “Memorandum alle Potenze d’Europa” che non può  non stupire per la lucida trattazione di argomenti tuttora di viva attualità:  l’eliminazione delle spese militari ed il conseguente disarmo.
Egli parte dalla considerazione che la Francia, l’Inghilterra, la Russia, la Prussia, l’Austria (e altri “stati secondari che per spirito di imitazione  e per fare atto di presenza, sono portati ad imitarli”) erano costretti, a causa “dello stato agitato”  dell’Europa ove “passiamo la nostra vita a minacciarsi continuamente e reciprocamente”, a dotarsi di eserciti sempre più potenti e costosi.
E ciò nonostante che in Europa “non solo la grande maggioranza dell’intelligenza, ma degli uomini di buonsenso, comprende perfettamente che potremmo pur passare la povera nostra vita senza questo perpetuo stato di minaccia e di ostilità degli uni contro gli altri…che sembra fatalmente  imposta ai popoli da qualche nemico segreto  ed invisibile dell’umanità  di ucciderci  con tanta scienza e raffinatezza”.
Come, quindi, si chiede Garibaldi, eliminare quelle cause “che rendono febbrile  e tormentano ogni giorno  questo povero popolo?”.
“Che la Francia e l’Inghilterra”  risponde, “ si stendano francamente, lealmente, la  mano, e l’Italia, la Spagna, il Portogallo , l’Ungheria, il Belgio,  la Svizzera, la Grecia,  la Romania verranno esse pure, e per così dire, istintivamente, a raggrupparsi intorno a loro”.
“Ma” si chiede ancora “in  tal caso, dato che i conflitti interni all’Europa sarebbero eliminati,  che fare di questa innumerevole  massa di uomini impiegati  ora nelle armate  e nella marina militare?”.
“La risposta è facile” afferma, ”nel medesimo tempo che verrebbero licenziate queste masse… lo spirito dei sovrani  non  più preoccupati dall’ambizione, dalle conquiste, dalla guerra, dalla distruzione, sarebbe rivolto invece alla creazione  di istituzioni utili… alle famiglie ed agli individui. D’ altronde,  la quantità  incalcolabile di lavori  creati dalla pace…ingoierebbe tutta questa popolazione armata, fosse anche il doppio di quello che è oggi.   La guerra non essendo quasi più possibile, gli eserciti diverrebbero inutili e gli immensi capitali strappati quasi sempre ai bisogni ed alla miseria dei popoli per essere prodigati in servizio di sterminio, sarebbero convertiti  invece a vantaggio del popolo in uno  sviluppo colossale dell’industria, nel miglioramento delle strade, nella costruzione di ponti, nello scavo di canali che salverebbero dalla miseria e dalla ignoranza povere creature che in  tutti  i paesi del mondo sono condannate  dall’egoismo delle classi privilegiate e potenti all’abbrutimento, alla prostituzione dell’anima o della materia…”.   
Infine, la conclusione, nobile, con un riferimento a quel Dio (anche se non collimante in tutto con l’ortodossia cattolica)  in cui Garibaldi credeva: “ Desidero ardentemente che le mie parole  pervengano a conoscenza di coloro a cui Dio confidò la santa missione di fare il bene , ed essi lo faranno certamente preferendo ad una grandezza falsa ed effimera la vera grandezza, quella che ha la sua base nell’ amore e nella riconoscenza dei popoli”.
Non è chi non veda come l’auspicio garibaldino di un’Europa unita si sia in gran  parte realizzato – anche se molti passi in avanti si debbono ancora fare -  con  la caduta delle frontiere, la moneta unica, un Parlamento rappresentativo ed una legislazione comune in determinate materie  per cui l’ipotesi  di una guerra fra gli stati  che costituiscono l’Unione Europea appare, francamente, impensabile.  
Eppure,  di disarmo,  che dovrebbe essere la logica conseguenza di un’Europa rappacificata, oggi non si parla proprio,  dimentichi delle parole di un grande italiano che ha passato gran parte della propria vita in mezzo al sangue ed al dolore delle battaglie.
Anzi, ogni stato europeo continua tuttora  non solo a  mantenere le proprie forze armate, ma anche  ad adeguarle ai più recenti  strumenti  di distruzione e di morte: ed anche l’Italia  dimentica dell’invito di un suo grande figlio a riconvertire le spese militari in  opere di pace e di benessere sociale,  stanzia miliardi per l’acquisto di inutili caccia-bombardieri e di inutili sommergibili.  
Purtroppo,  quello che Garibaldi un secolo e mezzo fa definiva un  “nemico segreto  ed invisibile dell’umanità capace di ucciderci con tanta scienza e raffinatezza”, esiste tuttora, è vivo e vegeto e si chiama, con  linguaggio aggiornato e quasi elegante “lobby”, la “lobby delle armi”,  che tutti gli uomini di buona volontà (e speriamo che il partito che vincerà le prossime elezioni, voglia occuparsene) debbono combattere e, speriamolo,  sconfiggere.                      Giovanni  Zannini
Padova 9-1-2013 


IL "KAMIKAZE" DI DIEPPE


IL “KAMIKAZE” DI DIEPPE

Nell’agosto 1940 si verificò a Dieppe un episodio che va considerato alla stregua delle azioni suicide compiute dai “kamikaze” giapponesi durante la seconda guerra mondiale.
Già a quella data, dopo l’armistizio franco-tedesco del 22 giugno 1940 si stava organizzando la resistenza dei francesi contro l’occupante germanico e quell’episodio clamoroso va inquadrato in questo contesto.
Un rimorchiatore carico di ben 36 soldati tedeschi al comando del capitano belga Joseph Godu – uomo carico di odio contro i nazisti che avevano violato il territorio belga per aggirare l’altrimenti inviolabile linea Maginot francese - saltò in aria il giorno 23 all’inizio del canale d’ingresso del porto di Dieppe  ostruendolo, rendendolo impraticabile per molto tempo e arrecando così gran danno al nemico.
Incerto il motivo per cui quei soldati si trovassero a bordo del rimorchiatore.
Alcuni affermano che  Godu fosse stato comandato dall’autorità germanica ad effettuare il trasporto; altri, che egli avesse invitato quanti più militari possibile ad una gita in mare per godere di una fresca brezza in un’afosa giornata d’agosto.
Sta di fatto che, giunto nel luogo stabilito, il capitano non esitò ad azionare il comando che fece esplodere la sua nave perendo egli stesso, con il suo motorista Jean de Ruygk, assieme agli odiati soldati tedeschi.
Il fatto suscitò grande clamore e convinse molti altri patrioti francesi ad una guerriglia combattuta con coraggio e determinazione che diede un contributo notevole alla finale liberazione della Francia dall’invasore tedesco.
                                             Giovanni Zannini     

venerdì 11 gennaio 2013

LA PROVA FALLITA



LA PROVA FALLITA.

Racconto

Mario e Fiorella, terminata la cena, sono seduti uno accanto all’altra sul divano in soggiorno e lui le passa amichevolmente un braccio sulle spalle.
“Dunque” dice lui “ le cose, riconosciamolo, non sono andate bene e quindi occorre tirare le fila”.
“E’ vero” risponde lei “l’altro ieri è scaduto l’anno di matrimonio in prova e, contro tutte le previsioni, è stato un fallimento”.
“Peccato” assente Mario con un sospiro “ perché eravamo innamorati cotti, ma poi, per precauzione, abbiamo deciso di passare un anno insieme prima di sposarci. Pareva che tutto andasse bene, ma poi, purtroppo,  sono emersi i difetti…”.
“I tuoi, vorrai dire” replica l’altra,  un po’ seccata “perché la tua indolenza, la poca voglia di lavorare, e la tua pigrizia, apparse evidenti,  non sono certo delle gran virtù”.
E Mario: “Scusa, sai, ma già che siamo in argomento, anche tu non è che il tempo lo utilizzi al meglio. Quante ore stai allo specchio, per aggiustarti i capelli, e poi le creme viso-corpo, i massaggi, i raggi ultravioletti, la manicure, la pedicure, il fondotinta,  gli ombretti,  la depilazione ecc., per cui, il più delle volte, tornando a casa,  invece di trovare il pranzo pronto, mi tocca cuocermi gli spaghetti e poi aprire una carne in scatola. E poi sei lenta, lenta…”.
”Piano” lo interrompe Fiorella togliendosi il braccio di Mario dalle spalle  riposizionandolo sulle ginocchia di lui “dal momento che hai voluto toccare questo tasto, ti devo dire, con franchezza, che in fatto di lentezza per certe cose, tu mi capisci, mi batti sonoramente, e debbo dirti che certe volte l’attesa troppo prolungata è nociva e fa scappare la voglia: e poi, una volta ogni quindici giorni, lasciatelo dire, è veramente troppo poco…”.
“Sarà” ammette  l’altro, “ posto che io sia un po’ lento, tu, invece, vuoi tutto e subito, e questo non è carino perché una certa preparazione ci vuole pure. E poi…”.
“Ancora?” insorge la donna, tra il curioso e il risentito.    
“Vedi, cara,” fa Mario, con un tono di voce amabile, “far l’amore è una cosa bella,  distensiva, delicata, romantica, e tu, invece, quei momenti li trasformi in un combattimento corpo a corpo. E poi quelle grida,  quegli strepiti che allarmano il condominio e che la notte mettono in imbarazzo i condòmini quando i figlioletti chiedono loro se la Fiorella sta male, e loro a spiegargli che in effetti  lei è talora soggetta a dolori lancinanti che la fanno disperare. Scusa se te lo dico, ma quelli sembrano l’acuto di una soprano stonata, l’urlo di Tarzan, l’invocazione d’aiuto di chi sta per affogare, il grido del fantaccino che va all’assalto alla baionetta e perfino quello del giapponese che si sta facendo karakiri,….”.
“Ah, perché tu, invece” lo ferma Fiorella prima che l’altro continui ad imputarle i  i suoni più assortiti “ pensi che dalla tua bocca escano solo parole dolci ed espressioni  delicate ? Basta che tu, chiudendo un cassetto,  ti schiacci  un dito, perché si aprano le cateratte delle ingiurie con riferimento soprattutto ad  una parte intima (assai importante, per cui non comprendo perché gli uomini, quando sono arrabbiati, se la prendano tanto con quella) del tuo corpo,  con maledizioni varie ai santi, o con chiari riferimenti ad una certa categoria di donne, con un profluvio di parole affatto amabili , anzi, decisamente degne di biasimo. Per non parlare di altri rumori che attestano  indiscutibilmente l’ottimo stato del tuo apparato digerente, ma che, se non trattenuti, fanno, francamente,   schifo. La confidenza, è vero, è una bella cosa, e in casa sua ognuno deve potersi rilassare purchè non si trasformi in un mau-mau o in uno scaricatore di porto fra i quali, è doveroso dirlo,  se ne trovano anche alcuni  di quelli educati e di  buone maniere”.
A questo punto, quasi avessero esaurito il bilancio di   quell’anno di convivenza, i due tacciono, e dopo un po’ Mario rompe quel silenzio che si è fatto un po’ imbarazzante: ”Ma è inutile recriminare il passato, ora guardiamo al futuro: cosa pensi di fare, adesso?”.
“Dopo Francesco, di cui ti ho  già parlato, e te, mi metto ancora  in prova matrimoniale sperando che sia la volta buona” risponde, disinvolta, la donna.
E Mario, incuriosito, con un sorriso: “E posso chiederti  con chi effettuerai il prossimo collaudo?”.
“Tra noi, ormai,   è inutile fare misteri, e allora sappi che sono già in trattative col Carlo Ferretti”.
“Lui? Lo conosco benissimo” dice Mario,”e sono sicuro che farà al caso tuo perché non  ha tutti i miei difetti: ottimo lavoratore indefesso, molto attivo (lo chiamano “Trapano”) con le donne (e questo, penso, ti farà molto piacere),  ha  stile, morigerato nel mangiare e nel bere, non emette mai  suoni molesti trattenendosi, all’occorrenza,  con eleganza, si astiene dal turpiloquio e non infierisce sui santi. Sono sicuro che il collaudo avrà buon esito e ti auguro ogni bene”.
“Grazie, anche se per conoscere a fondo gli uomini un anno è troppo poco, e alla lunga le magagne vengono fuori. Per questa volta la tento ancora anche se  oramai penso che di uomini senza difetti non ce ne sono proprio per cui, a un certo punto, conviene rischiarla sposando quello che ti pare ne abbia di meno, anche senza esserci andata a letto prima. Ma adesso andiamo a dormire perchè si è fatto tardi”.
“D’accordo” conclude Mario “ e domattina svegliami in tempo che ti aiuto a far le valigie”.                                         

                                                                                                                                 Giovanni  Zannini





domenica 6 gennaio 2013

DAL CAIRO AD AMMAN VIA MONTE SINAI


DAL CAIRO AD AMMAN VIA MONTE SINAI

Un deserto di montagne.

Il fascino di questo viaggio che dall’Egitto conduce in Giordania è costituito dal costante  colore del territorio attraversato, inusuale per noi europei: un biondo sabbia di fondo che si colora secondo le ore del giorno, divenendo dorato con il sole, azzurrino al suo declinare, lunare nella notte.
Una situazione emergente, per contrasto, dalle parole di un ragazzo egiziano allievo di una scuola di lingue - fra cui l’italiano che parlava sorprendentemente bene - per il quale era straordinario ed incredibile il fatto che, invece, dalle nostre parti le montagne fossero verdi.
Il deserto nel Sinai egiziano ed in Giordania, almeno quello attraversato nel viaggio, non è, come ci si aspetta, quello classico formato da dune ondulate e morbide che il vento sposta e rimodella continuamente come in Africa.
Si tratta, invece, di una distesa infinita di terra mista di sabbia, sassi e radi cespugli, sul quale insistono montagne di arenaria – depositatasi nei secoli sul fondo dei mari e venute in superfice a seguito di chi sa quali ciclopici sconvolgimenti – che salgono da terra assai spesso di colpo, senza declivio, con gole e spaccature nella roccia che mettono in evidenza un accostamento di colori – sintomo dei minerali più vari – straordinari.
Un mix tale (azzurro,  bianco, ocra,  nocciola,  giallo,  marron,  nero,  mattone)da far dire orgogliosamente ai giordani – se non è vera, è ben trovata – che Missoni abbia tratto ispirazione per i suoi famosi, policromi maglioni, proprio dai colori delle loro montagne.

Nuove ricchezze

E si comprende, grazie a questo viaggio, perché egiziani ed israeliani si siano scannati così a lungo per il possesso di una terra dall’apparenza povera ed inospitale come il Sinai.
Solo in apparenza, però, perché molti pozzi segnalano un sottosuolo ricchissimo di petrolio che già assicura l’autosufficienza all’Egitto, a prezzi incredibilmente bassi che impressionano – specie di questi tempi… - lo straniero.
Perché  i minerali più vari -  dei quali sono spie i colori fantastici di cui più sopra si parlava – vengono estratti in maniera ormai industriale; e perché, ancora, i progressi nella tecnica dell’irrigazione (grazie all’abbondanza di energia elettrica derivante dalla diga di Assuan che giunge fino al fondo della penisola sinaitica e viene, oltretutto, venduta alla confinante Giordania) consentono insediamenti balneari sul mitico mar Rosso, di cui Sharm el Sheikh è l’esempio più noto e vistoso, e il fiorire di un’agricoltura che va sempre più sviluppandosi.   
Il Sinai punteggiato anche dalle grandi tende nere dei beduini, popolo nomade che vive non si sa con quali risorse nel deserto, mal visti dagli altri egiziani che li rimproverano di essere stati durante la guerra dalla parte degli israeliani.
E talmente inaffidabili da essere dispensati dal servizio militare, cosa che si ritiene non spiaccia loro affatto.  
Sospettati, infine, di coltivare in località inaccessibili del deserto note solo a loro, marijuana e simili, e di farne commercio.

Dove la fede si tocca con mano.

Il viaggio in Egitto e Giordania consente al pellegrino di confermarsi, ove occorresse, in quanto aveva sin allora creduto per fede.
Alcuni nomi delle località rimasti invariati nei secoli, i resti di chiese, pozzi d’acqua,  fonti battesimali citati nella Bibbia che emergono da scavi portati avanti anche se con difficoltà – le solite, finanziarie -  consentono di “vedere”, fisicamente, il cammino di Mosè verso la terra promessa.
Il culmine, l’acme, la cima del monte Sinai: chi ha avuto la  forza di salirlo, ne è rimasto impressionato, e mai potrà dimenticare l’emozione che lo ha colpito.
Ma anche chi si è arrestato al monastero di Santa Caterina  che custodisce il Roveto Ardente  da cui Iddio si è manifestato a Mosè, ha avuto la sua parte di grande spiritualità e la preghiera è sgorgata spontanea dalle sue labbra.
La santa onorata in questo sito, si noti, non è la Caterina da Siena italiana, sibbene la vergine Caterina d’ Alessandria d’Egitto – martirizzata  sotto l’imperatore Massimino – il cui corpo venne prodigiosamente trasportato ai piedi del Monte Sinai. 
Vicenda, questa, ben nota ai padovani che onorano - nella chiesetta a lei dedicata in via Cesare Battisti, famosa anche per conservare le spoglie di Giuseppe Tartini, il mitico violinista settecentesco - la santa  protettrice dei “legisti” delle Università di Padova e di Parigi, nonché delle ragazze da marito che da lei, in Francia,  presero appunto il nome di “Caterinette”.
E poi, a Betania, in Giordania, il fiume Giordano nelle cui acque Giovanni battezzò il Salvatore – e le pietre, ancora una volta, parlano -  ed il monte Nebo, donde Mosè vide dall’alto la terra promessa, simbolo di come il credente con la preghiera e la partecipazione al sacrificio eucaristico possa intravvedere la vita eterna che l’ attende.


Un viaggio d’attualità

Accanto alla soddisfazione spirituale, il viaggio consente di approfondire, grazie a guide turistiche colte e ben informate,  le conoscenze del mondo musulmano, argomento, oggi, di grande attualità, facendo cadere pregiudizi e luoghi comuni.
E la scoperta di una meta, la Giordania, che per la ricchezza della sua offerta: ambiente,  storia, archeologia,  religioni,  arti, etnie, perfino splendide spiagge sul mar Rosso a sud di Aquaba -  il suo sbocco al mare -  ha di fronte a sé un avvenire turistico che, ancora agli inizi, ma già ben avviato, è destinato ad esplodere nei prossimi anni.    
Un viaggio, dunque, che non solo consente di conoscere mentalità, principi religiosi, il funzionamento delle scuole, del servizio sanitario e così via, di Egitto e Giordania, ma anche notizie spicciole e  curiose.
Così, la complessa e lunga procedura per combinare un matrimonio,  che prevede spesso la cosiddetta “dote in ritardo” ossia un accordo scritto per risarcire la donna in caso di ripudio; gli aggettivi poetici che talora accompagnano i nomi di località (Amman-la città bianca; Il Cairo-la città vincente; Sinai-terra del turchese; sul Nilo una “Isola del Paradiso”); i dromedari (quelli con una gobba sola, non i cammelli che ne hanno due) che si vedono numerosissimi in Giordania ma non nel deserto del Sinai le cui rare erbe sono oltretutto velenose; le ben 22 università esistenti in Giordania che assicurano un buon livello culturale a molti dei suoi 5 milioni di abitanti ed una scuola per l’insegnamento dell’arte musiva, che si vuole far rivivere, nata con la collaborazione della scuola italiana per mosaicisti di  Spilimbergo.
E una popolazione dignitosa anche se talora indigente, ma non ostile verso lo straniero la cui sicurezza è garantita da un servizio d’ordine evidentissimo in Egitto,  discreto ed occhiuto in Giordania dove c’è ma non si vede, per cui, data la globalizzazione, purtroppo, del rischio, le ipotesi di attentati 
in Egitto o Giordania non sono maggiori di quelli che potrebbero verificarsi, mettiamo, a Reykjavik in Islanda o a  Lima in Perù.
L’unico pericolo che i pellegrini possono incontrare mentre, di notte (per evitare la calura del giorno) ascendono il monte Sinai, è quello di essere investiti dai dromedari che trasportano quanti non si sentono di fare la scarpinata a piedi. Te li trovi di fronte, o dietro, nel buio, senza preavviso, silenziosi,  dato che non sono muniti (come qualche europeo sostiene dovrebbe essere…) di segnalazioni acustiche né di fanali e catarifrangenti: e se non li scansi ti urtano senza tanti complimenti.
Ma è un pericolo che, per fortuna, non fa danni a nessuno ed anzi dona qualche momento di allegria.
                                               Giovanni Zannini
Padova 4 settembre 2004






  






  

giovedì 3 gennaio 2013

ATTENTI ALLE SIGLE


“E’ incredibile” mi dice un amico,”come cambiano i tempi. Ti ricordi gli anarchici, quelli che tiravan bombe e sparavano ai re?
Ora ti accompagnano a visitare le ville, i giardini  ed i  castelli dei miliardari, illustrandoti le origini, gli stili e gli antenati dei proprietari, dimentichi di come quelli, assai sovente con pochi scrupoli, abbiano fatto i quattrini”.
Gli dico che la cosa mi farebbe piacere perché la pace sociale è una bella cosa, ma che non ci credo, ed allora l’altro mi sbatte in faccia un giornale che titola “FAI (ossia la FEDERAZIONE ANARCHICI ITALIANI, mi spiega l’amico)apre le porte a splendide ville ed antichi manieri”.
Incredulo, telefono al direttore del giornale il quale trattandomi come se fossi un deficiente, si stupisce che io non sappia che la sigla FAI riguarda sia la FEDERAZIONE ANARCHICA ITALIANA, sia  il benemerito FONDO AMBIENTE ITALIANO organizzatore di varie iniziative ambientalistico-culturali. Attenti, però, a non confonderlo con la FAI-FEDERAZIONE  AUTOTRASPORTATORI ITALIANI, e neppure con la FAI – FEDERAZIONE ANTIUSURA ITALIANA che sono tutt’altra cosa.
Un giorno sento alla radio che l’ABI indice una serie di conferenze per approfondire la conoscenza del Vecchio Testamento, argomento che mi ha sempre interessato.
Mi stupisce un po’ che adesso i banchieri sin qui dediti alla  speculazione e ad affari non sempre limpidissimi, si mettano a divulgare salmi e libri dei Profeti, ma, pensando che lo facciano per ottenere dal Buon Dio il perdono per i suddetti peccati, mi reco in una banca per avere migliori informazioni.
Anche lì mi trattano come il direttore di quel tal giornale chiarendomi, con supponenza, che per il Vecchio Testamento occorre rivolgersi non alla ABI-ASSOCIAZIONE BANCARIA ITALIANA, sibbene alla ABI-ASSOCIAZIONE BIBLISTI ITALIANI.
Un’altra volta, in campagna elettorale, desideroso di informarmi sul programma della CDL, mi reco all’indirizzo indicato su di un manifesto e resto di sasso di fronte ad una marea di bandiere rosse e ad un gruppo di compagni che canta a squarciagola bandiera rossa.
Ma come, mi dico, Berlusconi che ce l’ha a morte con i comunisti, fa sventolare nelle sue sedi vessilli scarlatti e fa intonare dai suoi fedelissimi canzonacce anticapitalistiche inneggianti alla rivoluzione? E’ proprio vero che in politica non ci si deve stupire di nulla, neppure quando l’Uomo di Arcore si allea con i rossi. 
I quali a momenti mi menano pensando che li voglia prendere in giro se pretendo di trovare il suddetto dalle loro parti: “questa è la CDL-CAMERA DEL LAVORO”  mi dicono guardandomi con occhio non benevolo, “e se vuoi sentire le baggianate del  “cavaliere”, vai alla sede della CDL-CASA DELLE LIBERTA’, perché qui hai sbagliato indirizzo”.
Insomma, non voglio essere noioso raccontando i vari equivoci in cui sono  caduto a causa delle maledette “sigle”.
Mi sia però consentito di chiedere umilmente ai giornalisti ed a tutti quelli che le usano, di avere la bontà di dettagliare il loro significato perché non si può pretendere che il normale cittadino le conosca tutte per filo e per segno.
Ad evitare, ad esempio, di confondere, l’ACI-AUTOMOBILE CLUB D’ITALIA, con l’ACI-ASSOCIAZIONE CANONISTICA ITALIANA, la PAC-POLITICA AGRICOLA COMUNE, con PAC-PIANI ACCUMULO CAPITALI o con i PAC-PROLETARI ARMATI per il COMUNISMO, la CIA-CONFEDERAZIONE ITALIANA AGRICOLTURA con la famosa CIA americana, il CIS-CENTRO INVESTIGAZIONI SCIENTIFICHE (dei CC) con il CIS, il bollettino Rai “viaggiare informati”, il GAS per cuocere la pastasciutta con il GAS-GRUPPO ACQUISTI SOLIDALI, il CUS-CONTO UNICO SPETTACOLO con il CUS-CENTRO SPORTIVO UNIVERSITARIO, l’ANCI-ASSOCIAZIONE NAZIONALE COMUNI ITALIANI con l’ANCI-ASSOCIAZIONE NAZIONALE CALZATURIERI ITALIANI, la RSI-REPUBBLICA SOCIALE ITALIANA con la RSI-RESPONSABILITA’ SOCIALE d’IMPRESA, l’inglese RAF-ROYAL AIR FORCE con la RAF-ROTE ARMEE FRAKTION (organizzazione tedesca di estrema sinistra), il COI-CENTRO ORIENTAMENTO PASTORALE, con il COI-COMANDO OPERATIVO INTERFORZE, l’ANGOLO di un triangolo con l’ANGOLO-ASSOCIAZIONE NAZIONALE GUARITI 0 LUNGOVIVENTI, e qui mi fermo anche se l’elenco potrebbe continuare ancora a lungo.
E chi sa che qualche/0
                                    Padova 6.5.2005


ATTENTI ALLE SIGLE

“E’ incredibile” mi dice un amico,”come cambiano i tempi. Ti ricordi gli anarchici, quelli che tiravan bombe e sparavano ai re?
Ora ti accompagnano a visitare le ville, i giardini  ed i  castelli dei miliardari, illustrandoti le origini, gli stili e gli antenati dei proprietari, dimentichi di come quelli, assai sovente con pochi scrupoli, abbiano fatto i quattrini”.
Gli dico che la cosa mi farebbe piacere perché la pace sociale è una bella cosa, ma che non ci credo, ed allora l’altro mi sbatte in faccia un giornale che titola “FAI (ossia la FEDERAZIONE ANARCHICI ITALIANI, mi spiega l’amico)apre le porte a splendide ville ed antichi manieri”. 
Incredulo, telefono al direttore del giornale il quale trattandomi come se fossi un deficiente, si stupisce che io non sappia che la sigla FAI riguarda sia la FEDERAZIONE ANARCHICA ITALIANA, sia  il benemerito FONDO AMBIENTE ITALIANO organizzatore di varie iniziative ambientalistico-culturali. Attenti, però, a non confonderlo con la FAI-FEDERAZIONE  AUTOTRASPORTATORI ITALIANI, e neppure con la FAI – FEDERAZIONE ANTIUSURA ITALIANA che sono tutt’altra cosa.
Un giorno sento alla radio che l’ABI indice una serie di conferenze per approfondire la conoscenza del Vecchio Testamento, argomento che mi ha sempre interessato. 
Mi stupisce un po’ che adesso i banchieri sin qui dediti alla  speculazione e ad affari non sempre limpidissimi, si mettano a divulgare salmi e libri dei Profeti, ma, pensando che lo facciano per ottenere dal Buon Dio il perdono per i suddetti peccati, mi reco in una banca per avere migliori informazioni. 
Anche lì mi trattano come il direttore di quel tal giornale chiarendomi, con supponenza, che per il Vecchio Testamento occorre rivolgersi non alla ABI-ASSOCIAZIONE BANCARIA ITALIANA, sibbene alla ABI-ASSOCIAZIONE BIBLISTI ITALIANI.
Un’altra volta, in campagna elettorale, desideroso di informarmi sul programma della CDL, mi reco all’indirizzo indicato su di un manifesto e resto di sasso di fronte ad una marea di bandiere rosse e ad un gruppo di compagni che canta a squarciagola bandiera rossa.
Ma come, mi dico, Berlusconi che ce l’ha a morte con i comunisti, fa sventolare nelle sue sedi vessilli scarlatti e fa intonare dai suoi fedelissimi canzonacce anticapitalistiche inneggianti alla rivoluzione? E’ proprio vero che in politica non ci si deve stupire di nulla, neppure quando l’Uomo di Arcore si allea con i rossi.  
I quali a momenti mi menano pensando che li voglia prendere in giro se pretendo di trovare il suddetto dalle loro parti: “questa è la CDL-CAMERA DEL LAVORO”  mi dicono guardandomi con occhio non benevolo, “e se vuoi sentire le baggianate del  “cavaliere”, vai alla sede della CDL-CASA DELLE LIBERTA’, perché qui hai sbagliato indirizzo”.
Insomma, non voglio essere noioso raccontando i vari equivoci in cui sono  caduto a causa delle maledette “sigle”.
Mi sia però consentito di chiedere umilmente ai giornalisti ed a tutti quelli che le usano, di avere la bontà di dettagliare il loro significato perché non si può pretendere che il normale cittadino le conosca tutte per filo e per segno.
Ad evitare, ad esempio, di confondere, l’ACI-AUTOMOBILE CLUB D’ITALIA, con l’ACI-ASSOCIAZIONE CANONISTICA ITALIANA, la PAC-POLITICA AGRICOLA COMUNE, con PAC-PIANI ACCUMULO CAPITALI o con i PAC-PROLETARI ARMATI per il COMUNISMO, la CIA-CONFEDERAZIONE ITALIANA AGRICOLTURA con la famosa CIA americana, il CIS-CENTRO INVESTIGAZIONI SCIENTIFICHE (dei CC) con il CIS, il bollettino Rai “viaggiare informati”, il GAS per cuocere la pastasciutta con il GAS-GRUPPO ACQUISTI SOLIDALI, il CUS-CONTO UNICO SPETTACOLO con il CUS-CENTRO SPORTIVO UNIVERSITARIO, l’ANCI-ASSOCIAZIONE NAZIONALE COMUNI ITALIANI con l’ANCI-ASSOCIAZIONE NAZIONALE CALZATURIERI ITALIANI, la RSI-REPUBBLICA SOCIALE ITALIANA con la RSI-RESPONSABILITA’ SOCIALE d’IMPRESA, l’inglese RAF-ROYAL AIR FORCE con la RAF-ROTE ARMEE FRAKTION (organizzazione tedesca di estrema sinistra), il COI-CENTRO ORIENTAMENTO PASTORALE, con il COI-COMANDO OPERATIVO INTERFORZE, l’ANGOLO di un triangolo con l’ANGOLO-ASSOCIAZIONE NAZIONALE GUARITI 0 LUNGOVIVENTI, e qui mi fermo anche se l’elenco potrebbe continuare ancora a lungo.
E chi sa che qualche intraprendente industriale (magari quello che già pubblica le “Pagine Gialle) non pensi di pubblicare una “GUIDA ALLE SIGLE” per aiutare l’ignaro cittadino italiano a galleggiare nel mare magno delle SIGLE.   
                                          Giovanni Zannini

N.B. Le sigle sopra riportate non sono frutto di fantasia ma tutte vere e realmente esistenti.


A Gerusalemme - IL PRIMO CONCILIO: PICCOLO, BREVE, DECISIVO

PREMESSA
Se io fossi il direttore di un giornale e dovessi scrivere un articolo sull’argomento che andiamo a trattare,  sparerei  in prima  pagina, ed a caratteri cubitali,  il seguente titolo: “Duello fra Pietro e Paolo ad Antiochia”.
E questo perchè la vicenda che viene raccontata negli Atti degli Apostoli al cap.15 e, con maggiori dettagli, nella lettera di Paolo ai Galati, è  poco conosciuta dalla maggioranza dei cattolici per cui la pubblicazione potrebbe costituire un autentico “scoop” e creare interesse a conoscere la singolare vicenda. Essa testimonia un aperto dissenso fra Pietro e Paolo: infatti,  nell’edizione della vecchia Bibbia in mio possesso, la parte della lettera ai Galati che tratta del  Concilio di Gerusalemme viene riportata  con questo vistoso sottotitolo: “Paolo ebbe l’ardire di riprendere  pubblicamente Pietro in Antiochia”.
Da parte sua, Papa Benedetto, senza peli sulla lingua,  come dimostrano sue recenti dichiarazioni molto franche,  nell’udienza generale dello scorso mercoledì 1 ottobre 2008, parla di “incidente di Antiochia di Siria”: un modo elegante per non parlare apertamente di “scontro” fra Pietro e Paolo.
Ma per comprendere il significato del Concilio di Gerusalemme svoltosi in questa città circa nel 50 d.c. occorre riferirsi all’importante problema che il cristianesimo delle origini dovette affrontare:   se i cristiani convertiti dovessero continuare ad osservare la legge mosaica il cui punto più importante prevedeva, come noto, l’obbligo della circoncisione.
In proposito si manifestarono due correnti: l’ una,  sostenuta dai cristiano- gentili, ossia dai pagani (i gentili) convertiti al cristianesimo, con a capo Paolo che negava la necessità di osservare la legge mosaica; l’altra, sostenuta dai giudeo- cristiani, ossia dai giudei convertiti al cristianesimo cui apparteneva Pietro  affermava, al contrario,   l’ obbligo di osservarla..

L’”INCIDENTE” DI ANTIOCHIA
Andiamo ora ad Antiochia (l’antica Antakya) ove  esisteva una comunità creata da Paolo composta in maggioranza da   cristiano-gentili,  i quali vivevano in pace e tranquilli nella loro convinzione, fino a che,  a turbare la loro serenità,  arriva ad un certo punto  un gruppo di giudeo-cristiani  i quali, affermando di essere inviati dalla Chiesa di Gerusalemme  - composta in maggioranza da farisei (giudei) convertiti -  dicono senza tanti complimenti ai  cristiano-gentili della città che è loro obbligo  osservare la legge mosaica e quindi, in primis, che pur essi si devono far circoncidere anche se non ne hanno  alcuna voglia.   
Ma Paolo insorge e contesta decisamente la loro pretesa  affermando che il sacrificio di Cristo sulla Croce ha giustificato (ossia, reso giusti) gli uomini:  non vi è più, dunque, la necessità di essere giustificati dalle opere della legge mosaica la quale fu data agli uomini, dice Paolo, “perché fosse preparazione a Cristo” il quale,  con la sua venuta, li ha liberati da essa. E se, aggiunge, la giustificazione (ossia, l’esser fatti giusti) si dovesse ottenere per mezzo della legge (mosaica), Cristo sarebbe  morto invano.
A questo punto, dato  che nel momento in cui arrivano quei rompiscatole, ad Antiochia c’è pure Pietro, ex giudeo,  che va d’amore e d’accordo  (Paolo dice che “mangiava con loro”) con i cristiano-gentili della città, ci si chiede se e quale atteggiamento prenda Pietro nei confronti dei nuovi venuti.
 Tace,  non prende posizione, e nella lettera ai Galati, visto che lui “si ritraeva e se ne stava da parte”,  Paolo reagisce e lo rimbrotta con parole sferzanti.
 Ma come, gli dice, “se tu che sei giudeo vivi da gentile (mangi qui, con loro) e non da giudeo, come mai  costringi  i gentili (aggiungo io, con il tuo silenzio, e l’atteggiamento ambiguo) a seguire la legge dei giudei?”. Pietro non risponde, ma si capisce che lo fa “per timore di disgustare e allontanare dalla fede i circoncisi”, ossia i giudei-cristiani,  ma così facendo permette che molti cristiano-gentili di Antiochia si facciano convincere dai messaggeri di Gerusalemme e passino dalla loro parte. Allora Paolo, preoccupato per la piega che la cosa sta prendendo, assieme a Barnaba ed a Tito, suo fedele collaboratore,  decide di recarsi alla Chiesa madre di Gerusalemme anzitutto per sapere se quelli che erano arrivati ad Antiochia erano stati veramente da essa inviati e parlavano in suo nome,  e poi per conoscere il suo punto di vista sull’obbligo o no, da parte dei cristiani convertiti,  di dover continuare ad osservare la legge mosaica.
A Gerusalemme trova Pietro - che  vi aveva fatto ritorno dopo il soggiorno ad Antiochia  - assieme agli altri Apostoli, a Giacomo il Minore, Vescovo della Chiesa madre di Gerusalemme  ed agli anziani e, finalmente, il Concilio di Gerusalemme ha inizio.

COMINCIA IL CONCILIO
Paolo racconta  tutto quello che Dio aveva compiuto per mezzo suo durante il lungo viaggio  attraverso la Fenicia e la Samaria, più faticoso di quello che avrebbero potuto fare per mare,  ma molto più fruttuoso sul piano dell’evangelizzazione.
Terminata la sua esposizione, “si alzarono allora alcuni della setta dei Farisei  (giudei divenuti cristiani) che dissero:”Bisogna circoncidere anche i gentili (ossia i pagani divenuti cristiani) e imporre loro di osservare la legge di Mosè””
Allora interviene Pietro che evidentemente, è interessante notarlo, si è pentito dell’atteggiamento ambiguo tenuto ad Antiochia, e che questa volta prende nettamente posizione a favore della tesi di Paolo dicendo:”…Dio, che conosce i cuori, ha dato ad essi (i gentili) testimonianza  dando loro lo Spirito Santo come a noi: non ha fatto nessuna differenza fra noi (i giudei) e loro, avendo purificato i loro cuori per mezzo della fede. Ordunque perché imporre sul collo dei discepoli (i pagani convertiti) un giogo che né i nostri padri né noi abbiamo potuto portare? Ma per mezzo della grazia del Signore  Gesù crediamo di esser salvi  noi (i giudei) allo stesso modo di loro (i gentili)”: quindi la legge mosaica non va più osservata.
Udite le due diverse tesi, “gli Apostoli e gli Anziani si riuniscono per esaminare la questione” ed alla fine Giacomo il Minore, Vescovo della Chiesa madre di Gerusalemme, illustra  la decisione presa dall’assemblea: una soluzione di compromesso che accontenta tutti.   
Dice infatti Giacomo: “Ritengo che non si debba importunare quelli  che si convertono a Dio fra i pagani, ma solo si ordini loro di  astenersi dalle sozzure degli idoli, dalla impudicizia, dagli animali soffocati e dal sangue”: l’obbligo della circoncisione che costituiva l’ostacolo principale per la fede dei pagani  è, come si vede, finalmente decaduto.
A seguito di ciò l’assemblea decide di mandare ai fratelli di  Antiochia una lettera contenente le decisioni prese, e l’affida   a Paolo e Barnaba assieme a Giuda (detto Barsabba) e Sila (Silvano),  uomini eminenti  della Chiesa madre di Gerusalemme.
Ma qual è il contenuto di tale lettera?

LA VITTORIA DI PAOLO
Anzitutto chiarisce che quel gruppo di persone arrivate ad Antiochia “a turbarvi con i loro discorsi  che hanno agitato i vostri animi, non avevano avuto alcun mandato speciale” dalla Chiesa di Gerusalemme contrariamente a quanto da essi  affermato; quindi riferisce sull’esito del Concilio  che, come abbiamo sopra visto,  ha mantenuto in vita  solo alcune prescrizioni della legge mosaica abolendo però l’ obbligo di farsi circoncidere che era per i pagani convertiti, il più difficile  da osservare.
Arrivati ad Antiochia, Paolo, Barnaba, Giuda e Sila lessero ai  cittadini il messaggio  che era stato loro affidato, e quelli  “ne rimasero contenti per l’esortazione che essa conteneva”. Allora  Giuda e Sila, “che erano pur essi profeti, rivolsero più volte la parola ai fratelli  per esortarli e fortificarli”, dopo di che  Giuda se ne tornò a Gerusalemme mentre Sila, che evidentemente ci si era trovato bene, restò ad Antiochia.
Da parte loro Paolo e Barnaba, dopo aver pur essi predicato,  dopo alcuni  giorni, lasciata Antiochia , si rimisero in cammino per andare a visitare i fratelli delle varie città in cui avevano predicato, “per vedere come stanno”, una premura paterna molto commovente.    
La vicenda, dunque,  è a lieto fine e, se vogliamo usare un linguaggio sportivo, possiamo dire che il “match” si chiude nettamente a favore di Paolo.

COMMENTI
Ma quali insegnamenti possiamo trarre da questa vicenda alla quale ho voluto dare un taglio cronachistico, come da inviato speciale accreditato al Concilio di Gerusalemme, e quali pensieri può essa suscitare? Eccone alcuni.

1)      Dal Concilio di Gerusalemme emerge quale sia nella Chiesa il grande valore della collegialità secondo la quale i problemi che la riguardano vanno affrontati e discussi dai partecipanti nelle sedi competenti con la massima libertà  affidando poi l’obbligo di prendere le decisioni definitive a chi ha la responsabilità suprema, il Papa.
2)      Il sistema democratico non è sempre applicabile nell’ambito della Chiesa. Ferma, infatti,  la necessità della più ampia consultazione,  il Papa non può essere  vincolato dal parere di eventuali maggioranze che egli non condivida.
3)       Nella Chiesa vi deve essere la più ampia libertà di espressione ed in proposito cito quanto scritto sul suo giornale il 13 luglio 2008 dal Direttore della Difesa del Popolo don Cesare Contarini  :”Ai pastori fa bene  “percepire” cosa i fedeli sentono, pensano, dicono e scrivono…..Quando incontriamo un’opinione diversa dalla nostra, prima di scartarla o contestarla o prendercela con chi la  esprime, vediamo come ci può essere utile.  Può offrirci un punto di vista ignoto o farci conoscere una prospettiva fino ad allora fuori dalla nostra visuale, che potrebbe illuminarci su esperienze e riflessioni  di chi la pensa diversamente da noi dentro o fuori la Chiesa, può costringerci a studiare e approfondire meglio le ragioni della nostra fede e delle nostre scelte etiche”.   
4)      Nella allocuzione del 24.1.1960 in occasione dell’inaugurazione del Sinodo della Chiesa romana,  Papa  Giovanni XXIII affermava:”…. La Santa Chiesa è depositaria ed interprete della dottrina di Gesù e ne contiene l’insegnamento che non muta: ma quanto alla disciplina ed alle forme accidentali e secondarie ne consente, secondo i tempi e le circostanze, qualche modificazione……”
E allora mi chiedo: quali sono le forme “accidentali e secondarie” che possono essere modificate dal trascorrere del tempo? Certamente la liturgia, la Messa in latino, i canti ed i suoni in chiesa, tamburi compresi, la disposizione degli altari, gli indumenti degli ecclesiastici, e così via.
Ma possiamo considerare tali, ad esempio, il   celibato dei sacerdoti, o il sacerdozio delle donne? 
                   
                                                                                                                                                                      Giovanni  Zannini                                                                                                          
Nota: le frasi fra virgolette sono quelle autentiche degli Atti e della lettera Paolina ai Galati.