sabato 19 febbraio 2022

Un Coronavirus musicale

Come noto, il Coronavirus lascia in coloro che l'hanno avuto, e che sono scampati, disturbi di vario genere - definiti “Sindrome Post Covid-19 ” - , che persistono dopo la guarigione e la conseguente eliminazione del virus dall'organismo, destinati a sparire dopo un tempo più o meno lungo.

A me il virus ha lasciato una coda assai singolare, inedita credo, e, per fortuna, innoqua: ha risvegliato il ricordo di canzoni ormai dimenticate, direi, d'antiquariato, scritte e cantate pressapoco negli anni che precedettero il secondo conflitto mondiale, ossia decine di anni fa.

Canzoni delle quali non ricordo né il titolo, né l'autore, ma solo l' aria ed il testo, alcune leggere, direi quasi infantili, altre più impegnate a cantare l'amore e le bellezze del creato.

Fra le prime, create da musicisti alla buona e da parolieri che si sforzavano di metterci dentro le parole che facessero rima, emerge dalla mia memoria un “Bombolo” che “con i piccoli piè, con il grande gilet fece un capitombolo”, ed un tal Pippo che “quando passa ride tutta la città” perché “si crede bello come un Apollo, ma saltella come un pollo...”.

Altre volte i postumi del Coronavirus mi fanno canticchiare i “Pompieri di Viggiù che quando passano i cuori infiammano” di fanciulle che allora si accontentavano di poco e che cantavano, preoccupate, di “un uccellino che non sapeva navigare, non si dà pace il poverino: che cosa deve fare?”; mentre un'altra gorgheggiava che “se potessi avere musica leggera, tutta la mattina, fino a tarda sera, io potrei trovare tutta la felicità.

Talora, invece, mi sovviene che “Parlano d'amore i tuli, tuli, tuli pan” cantato dalle olandesine del Trio Lescano che, naturalmente, esaltavano il loro fiore nazionale, oppure mi trovo ad ascoltare il canto di un giovinotto che aspetta la sua “bella sotto il monumento con una rosa in mano...al primo appuntamento nel parco di Milano”; di un altro che dava una notizia molto interessante, e cioè che “nel bazar di Zanzibar, si può danzar, si può ballar, si può mangiar....e non pagar”; mentre un altro giovane di belle speranze esaltava il “Valzer del buon'umor che ti dà l'aria del gran signor”.

Fin qui, canzoncine di musica molto, molto leggera che al giorno d'oggi farebbero pensare che i giovani di un secolo fa che cantavano quella roba fossero un pochino sempliciotti: ma il virus porta alla mia memoria anche composizioni che non sfigurerebbero ai nostri giorni.

Come quella di un innamorato tradito che cantava “Vento, vento, portami via con te, raggiungeremo insieme il firmamento dove le stelle brilleranno a cento.....e senza alcun rimpianto voglio scordare il tradimento. Vento, vento, portami via con te”: parole aggraziate, una bella voce e un'aria che ti faceva fischiare il vento nelle orecchie, e ti portava in alto.

O l'altra in cui il cantante faceva all'amica un invito galeotto: “Vieni, c' è una strada nel bosco, il suo nome conosco, vuoi conoscerla tu? Vieni, è la strada del cuore dove nasce l'amore che non muore mai più. Laggiù fra gli alberi inondati dai raggi d'or c'è un nido semplice dove nasce l'amor...”. E tanto bastava per suscitare la fantasia d'un giovincello che l'amore non l'aveva ancora incontrato.

E poi, “Vivere!”, la canzone che ha una storia perchè criticata dalle autorità ecclesiastiche dell'epoca per il suo contenuto troppo godereccio, cosicchè, accusata di portar jella, era cantata solo da quelli che dei divieti di Santa Madre Chiesa se ne facevano un baffo.

Giudicate voi: “Oggi è una bellissima giornata” - cantava un giovinotto che si era finalmente liberato di un amore indigesto - “una giornata di felicità” perchè “oggi la mia bella se n'è andata e mai più ritornerà!”, per cui “son padrone alfin della mia vita” e “voglio vivere sempre così giocondo, voglio vivere per le follie del mondo....”.

Si, quel giovinotto era piuttosto spregiudicato, ma mi pare che la critica dei preti fosse esagerata.

Io, comunque, che con le tonache ho sempre voluto andar d'accordo, avevo trovato il modo di cantare quella canzone - che mi piaceva un mondo! – con l'anima in pace, sostituendo “vivere” con “ridere” sfruttando l'assonanza delle due parole, senza recar danno alla canzone che, anzi, secondo me, ci guadagnava.

Sentite un po': “Voglio ridere così col sole in fronte”, “Voglio ridere e goder l'aria del monte”, “Voglio ridere delle follie del mondo” e così via.

In fondo, una bella risata non ha mai fatto male a nessuno ed anzi, dicono, fa bene alla salute.

Padova 4-2-2022 

Giovanni Zannini

LEGGENDO I TESTI DEGLI ARMISTIZI

Nei libri di storia vi sono parole, espressioni, frasi, informazioni che sono forse sfuggiti all'attenzione degli storici e che meritano di essere conosciuti e commentati, senza escludere - perché ciò implicherebbe una conoscenza illimitata - che essi siano invece già stati oggetto dell'attenzione di altri.

In sostanza, il lavoro di chi, dopo che la trebbiatura era terminata, si soffermava a “spigolare”, raccogliendo i chicchi di grano sfuggiti alle maglie della trebbiatrice.

L' onore delle armi.

E' noto che la cessazione delle ostilità fra gli Alleati e l'Italia avvenne mediante due armistizi: uno sottoscritto a Cassibile (prov. di Siracusa) dal Gen. Bedell Smith per gli Alleati, e dal Gen. Castellano per l'Italia il 3 settembre 1943, reso pubblico l'8 settembre, denominato “Armistizio Breve” con riferimento alla brevità del testo (12 articoli); il secondo sottoscritto a Malta il 29 settembre dal Gen. Eisenhower comandante delle Forze Armate Alleate, e dal Gen.Badoglio Capo del Governo Italiano, denominato “Armistizio Lungo” per la lunghezza del testo composto da ben 44 articoli. .

Ciò premesso, apprendiamo dal bel volume di Elena Aga Rossi “Una Nazione allo sbando” pubblicato dalla Società Editrice “il Mulino” di Bologna nel 2003, che una prima bozza dell' Armistizio redatto dagli inglesi il 24-4 prevedeva all'art.3 che “ alle forze armate italiane sarà concesso l'onore delle armi”. Ma questa bozza venne modificata a seguito dei “rilievi americani ed al lavoro dei Capi di Stato Maggiore congiunti dei due paesi”, cosicchè nel testo definitivo dell'Armistizio Lungo quanto previsto dagli inglesi per i molti atti di valore dei combattenti italiani, scomparve e di onore delle armi alle forze armate italiane non vi è più , in quel documento, alcuna traccia.

Probabilmente perchè mentre le prime trattative per la stipula dell'armistizio avvennero mentre le Forze Armate Italiane, sia pur stremate e sull'orlo del tracollo, esistevano ancora, il Gen. Eisenhower, al momento della stipula dell'Armistizio Lungo si trovò invece di fronte un Capo del Governo italiano ormai privo di forze armate che si erano - poco gloriosamente, diciamolo - dissolte come neve al sole.

In tema di riconoscimento da parte del vincitore del valore del vinto, oltre all'intendimento iniziale, poi revocato, come si è visto sopra, di concedere l'onore delle armi all'esercito italiano, gli inglesi concessero ai loro avversari italiani, dopo la resa, questo onore almeno in due casi - senza poter escludere che ve siano altri -: nella guerra d'Abissinia ai difensori dell'Amba Alagi comandati dal Duca d'Aosta, ed alla bandiera italiana ed alla guarnigione dell'isola di Lampedusa.

Prigionieri

Il trattamento dei prigionieri di guerra alleati in mano italiana fu previsto sia nell'Armistizio Breve che in quello Lungo. Entrambi infatti disponevano che TUTTI I PRIGIONIERI ALLEATI – citando, con specifico riferimento , nell'art.32 dell'Armistizio Lungo, “i sudditi abissini confinati, internati o in qualsiasi altro modo detenuti nel territorio italiano od occupato dagli italiani” - dovevano essere immediatamente consegnati ai rappresentanti delle Nazioni Unite: ed il particolare riferimento ai prigionieri abissini manifesta uno speciale riguardo degli Alleati per coloro che furono per primi vittime della violenza coloniale fascista.

In effetti alcuni resistenti abissini patrioti, soprattutto nobili di rango, che durante l'occupazione italiana avevano combattuto contro l'invasore, furono deportati in varie località italiane (Longobucco, Mercogliano, Roma, Tivoli, Firenze, Varazze, Torino e Palermo): fra questi Ras Immirù che godette di un particolare trattamento perchè dotato di una spiccata personalità che indusse gli italiani ad un certo riguardo.

Orbene, nel Promemoria segreto n.1 del Comando supremo italiano, datato 6 settembre 1943, inviato ai tre Capi di Stato Maggiore allorchè le trattative per la stipula dell'Armistizio Breve erano in corso, emesso per “il caso che forze germaniche prendano di iniziativa atti di ostilità armata contro gli organi di governo e le forze armate italiane”, si danno invece, in tema di prigionieri, disposizioni difformi.

Infatti, al paragrafo n.3 di tale Promemoria si legge che “si potranno anche lasciare in libertà i PRIGIONIERI BIANCHI, trattenendo IN OGNI MODO QUELLI DI COLORE”: una distinzione, come si è visto sopra, non prevista dagli Alleati.

Un evidente razzismo esistente allora negli alti gradi dell'esercito italiano, che tuttora, a distanza di quasi un secolo, malauguratamente ancora sussiste nella testa di molti italiani.

Padova 11-X-2021 

Giovanni Zannini

LA “PARTECIPAZIONE” SFUMATA

Lettera al Direttore della “Difesa del Popolo” - Settimanale della Diocesi di Padova

Nel suo pregevole articolo dell'8 agosto su questo giornale, dal titolo “Senza dignità non c'è sviluppo”, Germano Bertin, Direttore Responsabile di “Ethosjob”, scrive che l'imprenditore “nel creare profitto è in grado di occuparsi e di preoccuparsi di distribuire equamente tra i lavoratori la ricchezza prodotta".

In sostanza egli pare auspicare che in Italia sia realizzata quella “Partecipazione” dei lavoratori agli utili delle imprese, che costituisce un importante principio della dottrina sociale della Chiesa: si pensi che nella sua “Rerum Novarum” del 15 maggio 1891, il Papa Leone XIII scriveva che il lavoratore ha il diritto di “partecipare in alcuna misura di quella ricchezza che esso stesso produce...”.

Ebbene, la Partecipazione – nel suo doppio significato di collaborazione dei lavoratori sull'andamento aziendale e di condivisione degli utili – era stata introdotta in Italia dalla legge n.92 del 28.6.2012 pubblicata sula G.U. n.153 del 3.7.2012.

Essa infatti, all'art.4 – comma 62 – delegava il Governo “ad adottare, entro 9 mesi dalla data di entrata in vigore della presente legge … uno o più decreti legislativi finalizzati a favorire le forme di coinvolgimento dei lavoratori nell'impresa..” e - al punto E – “la partecipazione dei dipendenti agli utili o al capitale dell'impresa...”.

Non vi è chi non veda la straordinaria, epocale importanza di questa legge.

E allora, in Italia vige la Democrazia Economica, c'è la “Partecipazione”, e non ce ne siamo accorti?

Purtroppo no: nella generale indifferenza, mentre tutti si accapigliavano sulle pensioni, mentre gli imprenditori guardavano la novità con sospetto, temendo di perdere il controllo e la libertà di gestione delle loro imprese; e le confederazioni sindacali, legate ad una vieta concezione conflittuale del rapporto fra capitale e lavoro, la snobbavano, il Governo non emise entro i prescritti 90 giorni i Decreti attuativi, per cui, scaduti i termini, i provvedimenti previsti dal comma 62 dell'art.4 della legge n.92/2012, fatalmente decaddero.

Lasciando delusi e sconfortati quanti avevano sperato che l'art.46 della Costituzione italiana (“...La Repubblica riconosce il diritto dei lavoratori a collaborare, nei modi e nei limiti stabiliti dalle leggi, alla gestione delle aziende”) fosse, finalmente, divenuto realtà, con una legge che andava addirittura al dilà del dettato costituzionale che non prevede la partecipazione agli utili.

Ma qualcosa di nuovo va maturando : l'articolo dal titolo “Ora un vero patto sociale basato sulla Partecipazione” comparso sul quotidiano “Avvenire” del 19 maggio 2020 a firma dell'allora Segretaria Generale della Cisl, Annamaria Furlan, chiede che il governo si faccia “promotore di una legge di sostegno per allargare la “governance” delle aziende ai rappresentanti dei lavoratori” per “introdurre nel nostro Paese la Democrazia Economica” onde “rendere più produttive le aziende attraverso il coinvolgimento dei lavoratori” legando “il destino delle aziende a quello dei lavoratori”.

Non parla, la Furlan, di Partecipazione agli utili, ma solo di Partecipazione come coinvolgimento dei lavoratori nell'azienda: ma la sua realizzazione sarebbe un importante passo avanti anche verso quella meta.

E se è vero, come scrive l'articolista, che anche “la CGIL parla oggi di forme di partecipazione dei lavoratori nelle aziende”, le speranze di quelli che hanno sempre creduto e credono nella Partecipazione, si rafforzano.

In attesa che gli industriali dicano se la Partecipazione non è più da essi considerata, come nel passato, un pericoloso attentato alla loro libertà.

Padova 31/8/2021 

Giovanni Zannini


giovedì 17 settembre 2020

FOGAR E IL SESSO

 Quanto da sempre affermato dalla morale cattolica a proposito della pubblicità esaltante una sessualità deformata a servizio di bassi interessi economici, trova conferma in una lontana intervista rilasciata a Lucio Petrone di “Nautica”, e pubblicata su “La vecchia torre” di Galllipoli, da Ambrogio Fogar, il famoso navigatore autore di memorabili viaggi in solitaria.L'intervistatore gli chiese, fra l'altro, se durante le sue memorabili imprese avesse avuto “problemi di sesso”. Ecco la risposta:”Dopo pochi giorni, il desiderio sessuale sparisce completamente. Senti moltissino la mancanza della tua compagna, della tua donna come interlocutrice, però l'aspetto concreto viene molto, molto stemperato. Io penso che ciò accada perchè non si è sollecitati da stimoli esterni, dalla vista di donne, come di cartelloni di film e pubblicità. Perciò torni originale, non sei spinto a fare quello che la gente ti vuol far fare. Se si fa mente locale, ci si rende conto che il mondo animale è regolato in maniera ben precisa; ma sono solo gli uomini che hanno sempre il sesso in testa.

Parole sagge, di un laico che non era né un prete né un monaco, ma un uomo coraggioso e di buon senso.

Padova 16-10-2020                                                                                                    Giovanni Zannini

Recentissime dell'altro ieri - ADUA E LE DONNE

Recentissime dell'altroieri

ADUA E LE DONNE


Un servizio sulla “Stampa” del 27 marzo 1897 svela un particolare interessante relativo alla battaglia di Adua che l'1 marzo 1896 vide la sconfitta della armi italiane ad opera dell'esercito dell'Imperatore d'Etiopia.

Vi si legge infatti che quando il gen.Baratieri, comandante delle truppe italiane - con mossa improvvisa, prima dell'arrivo del gen. Baldissera destinato a sostituirlo, cosa da lui considerata offensiva - decise, imprudentemente, di passare all'attacco , Menelik conosceva ogni particolare sull'organizzazione e sulla consistenza dell'esercito italiano. Come mai?

Egli aveva da tempo ordinato a “buon numero di donne abissine di recarsi nel territorio italiano e quivi, per mezzo di relazioni intime coi soldati di re Umberto, esse compirono perfettamente il servizio di spionaggio”. Cosicchè, mentre Baratieri si mise in marcia dall'Eritrea verso il sud per conquistare l'Abissinia, “ ignorando completamente la disposizione degli eserciti abissini ed il valore dei suoi soldati”, Menelik, al contrario, conosceva tutti i segreti dell'esercito italiano: l'ammontare della truppa, il numero delle bocche da fuoco, il morale delle truppe nemiche...Oltre a ciò i rumori di discordia fra i diversi ras erano semplici tranelli...”.

Assai importante fu il contributo che alla vittoria diede la moglie di Menelik, la principessa Taitù Batùl che, nata da una nobile famiglia etiope, dopo 4 matrimoni falliti, aveva sposato l'imperatore Menelik II assumendo in tal modo il titolo di Imperatrice d'Etiopia. Come tale, dotata di un forte carattere decisionale, aveva molto influito sulla politica del marito manifestando un atteggiamento conservatore contrario ad ogni apertura al modo di vivere occidentale.

Dotata di un carattere bellicoso niente male, nella campagna contro gli italiani era sempre stata - come le altre donne che, per consuetudine abissina, seguivano i capi dell'esercito loro mariti in guerra - a fianco dell'Imperatore.

Ed in occasione della battaglia di Adua era rimasta in prima linea collaborando per il miglior esito delle manovre, suggerendo le decisioni da prendere, spronando i soldati impegnati nel combattimento, addirittura regolando il tiro di una batteria di cannoni. Si dice che, in un momento in cui l'esito della battaglia pareva incerto, avesse spronato i suoi soldati urlando” Coraggio! Perchè avete paura? Che vi è preso? Oggi la vittoria è nostra! Colpite senza pietà!”.

E molti italiani affermarono che principali protagoniste della sconfitta di Adua furono le donne:

quelle che sedussero i nostri soldati carpendo loro preziose informazioni, e la loro Imperatrice.

Energica, volitiva, feroce: si fece pagare con la bella cifra di quattro milioni di lire la liberazione dei prigionieri, mentre agli ascari che si erano battuti a fianco degli italiani fece mozzare la mano destra ed il piede sinistro, il prezzo del loro tradimento.

Ma anche donna - e, si dice, bella – dotata di un cuore aperto al richiamo dell'amore: e fu proprio un prigioniero italiano a suscitare la sua passione.

Come scrive Franco Pasanisi su “Palermoparla online” diretto da Germano Scargiali, l'Imperatrice che aveva restituito all'Italia, come si visto, i prigionieri fatti in guerra, ne aveva però trattenuti un paio che facevano al caso suo: Sebastiano Castagna che, chiamato “L'ingegnere bianco”, divenne direttore generale nel Ministero etiope dei Lavori Pubblici; e Salvatore Bertolani che, pur avendo competenze meno importanti nell'ufficio postale di Addis Abeba, aveva però il pregio di essere “un fusto con baffi all'Umberto, scuro di carnagione, sempre elegante e forbito nella loquela” e, per di più, siciliano.

Pregi tutti che, favoriti dalla non buona salute di Menelik costretto nelle sue stanze, accesero la passione dell'Imperatrice che, accantonata per l'occasione la sua fobia per l'occidente, si protrasse per parecchi mesi e si concluse con il rietro in patria del Bertolani.

Una piccola rivincita del fascino dei maschi italiani sulla violenza delle armi abissine.


Padova 20-4-2020. Giovanni Zannini

martedì 15 settembre 2020

CENTRO SINISTRA, RIUNISCITI!

La Sinistra, ieri, ed il Centro-sinistra oggi, sono afflitti da un “divisionismo” che, se in campo artistico ha visto il successo di pittori quali Segantini, Pellizza da Volpedo, Previati, Morbelli ed altri, nel campo politico italiano – e non solo - ha invece prodotto pessimi risultati.

Un continuo scontro fra persone che pur militando in uno stesso partito hanno diversi punti di vista e che, invece di dibatterli al suo interno e rispettare le decisioni dalla maggioranza democraticamente espresse, preferiscono uscirne per fondare con altri pochi, partitini, movimenti, centri, associazioni da quattro soldi delle quali sono “leaders” ridicoli, e far nascere giornaletti che solo loro leggono.

Una confusa situazione politica italiana che impedisce di affrontare a fondo (nonostante i tentativi ammirevoli di pochi uomini intelligenti e di buona volontà che pur esistono), problemi fondamentali quali l'abbattimento del debito pubblico e la redistribuzione della ricchezza, e provoca negli elettori scetticismo e disaffezione - quando non ostilità - alla politica in generale ed al Centro-Sinistra in particolare.

Come porre rimedio a tale situazione?

Il Congresso auspicato da Zingaretti dovrebbe dunque convincere coloro che sono usciti dal Centro-Sinistra a rientrare nei ranghi, aprendo le porte ad una “riunificazione” che è l'esatto contrario di  quanto malauguratamente verificatosi troppo spesso nel passato.

Altolà dunque a quel “divisionismo” che ha provocato l'indebolimento del Centro Sinistra, e con esso, del Partito Democratico che ne è l'asse portante,  e largo ad uomini “liberi e forti” - ed onesti  -  che si stringano nuovamente la mano, si abbraccino pubblicamente e, dopo aver discusso in un'assemblea feconda di idee, diano vita ad un programma che accolga le idee migliori di una sinistra decisa ad operare per il bene del paese in un momento critico della sua storia.  

Rinunciando a polemiche troppo accese; rinnegando le reciproche intemperanze del passato (e pure qualche offesa di troppo) ; pervenendo con spirito di servizio a sagge mediazioni che consentano di vestire i panni dell'altro senza spogliarsi dei propri, dimostrando che non la voglia di potere o l'interesse economico ma un autentico e sano amor di patria guida il loro operare in politica.

La prova di maturità fornita dai migliori uomini del centro-sinistra – specie se di estrazione cristiano-sociale – che anziché dilaniarsi come nel passato, addivengano alla riunificazione in un partito solido, con idee chiare e condivise, sarebbe un'autentica “bomba” capace di impressionare positivamente gli italiani che apprezzano i gesti belli e generosi, e quindi ammirerebbero questa esemplare prova di coraggio umiltà e  saggezza che costituirebbe quel caso “clamoroso ed eclatante” in grado di dare una salutare scossa alla politica italiana, e consentirebbe al Centro Sinistra di governare per il vero bene dell'Italia.


Padova 14.9.2020                                                                                  Giovanni Zannini















sabato 19 ottobre 2019

Una storica seduta parlamentare - L'EPICO SCONTRO FRA GARIBALDI E CAVOUR


Se taluno si volesse dilettare a stilare una classifica per stabilire quale sia stato il dibattito più importante per contenuto e drammaticità nella storia parlamentare italiana, quello avvenuto il 28 aprile 1861 meriterebbe, se non il più alto, certamente uno dei gradini più alti.
Si tratta dello scontro fra Garibaldi e Cavour innescato dalla sorte di quell’”esercito meridionale” composto tutto da volontari che il Generale si era costruito per liberare l’Italia del Sud dai Borboni e che voleva fossero inseriti nell’esercito regolare al che i suoi capi si opponevano, timorosi che quei militari improvvisati ne inquinassero la disciplina e la professionalità.
Grandi le differenze fra i due principali artefici del Risorgimento italiano.
Garibaldi gran combattente, coraggioso, impulsivo, lineare determinato a raggiungere ad ogni costo gli obbiettivi prefissati senza troppo preoccuparsi delle conseguenze che ne potessero derivare senza ricorrere ad artifizi e raggiri, imbattibile sui campi di battaglia, un po’ pasticcione nelle aule parlamentari, un “guerriero impolitico” come taluno lo definisce.
Cavour gran patriota, che si batte anch’egli per l’unità d’Italia non con la spada ma con la politica di cui è maestro: manovriero, cauto, prudente, sottile, medita ogni sua mossa valutandone e prevedendone i rischi, disposto ad usare - come scrive Maurizio Palèologue nel suo “Cavour” - la violenza, la frode, la perfidia, la ciarlataneria, la subornazione, l’impostura, convinto che, come Machiavelli dice, “ Uno spirito saggio non condannerà mai un uomo per gli atti d’eccezione cui ha dovuto far ricorso nell’interesse supremo della patria”.
L’uno che morirà a 75 anni dopo una vita di violenze fisiche, di lotte, di combattimenti, di fatiche inenarrabili; l’altro che finirà cinquantenne il 6 giugno 1861 stroncato dalle ansie, dalle preoccupazioni, dalle paure – oggi diremmo dallo “stress” – che gli procurano i suoi armeggi e le sue manovre arrischiate, forse anche per le conseguenze di quel famoso scontro. E’ egli stesso, infatti, a confidare in maggio ad un amico di non sentirsi affatto bene e che “dopo quella terribile disputa con Garibaldi non riesco più a rimettermi”.
Ed eccoli, uno contro l’altro, in Parlamento.
Rievoca l’avvenimento sulla “Illustrazione Italiana” del 27-5-1877, con un tono piuttosto ampolloso, classicamente ottocentesco, quel tal “Doctor Veritas” sotto il cui pseudonimo si celava Leone Fortis – vedasi su questo stesso “blog” il post “Leone Fortis, il Dr.Veritas padovano” - brillante giornalista che nella rubrica tenuta per molti anni sulla rivista dell’Editore Treves si occupava di cultura, di politica e di attualità, anche mondana. Con questa sua “Conversazione” (così intitolava i suoi articoli) egli trasmette realisticamente al lettore la drammaticità dell’evento definito “un cozzo tremendo, un urto” che faceva temere “un grande sfasciamento, la rovina irreparabile di tutto ciò che si era amato, sognato, voluto in mezzo secolo di affetti terribili, di sogni grandiosi, di volontà sublimi e consacrate nel sangue”.
Insomma, il percorso dell’unità d’Italia era in pericolo.
Garibaldi, eletto a Napoli nelle elezioni del gennaio 1861 pur non avendo posto la sua candidatura, va in Parlamento a perorare la causa dei volontari del suo “esercito meridionale” la cui sorte, conclusa l’avventura dei Mille, è incerta.
Ed ha inizio la disfida.
Il Nizzardo, dal più alto banco della sinistra, “…colla camicia rossa, il mantello grigio – il famoso “poncho” sudamericano - un po’ teatrale, solenne, imponente” prende la parola. Il suo discorso non è particolarmente interessante, anzi, noioso, tratta “di scarpe, di galloni, di uniformi” e qualcuno dei suoi avversari sogghigna di fronte a quell’intervento così poco brillante benché supportato da un suo fido, tal Zupetta, che “agitava febbrilmente nelle mani alcuni foglietti rettangolari di carta e che li passava a lui ad uno ad uno”. Ma ad un certo momento Garibaldi ha un sussulto, la voce prima monotona “si era fatta tonante” allorchè, ignorando il suggeritore, affronta, a braccio, l’argomento che da tempo covava in petto e che improvvisamente esplode: il rancore per la cessione di Nizza – sua città natale – e della Savoia alla Francia, il premio barattato da Cavour quale compenso per l’aiuto prestato dall’Imperatore Napoleone III nella guerra del 1859 che fruttò al Piemonte l’annessione della Lombardia.
Con il dito proteso verso il banco ministeriale ove sedeva Cavour, ““pronunciò poche parole ma che avevano il lugubre fragore di una mina:”Voi volete la guerra fratricida”” ed affermò che mai stringerà la mano dell’infame rigattiere che ha fatto un ignobile traffico della sua città natale.
Cavour (quasi presago della tempesta), lo aveva ascoltato, nervoso e, irrequieto: “giocherellava con il tagliacarte d’avorio, apriva e chiudeva un libro che aveva davanti, si agitava sulla sua poltrona come se fosse ovattata di spine, “tamburinava” (sic) febbrilmente con le dita della mano sinistra sul tavolo, di tanto in tanto si passava la destra sulla fronte tergendone col bianco fazzoletto il sudore”.
Sentite quelle parole, “a Cavour tutto il sangue rifluì alla testa, il suo volto si fece di bragia, gli occhi fiammeggiavano…Nell’emiciclo erano scesi molti deputati apostrofandosi con parole irritate. Due gruppi si formarono subito, l’uno attorno a Cavour, l’altro sui banchi di sinistra accanto a Garibaldi”. Dopo una diecina di minuti la bagarre si placa e Garibaldi, fuori di sé, grida, di nuovo: ”Si, la guerra fratricida”.
“Fu il finimondo…Cavour s’era fatto terribile anche lui…battè col pugno sul banco ministeriale facendo sussultare le carte, i libri del tavolo e gli animi dell’Assemblea”. Cairoli si slanciò al posto di Garibaldi, Bixio “livido e due grosse lagrime gli irrigavano le guance abbronzite (sic) si precipitò giù dagli alti scranni della sinistra e afferrò nelle sue mani le due mani di Cavour parlandogli rapido, concitato, affannoso…”.
E qui stupisce, favorevolmente, il comportamento di quel Nino Bixio, violento, sanguigno e spietato combattente in guerra che, eletto in Parlamento, si prodiga come conciliatore cercando di attenuare le dure parole del suo generale.
Infatti, tutti, si erano accorti, con sgomento, che “il guanto della guerra civile era stato gettato in mezzo all’emiciclo. Guai fosse stato raccolto! Cavour si slanciò per afferrarlo. Fu un lampo e si arretrò. Chi teneva lo sguardo su di lui potè notare il trabalzo dell’impeto primo e la forza e lo sforzo della riflessione poderosa, sublime, che lo frenò”. Si lascia condurre fuori dall’aula da alcuni amici, fra cui lo stesso Bixio, e poco dopo rientra “trasfigurato: il volto, prima rovente, s’era fatto pallido, la ruga della fronte era più profonda”. Prende la parola con voce ferma e accento vibrato:” Io comprendo e rispetto il dolore che rende sì amare le parole del generale Garibaldi. Egli non sa perdonarmi di aver segnato il trattato che dà la sua città nativa al nostro alleato di Magenta e di Solferino. Dal dolore che io provai, misuro il suo. Se io fossi in lui, sentirei come lui. Al mio posto, ho la coscienza di aver compiuto un grande e tremendo dovere”.
Dopo di che Garibaldi replica brevemente come chi ha fretta di finirla con una situazione penosa e si allontana scortato dai suoi fidi.
A questo punto il cronista non esita ad esprimere il suo giudizio sul comportamento dei due contendenti concludendo che “Cavour fu in quel giorno assai più grande di Garibaldi. L’onore della giornata fu suo, giornata campale contro sè stesso sostenuta e vinta in nome dell’Italia e per l’Italia”.
Pochi giorni dopo la drammatica seduta secondando un augusto desiderio vi fu, in una sala del palazzo reale, un abboccamento - che Cavour descrive in una sua lettera “cortese senza essere affettuoso” - fra i due autori del drammatico scontro. Egli espone la condotta che il governo avrebbe tenuto nei riguardi dell’ Austria e della Francia. Garibaldi dichiara di accettare quel programma impegnandosi a non contrariare il procedere del governo, e chiede “che si facesse qualche cosa per l’esercito meridionale” al che l’altro non fa alcuna promessa ma dichiara che “ mi sarei occupato per cercare un mezzo per assicurare più completamente la sorte dei suoi uffiziali”. Alla fine, scrive sempre Cavour, “noi ci siamo separati se non amici, almeno senza nessuna irritazione”.
Ed il Dr.Veritas così conclude la sua “Conversazione” sull’Illustrazione Italiana: ”Certo, in quel giorno Garibaldi si sentì più sconfitto che non lo si sentisse poi ad Aspromonte ed a Mentana ma, come ad Aspromonte e poi a Mentana non si sentì umiliato dalla sconfitta perché chi vinceva era sempre la patria”.

Padova 1-10-2019                                                                                            Giovanni Zannini