sabato 19 ottobre 2019

Una storica seduta parlamentare - L'EPICO SCONTRO FRA GARIBALDI E CAVOUR


Se taluno si volesse dilettare a stilare una classifica per stabilire quale sia stato il dibattito più importante per contenuto e drammaticità nella storia parlamentare italiana, quello avvenuto il 28 aprile 1861 meriterebbe, se non il più alto, certamente uno dei gradini più alti.
Si tratta dello scontro fra Garibaldi e Cavour innescato dalla sorte di quell’”esercito meridionale” composto tutto da volontari che il Generale si era costruito per liberare l’Italia del Sud dai Borboni e che voleva fossero inseriti nell’esercito regolare al che i suoi capi si opponevano, timorosi che quei militari improvvisati ne inquinassero la disciplina e la professionalità.
Grandi le differenze fra i due principali artefici del Risorgimento italiano.
Garibaldi gran combattente, coraggioso, impulsivo, lineare determinato a raggiungere ad ogni costo gli obbiettivi prefissati senza troppo preoccuparsi delle conseguenze che ne potessero derivare senza ricorrere ad artifizi e raggiri, imbattibile sui campi di battaglia, un po’ pasticcione nelle aule parlamentari, un “guerriero impolitico” come taluno lo definisce.
Cavour gran patriota, che si batte anch’egli per l’unità d’Italia non con la spada ma con la politica di cui è maestro: manovriero, cauto, prudente, sottile, medita ogni sua mossa valutandone e prevedendone i rischi, disposto ad usare - come scrive Maurizio Palèologue nel suo “Cavour” - la violenza, la frode, la perfidia, la ciarlataneria, la subornazione, l’impostura, convinto che, come Machiavelli dice, “ Uno spirito saggio non condannerà mai un uomo per gli atti d’eccezione cui ha dovuto far ricorso nell’interesse supremo della patria”.
L’uno che morirà a 75 anni dopo una vita di violenze fisiche, di lotte, di combattimenti, di fatiche inenarrabili; l’altro che finirà cinquantenne il 6 giugno 1861 stroncato dalle ansie, dalle preoccupazioni, dalle paure – oggi diremmo dallo “stress” – che gli procurano i suoi armeggi e le sue manovre arrischiate, forse anche per le conseguenze di quel famoso scontro. E’ egli stesso, infatti, a confidare in maggio ad un amico di non sentirsi affatto bene e che “dopo quella terribile disputa con Garibaldi non riesco più a rimettermi”.
Ed eccoli, uno contro l’altro, in Parlamento.
Rievoca l’avvenimento sulla “Illustrazione Italiana” del 27-5-1877, con un tono piuttosto ampolloso, classicamente ottocentesco, quel tal “Doctor Veritas” sotto il cui pseudonimo si celava Leone Fortis – vedasi su questo stesso “blog” il post “Leone Fortis, il Dr.Veritas padovano” - brillante giornalista che nella rubrica tenuta per molti anni sulla rivista dell’Editore Treves si occupava di cultura, di politica e di attualità, anche mondana. Con questa sua “Conversazione” (così intitolava i suoi articoli) egli trasmette realisticamente al lettore la drammaticità dell’evento definito “un cozzo tremendo, un urto” che faceva temere “un grande sfasciamento, la rovina irreparabile di tutto ciò che si era amato, sognato, voluto in mezzo secolo di affetti terribili, di sogni grandiosi, di volontà sublimi e consacrate nel sangue”.
Insomma, il percorso dell’unità d’Italia era in pericolo.
Garibaldi, eletto a Napoli nelle elezioni del gennaio 1861 pur non avendo posto la sua candidatura, va in Parlamento a perorare la causa dei volontari del suo “esercito meridionale” la cui sorte, conclusa l’avventura dei Mille, è incerta.
Ed ha inizio la disfida.
Il Nizzardo, dal più alto banco della sinistra, “…colla camicia rossa, il mantello grigio – il famoso “poncho” sudamericano - un po’ teatrale, solenne, imponente” prende la parola. Il suo discorso non è particolarmente interessante, anzi, noioso, tratta “di scarpe, di galloni, di uniformi” e qualcuno dei suoi avversari sogghigna di fronte a quell’intervento così poco brillante benché supportato da un suo fido, tal Zupetta, che “agitava febbrilmente nelle mani alcuni foglietti rettangolari di carta e che li passava a lui ad uno ad uno”. Ma ad un certo momento Garibaldi ha un sussulto, la voce prima monotona “si era fatta tonante” allorchè, ignorando il suggeritore, affronta, a braccio, l’argomento che da tempo covava in petto e che improvvisamente esplode: il rancore per la cessione di Nizza – sua città natale – e della Savoia alla Francia, il premio barattato da Cavour quale compenso per l’aiuto prestato dall’Imperatore Napoleone III nella guerra del 1859 che fruttò al Piemonte l’annessione della Lombardia.
Con il dito proteso verso il banco ministeriale ove sedeva Cavour, ““pronunciò poche parole ma che avevano il lugubre fragore di una mina:”Voi volete la guerra fratricida”” ed affermò che mai stringerà la mano dell’infame rigattiere che ha fatto un ignobile traffico della sua città natale.
Cavour (quasi presago della tempesta), lo aveva ascoltato, nervoso e, irrequieto: “giocherellava con il tagliacarte d’avorio, apriva e chiudeva un libro che aveva davanti, si agitava sulla sua poltrona come se fosse ovattata di spine, “tamburinava” (sic) febbrilmente con le dita della mano sinistra sul tavolo, di tanto in tanto si passava la destra sulla fronte tergendone col bianco fazzoletto il sudore”.
Sentite quelle parole, “a Cavour tutto il sangue rifluì alla testa, il suo volto si fece di bragia, gli occhi fiammeggiavano…Nell’emiciclo erano scesi molti deputati apostrofandosi con parole irritate. Due gruppi si formarono subito, l’uno attorno a Cavour, l’altro sui banchi di sinistra accanto a Garibaldi”. Dopo una diecina di minuti la bagarre si placa e Garibaldi, fuori di sé, grida, di nuovo: ”Si, la guerra fratricida”.
“Fu il finimondo…Cavour s’era fatto terribile anche lui…battè col pugno sul banco ministeriale facendo sussultare le carte, i libri del tavolo e gli animi dell’Assemblea”. Cairoli si slanciò al posto di Garibaldi, Bixio “livido e due grosse lagrime gli irrigavano le guance abbronzite (sic) si precipitò giù dagli alti scranni della sinistra e afferrò nelle sue mani le due mani di Cavour parlandogli rapido, concitato, affannoso…”.
E qui stupisce, favorevolmente, il comportamento di quel Nino Bixio, violento, sanguigno e spietato combattente in guerra che, eletto in Parlamento, si prodiga come conciliatore cercando di attenuare le dure parole del suo generale.
Infatti, tutti, si erano accorti, con sgomento, che “il guanto della guerra civile era stato gettato in mezzo all’emiciclo. Guai fosse stato raccolto! Cavour si slanciò per afferrarlo. Fu un lampo e si arretrò. Chi teneva lo sguardo su di lui potè notare il trabalzo dell’impeto primo e la forza e lo sforzo della riflessione poderosa, sublime, che lo frenò”. Si lascia condurre fuori dall’aula da alcuni amici, fra cui lo stesso Bixio, e poco dopo rientra “trasfigurato: il volto, prima rovente, s’era fatto pallido, la ruga della fronte era più profonda”. Prende la parola con voce ferma e accento vibrato:” Io comprendo e rispetto il dolore che rende sì amare le parole del generale Garibaldi. Egli non sa perdonarmi di aver segnato il trattato che dà la sua città nativa al nostro alleato di Magenta e di Solferino. Dal dolore che io provai, misuro il suo. Se io fossi in lui, sentirei come lui. Al mio posto, ho la coscienza di aver compiuto un grande e tremendo dovere”.
Dopo di che Garibaldi replica brevemente come chi ha fretta di finirla con una situazione penosa e si allontana scortato dai suoi fidi.
A questo punto il cronista non esita ad esprimere il suo giudizio sul comportamento dei due contendenti concludendo che “Cavour fu in quel giorno assai più grande di Garibaldi. L’onore della giornata fu suo, giornata campale contro sè stesso sostenuta e vinta in nome dell’Italia e per l’Italia”.
Pochi giorni dopo la drammatica seduta secondando un augusto desiderio vi fu, in una sala del palazzo reale, un abboccamento - che Cavour descrive in una sua lettera “cortese senza essere affettuoso” - fra i due autori del drammatico scontro. Egli espone la condotta che il governo avrebbe tenuto nei riguardi dell’ Austria e della Francia. Garibaldi dichiara di accettare quel programma impegnandosi a non contrariare il procedere del governo, e chiede “che si facesse qualche cosa per l’esercito meridionale” al che l’altro non fa alcuna promessa ma dichiara che “ mi sarei occupato per cercare un mezzo per assicurare più completamente la sorte dei suoi uffiziali”. Alla fine, scrive sempre Cavour, “noi ci siamo separati se non amici, almeno senza nessuna irritazione”.
Ed il Dr.Veritas così conclude la sua “Conversazione” sull’Illustrazione Italiana: ”Certo, in quel giorno Garibaldi si sentì più sconfitto che non lo si sentisse poi ad Aspromonte ed a Mentana ma, come ad Aspromonte e poi a Mentana non si sentì umiliato dalla sconfitta perché chi vinceva era sempre la patria”.

Padova 1-10-2019                                                                                            Giovanni Zannini


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