mercoledì 9 novembre 2011

IL PROCESSO REPUBBLICHINO DI VERONA OBBROBRIO GIURIDICO

Si ritiene generalmente che la sentenza di condanna emessa il 10 gennaio 1944 dal Tribunale Speciale Straordinario istituito il 13 ottobre 1943 dal governo della neonata Repubblica Sociale Italiana, contro i 19 membri del Gran Consiglio del Fascismo che parteciparono alla storica seduta del 24-25 luglio 1943, sia stata motivata dall'aver essi votato l'ordine del giorno Grandi che, in pratica, sfiduciava Benito Mussolini: ma tale convinzione non regge ad una più attenta lettura della sentenza.
Pur animati da spirito di vendetta e scevri da ogni scrupolo di natura giuridica, i fascisti della nuova Repubblica Sociale Italiana si resero infatti conto che nessuna imputazione poteva essere elevata a carico degli imputati per aver votato quell’ordine del giorno dal momento che il Regolamento interno del Gran Consiglio del Fascismo dallo stesso approvato all’unanimità nella II riunione della XXX sessione del 9 aprile 1929, segretato, così come lo erano le sue sedute ( e portato alla luce, anche su mio interessamento, da una ricerca del dott. Federico Pommier Vincelli del settore Informazioni Bibliografiche della biblioteca del Senato della Repubblica) regolava diffusamente il diritto di voto dei consiglieri.
Dalla lettura di questo documento emerge che all’interno del massimo consesso del regime fascista sopravviveva un cascame di democrazia sia pure potenzialmente invalidata dall’art.2 del Regolamento stesso che riservava al duce un vero e proprio diritto di veto perchè “ Il Capo del Governo Presidente del Gran Consiglio ha facoltà d’interrompere in ogni momento la discussione su qualsiasi questione e di sospendere la esecuzione delle deliberazioni del Gran Consiglio”.
Le altre norme sulle votazioni sono contenute nel paragrafo “Delle adunanze” ove all’art.14 si legge che “Spetta al Capo del Governo Presidente dichiarare chiusa la discussione, proporre l’Ordine del Giorno e metterlo ai voti”.
L’art.15 afferma che “Il Gran Consiglio delibera per alzata e seduta, per appello nominale e per scrutinio segreto”.
L’art.16 prevede una procedura originale:” Per il voto per appello nominale il Capo del Governo Presidente indica il significato del “si” e del “no” e designa il membro del Gran Consiglio dal quale l’appello nominale deve cominciare. L’appello viene continuato dal membro designato dal Presidente fino all’ultimo nome dell’alfabeto e ripreso con la prima lettera del medesimo fino al nome del membro designato dal Presidente”, concludendo che “Il segretario tiene nota dei voti; il Presidente ne proclama il risultato”.
Per lo scrutinio segreto l’art.17 prescrive che “il voto avvenga mediante il sistema delle due palle, una bianca ed una nera da deporsi nelle urne dopo che il Presidente abbia avvertito sul significato del voto”.
Non è chi non veda, a questo punto, l’impossibilità, anche per il fascista più scalmanato, di considerare colpa l’aver espresso il proprio voto su di un ordine del giorno che il 23 luglio era stato sottoposto a Mussolini il quale, pur criticandolo, lo aveva posto in votazione il giorno dopo.
Fu allora giocoforza “inventare” un nuovo reato che potesse dare una qualche giustificazione per punire i 19 votanti a favore dell’Ordine del Giorno Grandi: ed ecco che con Decreto 11 novembre 1943-XXII si istituiva il “Tribunale Speciale Straordinario” avente l’unico scopo di “…giudicare i fascisti che nella seduta del Gran Consiglio del 24 luglio 1943 tradirono l’idea rivoluzionaria…e con il voto del Gran Consiglio offrirono al re il pretesto per il colpo di stato”.
Ecco dunque scovato, dalle disinvolte menti dei giuristi saloini il reato giusto per l’occasione (per non dire “d’occasione”): IL TRADIMENTO DELL’IDEA.
Gli imputati furono dunque condannati non per aver votato l’O.d.G. Grandi, ma per aver tradito l’idea: il voto era stato solo l’arma con cui il tradimento era stato consumato.
E la sentenza di condanna 10 gennaio 1944 fa riferimento agli articoli 1 lett.A, 4 e 7 del Decreto 11 novembre 1943 che introduceva quel reato nuovo di zecca: appunto, il “tradimento dell’idea”.
Un presunto reato che non esisteva al momento in cui sarebbe stato commesso e, in più, con effetto retroattivo.
Le pagine da 172 a 207 del libro “Il processo di Verona” di Gian Franco Venè (Arnoldo Mondadori Editore - I edizione aprile 1963) che riportano il testo della lunga sentenza emessa dal Tribunale Speciale Straordinario per motivare la condanna emessa “nella causa penale di rito sommario”, attestano l’aperta violazione della civiltà giuridica italiana consumata dai suoi 9 membri, tutti di provata fede fascista.
A conferma, una citazione : fra le colpe degli imputati, anche quella di aver diffuso “la malsana aspirazione alla pace”.
Un’affermazione che, da sola, merita, quella si, condanna e sdegno.
Giovanni Zannini

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