“Grande guerra, l'Italia prese il volo” così intitola “Avvenire” dello scorso 30 ottobre la recensione che Roberto Beretta dedica al bel saggio “Dal fango al vento” dello storico Fabio Caffarena che ricostruisce l’epopea degli aviatori italiani durante la prima guerra mondiale.
Fra questi vi fu anche un veneto nato nel territorio della nostra Diocesi, a Borso del Grappa, il 5 novembre 1887 e che ha poi risieduto per molti anni a Padova.
Quando il 24 maggio 1915 l’Italia entrò in guerra, Arturo Z. si trovava in Russia dal 13 settembre 1913 lavorando quale capo tecnico alle dipendenze della “Societè Cotonnière de Dedovo” (società franco-russa) alla costruzione, nelle vicinanze di Mosca, di un grande complesso industriale tessile: sintomo, questo, di una politica di modernizzazione dell’economia russa già in atto da parte dello Zar Nicola e che avrebbe potuto svilupparsi, secondo alcuni, anche se la rivoluzione non fosse avvenuta
Buon tecnico di tessitura, si vantava di aver messo in moto il primo telaio della nuova fabbrica e di aver trasformato i suoi dipendenti da contadini in abili operai: quelli stessi che, in corteo, accompagnarono il loro “maestro” alla stazione ove era in partenza per tornare in Italia a compiere il suo dovere di soldato, consegnandogli una commovente lettera, che lui tenne, preziosa, per tutta la vita, e che i suoi eredi gelosamente custodiscono.
Giunto in Italia, viene arruolato nel 1° Reggimento Granatieri di Sardegna e il 22 febbraio 1916 avviato in zona di guerra con il grado di aspirante ufficiale successivamente promosso sottotenente e poi tenente.
Combatte sull’Altopiano di Asiago agli ordini del mitico Gen.Pennella, e partecipa alla presa del S.Michele.
Nel giugno 1917, nell’offensiva sull’Hermada, comandante del 4° plotone della 16° compagnia, a seguito della morte del suo comandante e degli altri tre comandanti di plotone, assume il comando dell’intera compagnia fino a che, ferito al ginocchio da una granata, è costretto a lasciare il fronte e viene ricoverato all’Ospedale Militare di Milano.
Inizia la lunga serie di cure, e la convalescenza è lunga perché la ferita tarda a guarire, e Arturo morde il freno, vuole tornare al fronte con i suoi granatieri. Guarito, non viene però ritenuto idoneo alla dura vita del fante, e dopo accurati esami attitudinali viene destinato al nuovo Corpo Areonautico Militare dell’Esercito (la “Regia Aeronautica” come corpo autonomo nascerà solo il 28 .marzo 1923) che accoglie ufficiali provenienti da tutte le armi. Bersaglieri, cavalleggeri, artiglieri, alpini, genieri, marinai e così via, mantengono la loro divisa, unico segno distintivo, una piccola aquila sul braccio destro, e lui continua a fregiarsi fieramente dei “sacri alamari”, le bianche mostrine che cingono il collo del granatiere, ultimo residuo della divisa di quel corpo di soldati scelti creato da Vittorio Emanuele II di Savoia nel 1852.
Il 7 marzo 1918 viene inviato al Battaglione Scuola Aviatori presso il campo scuola di Busto Arsizio per iniziare il corso di pilotaggio, poi a Venaria Reale, quindi a Furbara per le prove di acrobazia e tiro: ed il 30 agosto gli viene rilasciato il brevetto di pilota.
Così, in soli sei mesi, dopo rischi e pericoli affrontati con coraggio e nervi saldi, il granatiere diventa aviatore.
Nel suo libro, Caffarena afferma che per gli allievi il rischio di lasciarci la pelle durante l’addestramento era del 30%: ma secondo Arturo Z. esso era ancor maggiore.
Una volta in aria, fra una scivolata d’ala ed una maldestra cabrata, bene o male le cose andavano:
ma era al decollo e, soprattutto, al momento dell’atterraggio, che il pericolo era in agguato, allorchè i fragili trabiccoli di tela stentavano ad innalzarsi o, al momento di toccar terra, dopo aver saltellato disordinatamente, si cappottavano e prendevano fuoco o si distruggevano cozzando contro un hangar.
Ai bordi del campo d’aviazione, sempre presenti, e pronti ad intervenire, il Cappellano Militare e l’ambulanza.
La divisa intrisa di sangue gettata con noncuranza militaresca sul letto della camera che, al campo, divideva con un collega, gli annunciò un giorno, al rientro da una breve assenza, che l’amico era volato in cielo senza far ritorno alla base.
A lui era andata bene quando una perdita d’olio aveva imbrattato il parabrezza che lo riparava dal vento, impedendogli la visibilità, ed il motore perdeva colpi per cui occorreva affrontare un atterraggio di fortuna. Avvistato un campetto, riuscì a toccar terra manovrando la “cloche” stando mezzo in piedi per poterci vedere ad disopra del parabrezza, e l’apparecchio finì la corsa contro un fossatello mettendosi sull’”attenti”, che voleva dire il muso contro terra e la coda alta verso il cielo.
Nel settembre 1918 viene nominato comandante della 306ma squadriglia da caccia destinata alla difesa aerea di Terni per proteggere le famose acciaierie - che forgiavano i cannoni per il fronte - da possibili incursioni di aerei austriaci che, provenienti dalle loro basi in Jugoslavia, avessero attraversato l’Adriatico.
Al suo primo volo su Terni Arturo incappa in un imponente vuoto d’aria prodotto dalle ciminiere delle potenti fonderie ribollenti di fuoco, e rischia di precipitare: ma anche quella volta se la cava.
Fino al fatidico 4 novembre 1918 veglia sulla sicurezza della città pronto a spiccare, in ogni momento, con i suoi uomini, il volo: ma il nemico non arriva.
Forse perché sapeva che a sbarrargli la strada e pronti a fargliela pagare cara, c’era la 306ma squadriglia dell’Esercito Italiano con il suo comandante, Arturo Zannini, mio padre.
Giovanni Zannini
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