Tra i molti vanti di cui può fregiarsi Chioggia vi
è certamente anche quello di essere la città natale di un personaggio che nell’800 godè di grande fama e
notorietà.
Giuseppe Rota era nato a Chioggia nel 1822 e fin da
ragazzo, vivace ed arguto, un po’ scavezzacollo, aveva manifestato interesse per le scene
esibendosi sulle tavole di un piccolo
teatro come paggio destinato a piccole comparsate: ma quel primo contatto con
il palcoscenico accese in lui una passione per la danza che lo condusse, sia
pur faticosamente, alla notorietà ed al successo come coreografo. Ma chi è il
coreografo?
E’ l’autore di un libretto per il cui
accompagnamento musicale egli si rivolge al musicista che traduce in note i sentimenti,
le situazioni e le trame della rappresentazione
teatrale della quale è regista lo stesso autore. Una figura di artista dalle
molte sfaccettature che si adattava perfettamente al carattere geniale, brioso, esuberante, ingegnoso, esigente ed anche,
all’occorrenza, autoritario, del Rota che sapeva imporsi a tutti, primi
ballerini, corpo di ballo, musicisti, scenografi
che, condotti da lui al successo, lo acclamavano poi riconoscenti.
Poco sappiamo sulle sue prime esperienze lavorative:
il “Doctor Veritas” (alias Leone Fortis, patriota, giornalista – 1824/1896) in
una delle sue “Conversazioni” sulla “’Illustrazione
Italiana” del gennaio 1877 lo descrive come
“secondo ballerino di infimi teatri, il che vuol dire la più triste di
tutte le miserie, per due lire al giorno, condannato a trovare ogni sera un
sorriso ed a muoversi in cadenza al suono di una musica che simula allegria”.
In tali condizioni arriva a Milano nel 1851 scritturato alla “Canobbina” ( uno dei due
teatri milanesi, “La Scala”, il teatro grande, famoso, e quest’altro, divenuto
poi “Teatro Lirico”, per un pubblico più
modesto e meno esigente) per un ballo di carnevale che ebbe un esito
disastroso.
L’impresario alla disperata ricerca di un
coreografo disposto, per pochi soldi, a mettere in piedi un nuovo spettacolo,
si trova di fronte alla sbalorditiva proposta del secondo ballerino Rota:”
Vorle che ghe fassa un balo mi? Me sento
da tanto. Pochi zorni e pochi bezi”. E per convincere maggiormente l’altro,
incredulo e titubante, aggiunge:” Se nol piaze , no le me darà gnanca un
soldo” al che l’altro cede e Rota inizia
l’avventura. Ma sentiamo ancora cosa scrive il Doctor Veritas:” …In pochi
giorni il ballo promesso fu messo in scena. Era “Il Fallo” (che più tardi
prese nome “Il Fornaretto” – n.d.r.). Un successone, un
entusiasmo da non dirsi. Dalla Scala emigravasi in massa per vedere il ballo del minor teatro…che
costituiva un’arte nuova che s’imponeva alle masse…”. Allora il trasferimento
alla Scala fu naturale ed alla prima del 24-9-1853 fu il trionfo: lo spettacolo
fu replicato 54 volte ed il Doctor Veritas decretava:”...La nuova coreografia
era nata e Rota ne aveva trovato il segreto…”.
A quel primo successo ne seguirono molti altri -
che fecero di lui per una decina d’anni il coreografo
italiano preminente - nei quali
l’artista espresse le più diverse forme culturali: la commedia elegante con “La
Contessa d’Egmont”; la tragedia classica con “Cleopatra”; il dramma moderno col
“Giuocatore” e col “Montecristo”; l’inno pindarico con la “Velleda”; la satira
e la polemica con “Il Ballo nuovo”; l’allusione politica con “I Bianchi e i
Neri”.
Il secondo ballerino giunto a Milano con un solo miserevole
paio di pantaloni estivi azzurrini - che, onde potersi presentare un po’ più decentemente
in teatro a mettere in scena il suo primo ballo, aveva lui stesso tinti di nero con
l’inchiostro – divenuto famoso non aveva mai rinnegato le sue umili origini,
alla stregua di tanti altri “parvenus”.
Ma con la
maturità, a conferma della sensibilità del suo animo, subentrò in lui il desiderio, criticato dai
suoi stessi ammiratori che lo presero per pazzo, di abbandonare il teatro che pure gli aveva
dato fama e ricchezza. Una specie
di rimpianto per aver fino ad allora speso
la sua vita a costruire – scrive
Antonio Ghislanzoni nel suo “Libro serio” - “dei
giocattoli per il sollazzo di un pubblico spensierato”, che non avevano creato nulla di utile per la
società al cui sviluppo avrebbe invece voluto contribuire con le molteplici
capacità del suo ingegno: insomma, “era stanco di dilettare, voleva
beneficiare”.
Purtroppo non potè perseguire tale intento perché la morte lo colse a soli 43 anni
mentre era intento a costruire in Torino un grandioso stabilimento di fotoscultura,
una nuova arte da lui importata in Italia, dalla quale si attendeva ottimi
risultati a beneficio di molti.
Ma Rota condivideva anche lo spirito che animava i
patrioti italiani del suo tempo, e molti episodi lo confermano. Ad esempio - scrive
ancora il Doctor Veritas - nel suo ballo “I Bianchi e i Neri” …Gli schiavi neri
si strappavano i collari e li sollevavano in atto di minaccia verso i loro
aguzzini. In quel momento si sentivano fremere nell’orchestra quattro battute della Marsigliese: era Rota
che le aveva volute. L’azione combinata con la musica produsse l’effetto di un fulmine, il pubblico
scattò in piedi, vi fu un’insurrezione di applausi” e gli austriaci, leggendovi
un messaggio patriottico contro di loro,
proibirono il ballo per qualche tempo.
Ancora. Il Ghislanzoni scrive che, trovandosi a
Parigi nel 1859 mentre infuriava la seconda guerra d’indipendenza italiana nella quale Napoleone
III combatteva in Italia a fianco di Vittorio Emanuele, il Rota
si augurava che un contratto che stava stipulando non andasse a buon fine
perché, diceva ad un amico, “…mentre tutta Italia è in fermento di rivoluzione,
mentre laggiù si combatte per l’indipendenza del nostro paese, mentre i nostri
amici, i nostri fratelli, danno il loro sangue, non ti pare che sarebbe
vergogna se io mi trovassi sul palcoscenico a dirigere un esercito di
ballerine?”.
E quando si trovò di fronte ad un vecchio nobile francese (conservatore
e quindi avversario di Napoleone) che gli riferiva false notizie sull’andamento
della guerra, fra cui quella che Garibaldi sarebbe stato fatto prigioniero
dagli austriaci a Varese, egli, scrive sempre il Ghislanzoni, mandando a quel
paese ogni prudenza che gli avrebbe suggerito di non contraddirlo dato che, per
allestire uno spettacolo, aveva bisogno di lui, insorse
violentemente: ”Non può avvenire che Garibaldi cada prigioniero. Garibaldi può
cader ferito, può cader morto come l’ultimo dei suoi fantaccini, ma è
impossibile, ve lo ripeto, signor Conte, che si lasci prendere prigioniero!”.
Non si sa se poi il favore gli fu concesso:
comunque il nobiluomo ammirò il coraggio e la determinazione del Rota e, forse, lo accontentò.
Giuseppe Rota alle elementari aveva imparato a
leggere, scrivere e far di conto, ma si era fermato lì perchè le assi del palcoscenico erano poi divenute la
sua scuola. Ciononostante, dotato di un’intelligenza non comune, resosi conto
della necessità di adeguare la propria cultura all’ambiente nel quale, a
seguito del successo ottenuto, si era trovato a vivere, si era
dato, con la foga e l’ostinazione dell’autodidatta, a studiare e leggere libri
di ogni genere. La letteratura, certamente, ma soprattutto le scienze - la matematica, la geometria, la meccanica –
alle quali era specialmente portato, e delle quali sarebbe divenuto un
eccellente conoscitore ove avesse avuto la possibilità di studiarle e di
approfondirle opportunamente. “Assorbiva la scienza - secondo Ghislanzoni - prima di averla meditata; applicando le
teorie conquistate, egli rettificava i
propri dubbi, consolidava il proprio sapere”, ed egli stesso era consapevole di
possedere un ingegno superiore alla propria arte, un cuore creato per delle
espansioni più nobili che non fossero quelle della coreografia.
Un esempio, che vale anche per confermare il suo
patriottismo ed il suo desiderio di dare in qualche modo un contributo alle
lotte per l’unità d’Italia: l’invenzione del “telegrafo mobile per i campi di
battaglia”, che avrebbe dovuto favorire la vittoria degli italiani e dei
francesi fianco a fianco, nel 1859, in Italia, contro l’Austria. Un battaglione
di soldati a cavallo, a ciò addestrati, avrebbe dovuto installare, con la
massima celerità, con il sistema da lui studiato, le linee telegrafiche per tenere in
collegamento i vari reparti di combattenti sul campo seguendone i movimenti e consentire così
al Comandante supremo, dopo aver studiato le strategie, di diramare i suoi
ordini “con la velocità del lampo”.
Perfezionato il suo progetto tenendo conto anche
delle critiche e delle obiezioni di quanti lo accusavano di essere un
visionario, lo presentò all’autorevole consigliere di Napoleone III, il Duca di Morny, il quale, pur formulando
qualche dubbio, trattenne il documento
con l’intento di esaminarlo approfonditamente, dopo di che il Rota non ne seppe più nulla.
Fino a che, terminata la guerra in Italia, poco
dopo il rientro di Napoleone a Parigi, il
“telegrafo mobile” fu sperimentato ufficialmente in campo di Marte, e con pieno
successo, proprio in base a quel progetto che Rota aveva fiduciosamente consegnato
al Duca di Morny.
Solo che l’invenzione fu attribuita ad un ignoto meccanico francese per cui il
povero Rota, dopo inutili proteste, restò,
commenta Ghislanzoni, con un palmo di
naso.
Per concludere, un gustoso episodio a conferma del
brio, della fantasia, dell’inventiva, tutta italiana, del Rota.
Era arrivato in Francia senza conoscere una parola
di francese, assieme ad un amico che gli faceva da interprete.
Giunti al cospetto del Conte di Morny arbitro in una
controversia insorta con la direzione del teatro dell’”Operà” di Parigi a
proposito dell’andata in scena della “Contessa di Egmont”, l’interprete sostenne le ragioni dell’amico. L’arbitro espresse il suo verdetto ed a quel
punto il Rota, che non ne era rimasto, evidentemente, soddisfatto, prese la parola per sottolineare
le sue ragioni “con tal impeto di facondia – si legge - che il Conte ed altri
personaggi presenti ne furono stupiti”. Egli che, come si è visto, non parlava
il francese, “parlava una lingua nuova di
sua invenzione, un idioma inaudito che non era italiano, non era francese, ma
tale da rendersi egualmente comprensibile a quanti lo udivano. Vi sarebbe stato
da sorridere per quella strana forma di
linguaggio, eppure non vi fu alcuno che si permettesse di farlo. Forse nessuno
avvertì che quell’uomo prodigioso
improvvisava un nuovo vocabolario
ed una nuova grammatica. In quel giorno e da tal momento Rota non ebbe
più bisogno d’interpreti; egli possedeva la “lingua” cosmopolita ed è probabile
che gli Apostoli, dopo il miracolo delle lingue di fuoco, parlassero in quella
guisa”.
O, forse, aveva inventato l’ “esperanto”.
Giovanni
Zannini
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