Al solo nominarlo, questo nome, par di udire il rombo del cannone, il crepitare della fucileria, gli urli degli uomini che si scagliano l’uno contro l’altro per uccidersi, il lamento dei feriti, gli ordini degli ufficiali che incitano la truppa al combattimento, e par di sentire nel naso l’odore acre della polvere da sparo.
In mezzo a tutto ciò trascorse per molti anni l’esistenza quest’uomo che visse mille avventure del Risorgimento italiano e la cui personalità viene sinteticamente ma significativamente descritta dalle parole sibilline di Garibaldi ”… Bixio! Oh che uomo!...Che uomo” che lasciano sottintendere l’ammirazione per le sue virtù, ma anche la critica per i suoi molti difetti, ciononostante concludendo: ”Trovatemi un altro Bixio ed io faccio subito fucilare questo”.
Sugli eccessi di Bixio si sono dette molte cose, ma quella che meglio fotografa il personaggio è la “benda sanguigna” che talora cala sui suoi occhi con violenza irresistibile, di cui parla Mino Milani, autorevole autore di molti libri di storia risorgimentale, nel suo “La crocera del Maddaloni – Vita e morte di Nino Bixio – Mursia editore – 1977”.
Ma cosa provoca la caduta di questa malefica “benda” sugli occhi di un uomo altrimenti saggio ed equilibrato, quando indossa la divisa ? Giuseppe Guerzoni, altro biografo di Bixio, così risponde :”… era un uomo d’impeti…..: che si avesse l’obbligo di fare una cosa in un dato tempo, e che nonostante ciò si pensasse alla fame, al sonno, alla stanchezza ed al male, non lo poteva capire. I fiacchi, i deboli, gli svogliati, li aborriva.
Era talvolta eccessivo perché credeva tutti eguali a lui, era ingiusto perché sognava tutti gli uomini perfetti…Così, un segno anche lontano…di indisciplina, di disubbedienza, di irriverenza di un soldato, , d’un ufficiale, d’un subordinato, gli dava subito alla testa e gli faceva calar sugli occhi una “benda così sanguigna” che talvolta lo disumanava…”..
Come l’11 settembre 1860 nel porto di Paola, in Sicilia,ove, desideroso di accorrere a Caserta per dar man forte a Garibaldi che da un momento all’altro rischia di essere attaccato dai Borbonici, pretende (ed ottiene, gli altri temono di innervosirlo…) di imbarcarsi per primo con la sua divisione su l’ “Elettrico” adibito al trasporto. Ad un certo punto gli dicono che su quella nave non c’è più posto, e lui ordina che la truppa stia in piedi, ma anche fatto ciò, ad un certo punto lo informano che a bordo non vi è più spazio neppur per un sol uomo.
S’infuria, si fa portare sull’”Elettrico” e lì constata che, contrariamente ai suoi ordini, molti garibaldini sono tranquillamente sdraiati in coperta a riposare. Allora afferra un fucile per la canna e comincia a colpire forsennatamente con il calcio quei poveracci , fino a che uno di quelli è colpito a morte. La truppa e l’equipaggio reagiscono e se non fossero accorsi altri ufficiali ed il comandante della nave, Nino Bixio l’avrebbero certamente buttato a mare.
Un’altra volta, il 27 maggio 1860, durante la marcia di avvicinamento a Palermo, s’indigna per un gruppo di volontari che bivaccano disordinatamente attorno ad una fontana ed al generale La Masa che si qualifica loro comandante, replica:”Macchè generale La Masa, lei è il generale la merda!”. Anche qui tumulto e sguainar di sciabole cui mette fine l’intervento autorevole del generale Sirtori che ricorda non esser quello il momento della baruffe ma della massima unione in vista della difficile battaglia che li attendeva. E tutto finisce lì.
Ma le cose andarono diversamente una diecina di giorni dopo. Bixio ordina ad un gruppo di garibaldini di costituire la scorta d’onore nel funerale del volontario ungherese Luigi Tukory caduto in battaglia. Il loro comandante, il siciliano Carmelo Agnetta, che non lo conosce, gli dice di accettare ordini solo da Garibaldi, ed all’invito da lui rivoltogli, di qualificarsi, Bixio risponde con un sonoro ceffone. Il duello, rinviato alla fine della spedizione, è inevitabile: nello scontro alla pistola Bixio è colpito alla mano, il combattimento è sospeso ed alla fine i due si riconcilieranno.
Si rimprovera anche a Bixio di aver ucciso senza pietà un picciotto garibaldino che durante la battaglia di Palermo, invece di gettarsi nella mischia, si era attardato per cavar gli stivali ad un morto nemico e, soprattutto, la sua spietatezza nella repressione di Bronte (una località sulle falde dell’Etna, ad una settantina di chilometri da Catania) ove si erano verificati gravi disordini durante i quali la folla inferocita aveva fatto a pezzi 15 proprietari terrieri (i cosiddetti “galantuomini”).
Nella sua opera citata Mino Milani dà un’interpretazione piuttosto difensionista del comportamento di Bixio convinto di trovarsi di fronte ad un’insurrezione suscitata dai borbonici contro l’invasione garibaldina.
Lo dimostra un proclama rivolto alla popolazione con cui afferma che ”la corte di Napoli ha educato una parte di voi al delitto ed oggi vi spinge a commetterlo”, donde la sua determinazione nel reprimere sul nascere un moto che avrebbe potuto, a suo avviso, espandersi a macchia d’olio in Sicilia e mettere in pericolo l’esito della spedizione garibaldina.
Anche se, aggiunge l’autore, le presunte efferatezze di Bixio si limitano (pure se il sacrificio di una sola vita umana è sempre grave delitto) all’ordine di fucilare cinque capipopolo imputati di aver fatto e pezzi le 15 vittime dell’insurrezione, a seguito della sentenza di una Commissione Straordinaria di guerra presieduta da tal maggiore Francesco de Felice, incaricata di istruire il processo.
Va detto, per la verità, che forse Garibaldi conosceva il vero significato dell’insurrezione di Bronte: una rivolta popolare contadina contro padroni esosi ed insensibili alle loro miserabili condizioni di vita, ma che egli avesse autorizzato Bixio (che era in buonafede) ad intervenire, sia per compiacere gli inglesi, suoi alleati occulti, titolari di interessi economici molto rilevanti nell’isola, sia per accaparrarsi il favore dei grandi proprietari terrieri, sganciandoli dalla fedeltà ai Borboni.
Prima di concludere sulla disamina di questo aspetto della personalità di Nino Bixio, occorre però rilevare che in molti casi ebbe lui stesso a pentirsi di tali eccessi per i quali Garibaldi non esitò a criticarlo ed in qualche caso a punirlo. Significative le parole che egli gli rivolge che dovrebbero essere di monito a chiunque abbia pubbliche responsabilità: ”Come potete comandare 10.000 uomini voi che non sapete comandare a voi stesso?”.
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Ma, a un certo punto, Bixio si trasforma. Si direbbe che dopo i primi anni di vita trascorsi - praticamente rinnegato dalla famiglia per il suo caratteraccio - fra mille avventure sui mari di mezzo mondo, ove da mozzo arriva a conseguire la patente di “Capitano mercantile per la navigazione illimitata”; dopo aver partecipato all’età di 27 anni, nel 1848, alla prima Guerra d’Indipendenza, poi nel 1849 alla difesa della gloriosa Repubblica Romana, e, nel 1859, alla seconda Guerra d’Indipendenza; e poi, ancora, l’anno dopo, nel mitico anno 1860, alla Spedizione dei Mille, egli senta il bisogno di una pausa di riflessione: e si dà alla politica. Sull’onda della popolarità acquisita con le sue gesta di combattente viene eletto per la prima volta nel 1861 alla Camera dei deputati ove sarà rieletto ininterrottamente prima di passare negli ultimi anni, per nomina regia, al Senato.
Ma, pur sedendo negli scranni parlamentari, egli mantiene la qualifica di militare “a disposizione”, pronto ad indossare di nuovo la divisa (questa volta di generale dell’esercito regio ove è stato inquadrato provenendo dal disciolto esercito dei volontari garibaldini) ove la patria lo chiami.
Ed eccolo, nel 1866, lasciare lo scranno parlamentare per partecipare alla terza Guerra d’indipendenza, per poi rioccuparlo alla fine del conflitto, salvo indossare di nuovo, per l’ultima volta, nel 1870, la divisa, per partecipare, al comando della sua divisione, alla presa di Roma, contribuendo all’impresa con la conquista, senza colpo ferire, della cittadella fortificata di Civitavecchia.
Si potrebbe dire che, mentre Garibaldi, alla fine delle sue imprese, si ritirava nella sua isola, Bixio, una volta rinfoderata la sciabola, la sua Caprera la trovava in Parlamento.
Del deputato Nino Bixio si ricordano soprattutto gli interventi miranti a favorire l’economia della nuova nazione italiana mediante i commerci con l’estero, soprattutto potenziando, da uomo di mare e da buon genovese, la marina mercantile.
I lunghi anni trascorsi sul mare gli avevano procurato un’ esperienza specifica in materia - tanto che si parlò della sua candidatura a capo del Ministero della Marina Mercantile - che gli consentì di avanzare proposte anticipatrici delle quali non si tenne all’epoca gran conto, e che, alla fine, volle lui stesso sperimentare evidenziando di aver coraggio non solo sui campi di battaglia, ma anche nell’agone commerciale.
Egli andava infatti proclamando che lo storico taglio, nel 1869, del Canale di Suez, aveva aperto prospettive nuove ai commerci marittimi che avrebbero dovuto battere non più le rotte inflazionate dell’Atlantico, ma quelle dell’Oriente, sull’esempio degli inglesi e degli olandesi che le stavano monopolizzando ritraendone immensi benefici economici.
Si ricorda, in proposito, una sua lettera del 20.2.1872 al “Corriere Mercantile” di Genova con la quale ricorda di aver visto durante i suoi viaggi in Oriente, a Giacarta, Singapore, Surabaia e così via, molte case lastricate con marmo di Carrara acquistato dagli americani in Italia, trasportato in America e quindi venduto ai ricchi dell’Oriente, con una triangolazione assurda. E snocciola puntigliosamente, una cinquantina di prodotti nazionali (manifatture di cotone, arte vetraria, coltelleria, olio, aceto, formaggi, “butirro”, confetti, candele, cordaggi e spago, oreficerie e argenterie, canditi, cioccolato, e pure bottoni, gesso e calce, cemento, perfino armi e munizioni, e così via) che, grazie alla “porta” di Suez, gli italiani avrebbero potuto vendere direttamente su quel mercato nuovo e molto appetitoso.
Contemporaneamente, allo scopo di favorire questi commerci, Bixio evidenziava la necessità di migliorare la portualità italiana per consentire l’attracco a grandi navi, e che la flotta commerciale nazionale fosse potenziata con la costruzione di navi di maggior stazza – 2000 tonnellate e oltre – rispetto alle navicelle italiane poco redditizie commercialmente, da 200 o 300 tonnellate.
Grandi navi, dunque, ma "miste", ossia a vela ed a vapore, per vincere le bonacce che afflosciano le vele, costringono i naviganti ad attendere angosciosamente il vento che non arriva, e che mettono in pericolo la regolarità dei noli, e in grado di continuare a navigare anche quando il vento non vuol saperne di soffiare.
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E dal momento che non gli danno retta, al di là di generici assensi, decide di realizzare lui stesso le sue idee finanziando la costruzione di una grande nave mista, a vela e vapore, con la quale avrebbe percorso le rotte d’Oriente.
Dopo aver partecipato alla presa di Roma nel 1870 considera esaurita la sua missione di patriota: decide che è giunto il momento di pensare anche agli affari suoi, e nasce il Bixio imprenditore navale, armatore.
Si dimette da deputato ed il Re, per non privare il mondo politico italiano di un nome di prestigio, lo nomina senatore (con qualche malumore del presidente del Senato Casati che si domanda come Bixio, continuamente in giro per il mondo, potrà esercitare le relative funzioni).
Chiede di dimettersi dall’esercito, ma lo scongiurano di non farlo, lui accetta di rimanere simbolicamente “a disposizione”, e inizia la sua nuova avventura.
Apre una sottoscrizione e gira l’Italia per raccogliere fondi con i quali realizzare il sogno di una vita, costruire una grande nave mista, a vela ed a vapore, e trova in Inghilterra a Gateshead, un sobborgo di Habburn on the Tyne, un cantiere di proprietà di tal Andrew Leslie, uomo d’affari in apparenza conciliante ma in sostanza molto esigente nel pretendere i suoi crediti, che si dichiara disposto a concludere l'affare.
Nonostante molte promesse, i soci scarseggiano, senza seguire l’esempio del Re che ha aperto la sottoscrizione: ma fra cambiali, rateazioni e dilazioni il contratto fra Bixio e l’inglese è finalmente firmato per la costruzione di una nave avente le seguenti caratteristiche:”Macchina nominale 180 a 200, capace di imprimere 9 miglia in mare; lunghezza 330 piedi (circa 124 metri); larghezza 34 (circa 14 metri ); profondità 23, spiazzamento 4.460 tonnellate, misura costruttore1903 tonnellate, grosso tonnellaggio 2.166, netto 1.691, immersione 21 piedi, portata effettiva 3.300, consumo giornaliero da 15 a 18 tonnellate di carbone”. Il costo: 46.700 sterline pari a L.1.209.000: non c’è che dire, un bel coraggio.
E poi, il nome, ”Maddaloni”: un povero villaggio alla fine di un arco di territorio che parte dalle coste del Tirreno e che ha al centro Capua ove i borbonici l’1 ottobre 1860 tenteranno, nella battaglia del Volturno che scorre non lontano, di arrestare la marcia vittoriosa di Garibaldi.
Bixio deve tenere ad ogni costo l’estrema destra del fronte: se cede, il nemico prenderà alle spalle l’intero schieramento garibaldino e sarà la fine. Il combattimento è furioso, con alterne vicende ma una disperata carica da lui personalmente guidata ha successo – nonostante che un giovane trombettiere siciliano , sconvolto, pieno di paura abbia suonato la ritirata anziché la “carica” come gli è ordinato, e non si sa cosa gli sia successo...- e l’avanzata avversaria è arrestata.
Quel nome, rimasto indelebilmente impresso nella sua memoria, sarà quello della nave che fu all’epoca una delle più grandi della Marina Mercantile italiana, ammirata e visitata con vivo interesse in tutti i porti sulla rotta dell’oriente verso cui Bixio, dopo il varo avvenuto il 21 giugno 1873, si era immediatamente diretto con un carico di carbone destinato a Singapore.
Non era un gran che, non era quella la merce italiana che aveva sognato di trasportare nei mercati d’oriente, ma per cominciare, e con tutti i debiti da pagare, non era il caso di fare gli schizzinosi.
Giunto a destinazione, installa il suo ufficio commerciale e dopo alcuni noli di poca importanza gli capita l’occasione che lo entusiasma: si tratta di un ricco contratto con il governo olandese per il trasporto di truppe verso il nord dell’isola di Sumatra ove le popolazioni locali, gli Atjek, si sono ribellati e chiedono l’indipendenza (un sogno che si realizzerà solo nel 1959 con la nascita della Repubblica di Indonesia) contro il potere coloniale.
Per il viaggio dal porto di Surabaja alla zona di guerra il governo olandese offre un contratto di 7.000 sterline a viaggio, rinnovabile di mese in mese: una manna per Bixio che accetta di corsa.
Si tratta di imbarcare 1200 uomini con cavalli al seguito, trasformando una nave bella e signorile in una caserma galleggiante popolata da pochi olandesi, un gruppo di mercenari europei ed il resto truppe indigene cinesi e malesi di infima qualità.
Già durante il viaggio che avviene di conserva ad un’altra trentina di navi pur esse gonfie di soldataglia, Bixio si accorge che l’affare è meno buono del previsto per il disordine che invade la sua bella nave, le condizioni igieniche disastrose, l’indisciplina che regna sovrana e non vede l’ora sbarcare quella marmaglia.
Ma, giunti a destinazione, gli olandesi indugiano: a terra vi sono problemi, perché gli Atjeh sono agguerritissimi, ed occorre molta cautela.
Nell’attesa, però, le cose a bordo peggiorano sempre più e nell’immondezzaio fiorisce il colera. Primi a lasciarci la pelle sono gli indigeni che vengono gettati a mare e che galleggiano ostinatamente attorno alla nave, ma successivamente il morbo si diffonde anche fra gli europei e gli stessi membri dell’equipaggio.
Finalmente, lo sbarco ha luogo ed hanno inizio le operazioni di bonifica della nave che lentamente riacquista il suo aspetto civile, ma il morbo non sbarca.
Bixio per l’esperienza drammatica vissuta, è incerto se proseguire l’affare con gli olandesi, ma il suo dubbio è superato dalla malattia che lo colpisce ed in breve lo riduce in fin di vita.
Consapevole della fine vicina, detta le sue disposizioni testamentarie che riguardano in primis la moglie, i figli e tutti i suoi dipendenti, soprattutto l’equipaggio del “Maddaloni” al quale destina “un mese di gratificazione di soldo”: poi, il 16 dicembre 1873, esala l’ultimo respiro, all’età di soli 52 anni.
La sua morte pone immediatamente problemi perché mentre i suoi propendono per l’imbalsamazione, gli olandesi pretendono l’immediata distruzione del cadavere per evitare l’ulteriore diffondersi del morbo. Si raggiunge un compromesso per cui il corpo di Bixio, racchiuso in una cassa di ferro, verrà sepolto nell’isoletta di Pulo Tuan in un punto ben definito per consentirne in futuro il recupero.
Ma quei poveri resti non ebbero pace.
Gli Atjeh che avevano evidentemente osservato quei movimenti sospetti, avevano poi recuperato la cassa pensando di trovarci chi sa che ma poi, disillusi (e, di sicuro, schifati), si erano affrettati a riseppellire il cadavere sotto poche badilate di terra: ed un paio di quelli che avevano partecipato all’operazione, contagiati, ci lasciarono la pelle.
Cosicchè, quando nel marzo 1876 il cap.Brook del 2° reggimento di fanteria olandese, comandante la guarnigione del luogo ove era avvenuta la sepoltura, riuscì, grazie ad un indigeno di buona memoria, ad individuarla, vi trovò solo un mucchietto di ossa. La cassetta con i pochi resti fu consegnata con eccezionale solennità - a conferma della fama di cui godeva il personaggio anche al difuori d'Italia - dalle autorità olandesi al Comandante del "R. Avviso Cristoforo Colombo", una nave della Marina Militare Italiana che stava effettuando il giro del mondo - considerato, all'epoca, impresa di eccezionale interesse - e che nell'occasione da Singapore ove aveva fatto tappa, si era recato a Batavia per imbarcare il prezioso reperto. Così l'inviato speciale dell' "Illustrazione Italiana", Patta d'Ancora, descrive sul numero dell'8 luglio 1877 la cerimonia: ""....La mattina del 2 maggio (1877) i preziosi avanzi furono portati sul nostro bordo. Erano a terra a riceverli il Comandante di bordo ed alcuni ufficiali. Un battaglione di fanteria olandese, una brigata d'artiglieria, e uno squadrone di cavalleria, resero gli onori militari; il convoglio funebre era seguito dal Prefetto della provincia di Batavia il quale rappresentava il Governatore Generale dell'isola e da tutti gli altri funzionari sia militari che civili; i cordoni poi del carro erano tenuti da quattro colonnelli dell'esercito olandese...Portate a bordo, le ossa furono consegnate al Comandante il quale fece verificare se fossero quelle registrate nel verbale di consegna. Chiusa di nuovo la cassetta fu portata sul castello di poppa e posta sopra un sarcofago apparecchiato per la circostanza (del quale il giornale pubblica lo schizzo fatto dallo stesso corrispondente - ndr.). Il Prefetto lesse in francese poche ma commoventi parole rammentando la vita del generale e tracciando brevemente quella parte della storia del nostro Risorgimento nella quale ad ogni tratto s'incontra la nobile figura del Bixio. Finì il suo discorso press'a poco con le seguenti parole: "Allorchè l'Italia, scacciati gli stranieri, prese posto fra le nazioni libere il generale Bixio, sdegnando gli ozi della pace e di una vita inattiva, prese le vesti del marinaio e si avventurò sul mare colla fede di aprire alla vostra patria nuovi commerci; ma la morte troncò i suoi nobili disegni. Voi ora reclamate le ossa di questo vostro concittadino e noi siamo fortunati di soddisfare, almeno in parte, al vostro desiderio giacchè noi pure nati in un paese ove la libertà fu conquistata a prezzo di sangue, sappiamo quanto si debbano amare i generosi che
concorsero a redimere e rendere grande la patria". Durante tutto il tempo della cerimonia funebre, i cannoni del forte fecero salve mortuarie e tutti i bastimenti che si trovavano in rada tennero la bandiera a mezz'asta in segno di lutto. Nella mattina del giorno seguente noi lasciammo Batavia dirigendo per Singapore ove ancorammo verso le 2 pomeridiane del giorno 7. Questa sera la cassa contenente le ossa e di cui vi unisco il disegno, sarà consegnata al R. Console di Singapore unitamente alla cassa di ferro che racchiuse il corpo esanime del compianto generale. Su una delle parti di questa cassa l'equipaggio del Maddaloni incise le parole: "G.le N.Bixio - 1873" e sull'altra parte vennero scritte qui a bordo le seguenti linee: "Questa cassa raccolse le spoglie mortali del generale Nino Bixio. Involate e violate da mani barbare, fu con grandi stenti e con sagrifizio di vite umane (durante le lunghe ricerche alcuni soldati olandesi morirono - ndr.) trovata assieme ai gloriosi avanzi dalle autorità Olandesi sulla costa di Atcheen. Queste preziose reliquie nazionali il 2 maggio 1877 vennero consegnate al Comandante del "R.Avviso Cristoforo Colombo" cogli onori militari e con grande dimostrazione di stima della popolazione di Batavia - Il 9 maggio ne ha preso consegna il R. Console di Singapore il quale ha condotto le pratiche per il recupero in seguito a vivo interesse mostrato dal R. Governo".
In effetti i resti mortali del generale Bixio vennero sbarcati in tale data con altra solenne cerimonia, dalla "Cristoforo Colombo" e consegnata al Console italiano di Singapore che provvide a farli pervenire a Genova ove il 29 settembre furono tumulati, con grandi onori, nel cimitero di Staglieno.
E la “Maddaloni”? Era arrivata nel porto di New Diep, in Olanda, verso la metà di aprile 1874 ed ivi messa all’asta dalla Società del Credito degli Armatori per recuperare i debiti che Bixio non era ancora riuscito a saldare.
Acquistata da una società britannica e ribattezzata “City of Castle” fu destinata proprio ad un servizio di linea regolare con l’Estremo Oriente procurando agli armatori inglesi proficui guadagni.
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Le sue idee avevano dunque trionfato: ma a sventolare sul pennone più alto della nave non era più il tricolore d’Italia issato fieramente dal generale Nino Bixio, ma l’”Union Jack” del Regno Unito d’Inghilterra.
Govanni Zannini
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