lunedì 4 novembre 2013

GIUSEPPE ROTA CHIOGGIOTTO, COREOGRAFO, PATRIOTA, INVENTORE

 Tra i molti vanti di cui può fregiarsi Chioggia vi è certamente anche quello di essere la città natale di un  personaggio che nell’800 godè di grande fama e notorietà.
Giuseppe Rota era nato a Chioggia nel 1822 e fin da ragazzo, vivace ed arguto, un po’ scavezzacollo,  aveva manifestato interesse per le scene esibendosi sulle tavole  di un piccolo teatro come paggio destinato a piccole comparsate: ma quel primo contatto con il palcoscenico accese in lui una passione per la danza che lo condusse, sia pur faticosamente, alla notorietà ed al successo come coreografo. Ma chi è il coreografo?
E’ l’autore di un libretto per il cui accompagnamento musicale egli si rivolge al musicista che traduce in note i sentimenti, le situazioni e le trame della  rappresentazione teatrale della quale è regista lo stesso autore. Una figura di artista dalle molte sfaccettature che si adattava perfettamente al carattere geniale, brioso,  esuberante, ingegnoso, esigente ed anche, all’occorrenza, autoritario, del Rota che sapeva imporsi a tutti, primi ballerini, corpo di ballo, musicisti,  scenografi che, condotti da lui al successo, lo acclamavano poi riconoscenti.

Poco sappiamo sulle sue prime esperienze lavorative: il “Doctor Veritas” (alias Leone Fortis, patriota, giornalista – 1824/1896) in una  delle sue “Conversazioni” sulla “’Illustrazione Italiana” del gennaio 1877 lo descrive come  “secondo ballerino di infimi teatri, il che vuol dire la più triste di tutte le miserie, per due lire al giorno, condannato a trovare ogni sera un sorriso  ed a muoversi in cadenza  al suono di una musica che simula allegria”.
In tali condizioni arriva a Milano nel 1851  scritturato alla “Canobbina” ( uno dei due teatri milanesi, “La Scala”, il teatro grande, famoso, e quest’altro, divenuto poi “Teatro Lirico”,  per un pubblico più modesto e meno esigente)  per un  ballo di carnevale che ebbe un esito disastroso.
L’impresario alla disperata ricerca di un coreografo disposto, per pochi soldi, a mettere in piedi un nuovo spettacolo, si trova di fronte alla sbalorditiva proposta del secondo ballerino Rota:” Vorle che ghe fassa  un balo mi? Me sento da tanto. Pochi zorni e pochi bezi”. E per convincere maggiormente l’altro, incredulo e titubante, aggiunge:” Se nol piaze , no le me darà gnanca un soldo”  al che l’altro cede e Rota inizia l’avventura. Ma sentiamo ancora cosa scrive il Doctor Veritas:” …In pochi giorni il ballo promesso fu messo in scena. Era “Il Fallo” (che più tardi prese  nome  “Il Fornaretto” – n.d.r.). Un successone, un entusiasmo da non dirsi. Dalla Scala emigravasi in massa  per vedere il ballo del minor teatro…che costituiva un’arte nuova che s’imponeva alle masse…”. Allora il trasferimento alla Scala fu naturale ed alla prima del 24-9-1853 fu il trionfo: lo spettacolo fu replicato 54 volte ed il Doctor Veritas decretava:”...La nuova coreografia era nata e Rota ne aveva trovato il segreto…”.  
A quel primo successo ne seguirono molti altri - che  fecero di lui per una decina d’anni  il coreografo  italiano preminente -  nei quali l’artista espresse le più diverse forme culturali: la commedia elegante con “La Contessa d’Egmont”; la tragedia classica con “Cleopatra”; il dramma moderno col “Giuocatore” e col “Montecristo”; l’inno pindarico con la “Velleda”; la satira e la polemica con “Il Ballo nuovo”; l’allusione politica con “I Bianchi e i Neri”.
Il secondo ballerino giunto a Milano con un solo miserevole paio di pantaloni estivi azzurrini - che, onde potersi presentare un po’ più decentemente in teatro a mettere in scena il suo primo ballo,  aveva lui stesso tinti di nero con l’inchiostro – divenuto famoso non aveva mai rinnegato le sue umili origini, alla stregua di tanti altri “parvenus”.     
Ma  con la maturità, a conferma della sensibilità del suo animo,  subentrò in lui il desiderio, criticato dai suoi stessi ammiratori che lo presero per pazzo,  di abbandonare il teatro che pure gli aveva dato fama e ricchezza.  Una specie di  rimpianto per aver fino ad allora speso la sua vita  a costruire – scrive                                                       Antonio Ghislanzoni nel suo “Libro serio”  -  “dei giocattoli per il sollazzo di un pubblico spensierato”,  che non avevano creato nulla di utile per la società al cui sviluppo avrebbe invece voluto contribuire con le molteplici capacità del suo ingegno: insomma, “era stanco di dilettare, voleva beneficiare”.
Purtroppo non potè perseguire tale intento  perché la morte lo colse a soli 43 anni mentre era intento a costruire in Torino un grandioso stabilimento di fotoscultura, una nuova arte da lui importata in Italia, dalla quale si attendeva ottimi risultati a beneficio di molti.   

Ma Rota condivideva anche lo spirito che animava i patrioti italiani del suo tempo, e molti episodi lo confermano. Ad esempio - scrive ancora il Doctor Veritas - nel suo ballo “I Bianchi e i Neri” …Gli schiavi neri si strappavano i collari e li sollevavano in atto di minaccia verso i loro aguzzini. In quel momento si sentivano fremere nell’orchestra  quattro battute della Marsigliese: era Rota che le aveva volute. L’azione combinata con la musica  produsse l’effetto di un fulmine, il pubblico scattò in piedi, vi fu un’insurrezione di applausi” e gli austriaci, leggendovi un messaggio patriottico contro di loro,  proibirono il ballo per qualche tempo.
Ancora. Il Ghislanzoni scrive che, trovandosi a Parigi nel 1859 mentre infuriava la seconda guerra  d’indipendenza italiana nella quale Napoleone III combatteva in Italia a fianco di Vittorio Emanuele,   il Rota si augurava che un contratto che stava stipulando non andasse a buon fine perché, diceva ad un amico, “…mentre tutta Italia è in fermento di rivoluzione, mentre laggiù si combatte per l’indipendenza del nostro paese, mentre i nostri amici, i nostri fratelli, danno il loro sangue, non ti pare che sarebbe vergogna se io mi trovassi sul palcoscenico a dirigere un esercito di ballerine?”.
E quando si  trovò di fronte ad un vecchio nobile francese (conservatore e quindi avversario di Napoleone)   che gli riferiva false notizie sull’andamento della guerra, fra cui quella che Garibaldi sarebbe stato fatto prigioniero dagli austriaci a Varese, egli, scrive sempre il Ghislanzoni, mandando a quel paese ogni prudenza che gli avrebbe suggerito di non contraddirlo dato che, per allestire uno spettacolo, aveva bisogno di lui,   insorse violentemente: ”Non può avvenire che Garibaldi cada prigioniero. Garibaldi può cader ferito, può cader morto come l’ultimo dei suoi fantaccini, ma è impossibile, ve lo ripeto, signor Conte, che si lasci prendere prigioniero!”.   
Non si sa se poi il favore gli fu concesso: comunque il nobiluomo ammirò il coraggio e la determinazione   del Rota e, forse, lo accontentò.

Giuseppe Rota alle elementari aveva imparato a leggere, scrivere e far di conto, ma si era fermato lì perchè  le assi del palcoscenico erano poi divenute la sua scuola. Ciononostante, dotato di un’intelligenza non comune, resosi conto della necessità di adeguare la propria cultura all’ambiente nel quale, a seguito del  successo  ottenuto, si era trovato a vivere, si era dato, con la foga e l’ostinazione dell’autodidatta, a studiare e leggere libri di ogni genere. La letteratura, certamente, ma soprattutto le scienze -  la matematica, la geometria, la meccanica – alle quali era specialmente portato, e delle quali sarebbe divenuto un eccellente conoscitore ove avesse avuto la possibilità di studiarle e di approfondirle opportunamente. “Assorbiva la scienza  - secondo Ghislanzoni  - prima di averla meditata; applicando le teorie  conquistate, egli rettificava i propri dubbi, consolidava il proprio sapere”, ed egli stesso era consapevole di possedere un ingegno superiore alla propria arte, un cuore creato per delle espansioni più nobili che non fossero quelle della coreografia.
Un esempio, che vale anche per confermare il suo patriottismo ed il suo desiderio di dare in qualche modo un contributo alle lotte per l’unità d’Italia: l’invenzione del “telegrafo mobile per i campi di battaglia”, che avrebbe dovuto favorire la vittoria degli italiani e dei francesi fianco a fianco, nel 1859, in Italia, contro l’Austria. Un battaglione di soldati a cavallo, a ciò addestrati, avrebbe dovuto installare, con la massima celerità, con il sistema da lui studiato,  le linee telegrafiche per tenere in collegamento i vari reparti di combattenti  sul campo seguendone i movimenti e consentire così al Comandante supremo, dopo aver studiato le strategie, di diramare i suoi ordini “con la velocità del lampo”.
Perfezionato il suo progetto tenendo conto anche delle critiche e delle obiezioni di quanti lo accusavano di essere un visionario, lo presentò all’autorevole consigliere di Napoleone III, il  Duca di Morny, il quale, pur formulando qualche dubbio,  trattenne il documento con l’intento di esaminarlo approfonditamente,  dopo di che il Rota non ne seppe più nulla.
Fino a che, terminata la guerra in Italia, poco dopo il rientro di Napoleone a Parigi,  il “telegrafo mobile” fu sperimentato ufficialmente in campo di Marte, e con pieno successo, proprio in base a quel progetto che Rota aveva fiduciosamente consegnato al Duca di Morny.
Solo che l’invenzione fu attribuita  ad un ignoto meccanico francese per cui il povero Rota, dopo inutili proteste,  restò, commenta Ghislanzoni,  con un palmo di naso.

Per concludere, un gustoso episodio a conferma del brio, della fantasia, dell’inventiva, tutta italiana, del Rota.
Era arrivato in Francia senza conoscere una parola di francese, assieme ad un amico che gli faceva da interprete.   
Giunti al cospetto del Conte di Morny arbitro in una controversia insorta con la direzione del teatro dell’”Operà” di Parigi a proposito dell’andata in scena della “Contessa di Egmont”, l’interprete  sostenne le ragioni dell’amico.  L’arbitro espresse il suo verdetto ed a quel punto il Rota, che non ne era rimasto, evidentemente,  soddisfatto, prese la parola per sottolineare le sue ragioni “con tal impeto di facondia – si legge - che il Conte ed altri personaggi presenti ne furono stupiti”. Egli che, come si è visto, non parlava il francese, “parlava  una lingua nuova di sua invenzione, un idioma inaudito che non era italiano, non era francese, ma tale da rendersi egualmente comprensibile a quanti lo udivano. Vi sarebbe stato da sorridere  per quella strana forma di linguaggio, eppure non vi fu alcuno che si permettesse di farlo. Forse nessuno avvertì che quell’uomo prodigioso  improvvisava un nuovo vocabolario  ed una nuova grammatica. In quel giorno e da tal momento Rota non ebbe più bisogno d’interpreti; egli possedeva la “lingua” cosmopolita ed è probabile che gli Apostoli, dopo il miracolo delle lingue di fuoco, parlassero in quella guisa”.
O, forse, aveva inventato l’ “esperanto”.

                                                                                                            Giovanni Zannini

Nessun commento:

Posta un commento