lunedì 9 settembre 2013

Sessantanove anni fa - IL RASTRELLAMENTO DEL GRAPPA

Nei giorni 21/27 settembre 1944 si verificava nel Veneto una sanguinosa battaglia passata alla storia con il nome di “Rastrellamento del Monte Grappa”,  un episodio  di guerra definita asimmetrica, di quelle cioè in cui non vi sono due fronti contrapposti  chiaramente definiti sul terreno, sibbene uno tradizionale di tale tipo,  ed uno anomalo, invisibile,  diffuso nel territorio in maniera discontinua: la cosiddetta guerra partigiana o per bande, come fu la guerra di liberazione condotta da Tito in Jugoslavia contro  gli invasori nazifascisti o, per venire ai giorni nostri, quella in Afganistan.
10.000 uomini  appartenenti a diverse formazioni militari nazifasciste  -  alla X divisione tedesca, alle SS comandate dal col.Willy Niedermaier, alla gendarmeria tedesca, alle Brigate Nere,  alla  “Guardia Nazionale Repubblicana” – si erano schierate in pianura, nei giorni precedenti l’attacco, tutto attorno al massiccio del Monte Grappa, isolandolo.
Assieme ad essi reparti di cosacchi specializzati in azioni di antiguerriglia che, ancora sentimentalmente legati al defunto Zar e quindi ferocemente nemici dei comunisti che lo avevano ucciso, avevano  seguito i  tedeschi nella ritirata di Russia fidando nella loro promessa di offrir loro una nuova patria, la “Kosakenland”, in Italia, nella Carnia.
Fra gli assalitori un nome noto, quello di  Giorgio Albertazzi, l’attore oggi novantenne, all’epoca giovane sottotenente comandante il 2° plotone fucilieri della III compagnia del 63° battaglione “M” della Guardia Nazionale Repubblicana che partecipò  al tragico rastrellamento: uno di quei giovani che in un momento terribile della storia italiana ebbero l’impulso di agire per quello che essi ritennero essere allora  il bene della patria  ponendosi però al servizio di una parte che la storia ha dimostrato essere quella sbagliata.
Si erano così trovati in una morsa quel migliaio di uomini che presidiavano la montagna appartenenti a formazioni partigiane di diverso colore politico non sempre ben collegate fra di loro – le 3 brigate “Italia libera di Campocroce”,  “Italia libera dell’Archeson”, “Matteotti”, ed i  battaglioni “Garibaldi” -   comprendenti militari del regio esercito  sbandati dopo l’armistizio dell’8 settembre, renitenti alla leva militare indetta dal governo repubblichino  e prigionieri di guerra alleati che, trovati improvvisamente aperti i cancelli dei loro campi di concentramento dopo lo sfascio dell’esercito italiano, si erano rifugiati sul monte Grappa.
Ed il 21 settembre gli assedianti mossero all’attacco: da una parte reparti militari ben organizzati ed armati di tutto punto, dall’altra combattenti volontari coraggiosi ma male armati ed addestrati,  che alle autoblindo, ai cannoni, alle mitragliatrici, alle mitragliere ed ai mortai degli aggressori poterono opporre solo il tiro ravvicinato dei famosi “sten” inglesi validi per azioni di commando ma inadeguati ad uno scontro frontale,  i vecchi moschetti recuperati dai disciolti reparti dell’esercito italiano, bombe a mano  e pochi fucili mitragliatori “Bren”.
La lotta fu impari, nonostante l’accanita resistenza ed il disperato coraggio  dei partigiani in gran parte giovani che seppero anche infliggere perdite agli attaccanti, ma alla fine il numero fatalmente prevalse ed il bilancio fu drammatico:  ben trecento i caduti in combattimento o mentre cercavano di scendere a valle filtrando attraverso la munita cintura degli assalitori.
Ma il giudizio tecnico-militare sulla conduzione della battaglia è  piuttosto critico: si addebita infatti al Comando partigiano di aver usato una strategia tradizionale valida in combattimenti frontali tra forze chiaramente contrapposte ed equilibrate, invece di affrontare il nemico, allorchè la sproporzione delle forze è evidente,  con la tattica della guerriglia.
E’ infatti dimostrato che già prima del fatale 21 settembre 1944 erano arrivati ai comandanti delle formazioni partigiane precise segnalazioni – vedansi, fra molte altre, le testimonianze di due autorevoli sacerdoti amici dei patrioti, don Giovanni Nervo e don Ugo Orso – che purtroppo non furono prese in considerazione, sulla preparazione di un massiccio attacco nazifascista.
A quel punto, tenuto conto della evidente inferiorità numerica delle  formazioni partigiane, sarebbe stato opportuno – ma la circostanza avrebbe dovuto essere stata prevista e studiata -  evitare lo scontro ed operare lo sganciamento mentre ancora l’accerchiamento del Grappa non era stato completato, e  ridiscendere in pianura.                 
Invece l’ordine emesso dal “Comando Gruppo Brigate Zona Grappa” d’accordo con il cap.Brietsche - inglese, capo delle Missione Militare alleata paracadutata pochi giorni prima sul Grappa  con il compito di meglio organizzare i partigiani ivi operanti - fu che in caso di attacco occorreva affrontare il nemico e che ove la resistenza non fosse più stata possibile, si sarebbe dovuto  ripiegare ordinatamente, con armi e bagagli,  su cima Grappa ed ivi difendersi ad oltranza,  rinnovando i fasti della 1° guerra mondiale e facendone la “Verdun” italiana.
Una scelta dettata da ricordi che avrebbero dovuto riscaldare i cuori, ma  insostenibile,   che provocò, come affermato poi da don  Orso, un “inutile macello” in montagna  e nei paesi della pianura circostante ove si verificarono innumeri episodi di vendetta dei nazifascisti con arresti, deportazioni, impiccagioni:  la più drammatica a Bassano del Grappa ove 31 patrioti furono appesi agli alberi del Viale delle Fosse.

Il “Rastrellamento del Grappa”, uno dei tanti tristi episodi della 2° Guerra Mondiale,  un’esperienza  che la pace renderà, si spera,  inutile.

                                                                                                          Giovanni Zannini                          

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