mercoledì 5 ottobre 2011

NINNINA

N I N N I N A

Il grande cortile delle esercitazioni del Centro Addestramento Reclute (C.A.R.) di Palermo era delimitato per tre lati da alte mura, mentre il quarto era costituito da vecchie casette che sul davanti avevano la strada mentre, sul retro, davano direttamente sul piazzale sul quale era dunque possibile affacciarsi.
Ed ogni tanto appariva lei, Ninnina.
La finestra inquadrava un viso dolce circondato da capelli lunghi e neri, illuminato da due occhi sereni e le braccia ed il busto, ben torniti, di fanciulla diciottenne o giù di lì.
Nessuno dei soldati che si avvicendavano al C.A.R. sapeva chi fosse e come, in realtà, si chiamasse, ma essi le avevano dato quel nome che si tramandavano di corso in corso: e nei tre mesi di addestramento ogni recluta finiva per considerare Ninnina la sua fidanzata.
Il suo affacciarsi era dunque atteso e desiderato dai giovani che sentivano, talora, anche il canto della sua voce aggraziata.
L’atteggiamento era composto, dolce, amichevole, come se essa desiderasse offrire un’immagine di donna non provocante, ma serena ed affettuosa.
Quando le esercitazioni avvenivano poco distante dalla sua finestra, le reclute, ritenendosi osservate, ce la mettevano tutta per non far cattiva figura ai suoi occhi : e se, arrivando primo nella corsa, e volgendo lo sguardo verso l’alto, trovava affacciata Ninnina, ecco il vincitore inorgoglirsi, parendogli che la fanciulla lo guardasse compiaciuta; ed eccolo, invece, deluso ove la finestra fosse in quel momento vuota.
Nei momenti di riposo, approfittando dell’assenza dei superiori o della loro distrazione, accadeva talora che qualcuno si rivolgesse a lei con un rapido complimento, con un saluto affettuoso: ma se osava frasi rozze o, peggio, volgari, ecco i commilitoni insorgere a rimproverarlo e zittirlo, preoccupati che la serenità di Ninnina ne fosse turbata.
Un mattino venni incaricato di una commissione in città e poco dopo l’uscita dalla caserma mi trovai ad incrociare una giovane donna che si trascinava penosamente appoggiandosi ad un bastone: il suo cammino, vistosamente inceppato, denunciava una poliomielite o non so quale altro grave malanno.
Vedendola di lontano, notai subito in lei qualcosa di familiare e quando mi fu vicina la riconobbi: era Ninnina.
La sorpresa quasi mi paralizzò, ma, resomi conto della situazione, passandole accanto la guardai con occhio distratto per dimostrarle di non essermi accorto di nulla mentre avevo, invece, capito tutto.
Nell’attimo in cui lei incrociò il suo sguardo con il mio, colsi un’espressione di smarrimento, come di animale sorpreso fuori dalla sua tana: la sicurezza che in quell’ora del mattino le reclute fossero tutte all’interno della caserma l’aveva indotta, imprudentemente, ad uscire di casa.
Scopersi così il suo segreto: Ninnina che forse mai era stata oggetto di attenzioni maschili aveva trovato conforto alla sua femminilità tradita in quella finestra che esibiva di lei la parte più bella e desiderabile, nascondendo nel contempo l’altra atrocemente deturpata.
E capii che era certamente una consolazione per lei lo stare al centro dell’attenzione di quei giovani che l’amavano discretamente, da lontano, e che lei ripagava con un’immagine di femminilità dolce e familiare, godendo nel contempo di quell’ammirazione che ogni donna desidera avere e che a lei era invece crudelmente negata.

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Rientrato in caserma “Ho incontrato Ninnina” dissi ai compagni.
“Com’è, tutta intera?” mi chiesero, incuriositi.
“Molto bella”, risposi.
E così il mito di Ninnina, la fanciulla bruna, la fidanzata immaginaria delle reclute del C.A.R. di Palermo, rimase intatto.

Giovanni Zannini

Pubblicato su:”La Nuova Tribuna Letteraria”

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