RACCONTO
“No,
uomo, non mi avrai, non mi avrai..., non... mi avrai..., non...mi...avrai...”.
Il
capriolo si trascinava penosamente , con il cuore che scoppiava, cadendo, rialzandosi,
sbatacchiando a destra ed a manca contro i tronchi ed i bassi rami della
boscaglia tante volte percorsa agile e scattante, pieno di quella vita che il
piombo gli andava rubando; che toglieva, lentamente, la luce dai suoi occhi;
che faceva colare a terra, dallo squarcio sul collo, il suo giovane sangue.
No,
il suo corpo non sarebbe finito su mense traboccanti di vini, fra cantori ebbri
e volgari; la sua gola non avrebbe sentito il freddo della lama che gli
toglieva quel resto di vita che gli era rimasta addosso; il suo bel capo non
avrebbe ornato la casa di chi non di fiori, di quadri o di specchi ama
abbellirla, ma dei crani delle sue prede; ed il carnefice non avrebbe
ostentato, a guisa di trofeo, il sangue della vittima schizzato sul fustagno della
sua casacca.
E
passo dopo passo, vincendo il dolore lancinante e la tentazione di arrendersi ,
di buttarsi a terra e di non pensare più a nulla in attesa del colpo di grazia,
la meta si avvicinava: ancora pochi metri e ce l’avrebbe fatta.
Giunto
sul ciglio della “Busa fonda” si fermò un attimo reggendosi, con uno sforzo supremo,
sulle quattro zampe, a respirare, avidamente, per l’ultima volta l’aria pura
dei suoi monti: poi si lasciò andare librandosi per un attimo, assaporando
l’ebbrezza del volo, prima di toccare il fondo dell’abisso.
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“Ti
fermerai, brutta bestia, non puoi farcela ancora per molto” pensava l’uomo
mentre arrancava, sbuffando, sulla montagna, seguendo le tracce di sangue del
capriolo che si facevano sempre più larghe.
Quella
volta non gli era sfuggito: dopo essere stato più volte beffato dall’animale
che pareva farsi gioco di lui, l’aveva infine sorpreso nell’attimo in cui,
forse per eccesso di sicurezza (o per sfida?) aveva lasciato il bosco
percorrendo un breve tratto di radura, allo scoperto: e ciò era bastato perché
il vecchio cacciatore andasse a segno, ma non tanto da farlo stramazzare.
Così,
l’inseguimento fra l’animale ferito e l’uomo era iniziato: e quando, fattosi
più rado il bosco la vide sul ciglio del precipizio, il cacciatore, stremato e
ansimante, non ce la fece a puntarla, per finirla, che già la bestia era
scomparsa.
“Maledizione”
pensò l’inseguitore “e mò chi lo piglia?”.
Il
burrone che tagliava in due la montagna era stato formato dal torrente che ora
scorreva sul fondo: nei secoli, la costanza dell’ acqua aveva avuto la meglio
sulla roccia, e le due pareti si elevavano ora, alte e ripide, per un centinaio
di metri.
L’uomo
si affacciò sul baratro e vide, là
sotto, l’animale privo di vita.
“Bella
bestia” pensò, “venti chili di carne tenera, peccato perderla”.
Così,
decise che avrebbe percorso il ripido sentiero scavato nella parete e, arrivato
in fondo, caricata la preda sulle spalle, avrebbe seguito il corso del torrente
fino alla strada e poco dopo sarebbe arrivato a casa.
Iniziò
la discesa ma, giunto nel punto ove il sentiero era più ripido uno spuntone di
roccia al quale si era aggrappato cedette, e fu un gran volo.
Ebbe
la sensazione che non fosse lui ad avvicinarsi velocemente a terra, ma che fosse questa ad elevarsi,
repentinamente, fino a lui: e giacque, con il cranio spaccato, a pochi metri
dal capriolo.
Non
morì subito: ebbe il tempo di guardarlo e di pensare che, alla fine, a farci
una bella figura era proprio quella bestia nobile e fiera anche nella morte, il
cui sangue, colato dalla ferita, lo rendeva simile ad un eroe caduto in
battaglia.
Lui,
invece, si trovava lì con mezzo cervello fuori, le gambe disarticolate
scompostamente e le braccia distese come
un Cristo in croce.
Pensò
che quello aveva fatto una bella morte mentre di lui si sarebbe ricordato che
era stato tratto in inganno da una pietra traditrice: e qualcuno, chissà,
avrebbe pure detto che ci poteva stare più attento.
E
tirando l’ultimo respiro, si rese conto di invidiarla, quella Bestia morta per
salvare la sua dignità, mentre lui ci aveva lasciato ingloriosamente la pelle
per venti chili di carne tenera. Giovanni Zannini
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