Nei giorni 21/27 settembre 1944 si verificava nel
Veneto una sanguinosa battaglia passata alla storia con il nome di “Rastrellamento
del Monte Grappa”, un episodio di guerra definita asimmetrica, di quelle cioè
in cui non vi sono due fronti contrapposti
chiaramente definiti sul terreno, sibbene uno tradizionale di tale tipo,
ed uno anomalo, invisibile, diffuso nel territorio in maniera discontinua:
la cosiddetta guerra partigiana o per bande, come fu la guerra di liberazione
condotta da Tito in Jugoslavia contro
gli invasori nazifascisti o, per venire ai giorni nostri, quella in
Afganistan.
10.000 uomini
appartenenti a diverse formazioni militari nazifasciste - alla
X divisione tedesca, alle SS comandate dal col.Willy Niedermaier, alla
gendarmeria tedesca, alle Brigate Nere, alla
“Guardia Nazionale Repubblicana” – si
erano schierate in pianura, nei giorni precedenti l’attacco, tutto attorno al
massiccio del Monte Grappa, isolandolo.
Assieme ad essi reparti di cosacchi specializzati
in azioni di antiguerriglia che, ancora sentimentalmente legati al defunto Zar
e quindi ferocemente nemici dei comunisti che lo avevano ucciso, avevano seguito i tedeschi nella ritirata di Russia fidando
nella loro promessa di offrir loro una nuova patria, la “Kosakenland”, in Italia,
nella Carnia.
Fra gli assalitori un nome noto, quello di Giorgio Albertazzi, l’attore oggi novantenne,
all’epoca giovane sottotenente comandante il 2° plotone fucilieri della III
compagnia del 63° battaglione “M” della Guardia Nazionale Repubblicana che
partecipò al tragico rastrellamento: uno
di quei giovani che in un momento terribile della storia italiana ebbero
l’impulso di agire per quello che essi ritennero essere allora il bene della patria ponendosi però al servizio di una parte che la
storia ha dimostrato essere quella sbagliata.
Si erano così trovati in una morsa quel migliaio di
uomini che presidiavano la montagna appartenenti a formazioni partigiane di
diverso colore politico non sempre ben collegate fra di loro – le 3 brigate
“Italia libera di Campocroce”, “Italia
libera dell’Archeson”, “Matteotti”, ed i
battaglioni “Garibaldi” - comprendenti militari del regio esercito sbandati dopo l’armistizio dell’8 settembre,
renitenti alla leva militare indetta dal governo repubblichino e prigionieri di guerra alleati che, trovati
improvvisamente aperti i cancelli dei loro campi di concentramento dopo lo
sfascio dell’esercito italiano, si erano rifugiati sul monte Grappa.
Ed il 21 settembre gli assedianti mossero
all’attacco: da una parte reparti militari ben organizzati ed armati di tutto
punto, dall’altra combattenti volontari coraggiosi ma male armati ed
addestrati, che alle autoblindo, ai
cannoni, alle mitragliatrici, alle mitragliere ed ai mortai degli aggressori
poterono opporre solo il tiro ravvicinato dei famosi “sten” inglesi validi per
azioni di commando ma inadeguati ad uno scontro frontale, i vecchi moschetti recuperati dai disciolti
reparti dell’esercito italiano, bombe a mano e pochi fucili mitragliatori “Bren”.
La lotta fu impari, nonostante l’accanita
resistenza ed il disperato coraggio dei
partigiani in gran parte giovani che seppero anche infliggere perdite agli
attaccanti, ma alla fine il numero fatalmente prevalse ed il bilancio fu
drammatico: ben trecento i caduti in
combattimento o mentre cercavano di scendere a valle filtrando attraverso la
munita cintura degli assalitori.
Ma il giudizio tecnico-militare sulla conduzione
della battaglia è piuttosto critico: si
addebita infatti al Comando partigiano di aver usato una strategia tradizionale
valida in combattimenti frontali tra forze chiaramente contrapposte ed
equilibrate, invece di affrontare il nemico, allorchè la sproporzione delle
forze è evidente, con la tattica della
guerriglia.
E’ infatti dimostrato che già prima del fatale 21
settembre 1944 erano arrivati ai comandanti delle formazioni partigiane precise
segnalazioni – vedansi, fra molte altre, le testimonianze di due autorevoli
sacerdoti amici dei patrioti, don Giovanni Nervo e don Ugo Orso – che purtroppo
non furono prese in considerazione, sulla preparazione di un massiccio attacco
nazifascista.
A quel punto, tenuto conto della evidente
inferiorità numerica delle formazioni
partigiane, sarebbe stato opportuno – ma la circostanza avrebbe dovuto essere
stata prevista e studiata - evitare lo
scontro ed operare lo sganciamento mentre ancora l’accerchiamento del Grappa
non era stato completato, e ridiscendere in pianura.
Invece l’ordine emesso dal “Comando Gruppo Brigate
Zona Grappa” d’accordo con il cap.Brietsche - inglese, capo delle Missione
Militare alleata paracadutata pochi giorni prima sul Grappa con il compito di meglio organizzare i
partigiani ivi operanti - fu che in caso di attacco occorreva affrontare il
nemico e che ove la resistenza non fosse più stata possibile, si sarebbe dovuto
ripiegare ordinatamente, con armi e
bagagli, su cima Grappa ed ivi
difendersi ad oltranza, rinnovando i
fasti della 1° guerra mondiale e facendone la “Verdun” italiana.
Una scelta dettata da ricordi che avrebbero dovuto
riscaldare i cuori, ma insostenibile, che provocò, come affermato poi da don Orso, un “inutile macello” in montagna e nei paesi della pianura circostante ove si
verificarono innumeri episodi di vendetta dei nazifascisti con arresti,
deportazioni, impiccagioni: la più drammatica
a Bassano del Grappa ove 31 patrioti furono appesi agli alberi del Viale delle
Fosse.
Il “Rastrellamento del Grappa”, uno dei tanti
tristi episodi della 2° Guerra Mondiale,
un’esperienza che la pace renderà,
si spera, inutile.
Giovanni
Zannini
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