L’organico, tratto dal volume di Rosario Abate “Storia dell’Aeronautica Italiana” (Casa Editrice Bietti - Milano 1974) era il seguente:
- 2 stormi da bombardamento con 75 bimotori Fiat B.R.20;
- 1 stormo da caccia su due gruppi con 50 biplani Fiat C.R.42 e 48 monoplani Fiat G.50;
- 1 squadriglia da ricognizione strategica con 5 trimotori Cant Z-1007 bis.
Gli aerei, riconoscibili da una striscia gialla sulla carlinga, furono schierati sugli aeroporti di Espinette, Chièvres, Melsbroek, Maldegern ed Ursell, tutti in territorio belga, e d’intesa con i tedeschi fu loro assegnata una zona d’operazioni così delimitata: a Nord dal 53° parallelo N; a Ovest dal 1° meridiano W Gr; a Sud dal fiume Tamigi.
Il gruppo operò dal 22 ottobre al 23 dicembre 1940 ed il rientro si concluse nel gennaio 1941. Solo il gruppo da caccia dei Fiat G.50 si trattenne in Belgio con compiti di difesa dalle incursioni aeree britanniche sui territori belgi ed olandesi fino alla metà di aprile 1941.
A parte l’abnegazione degli aviatori italiani ed il loro valore spesso, come si vedrà, eroico, l’apporto del C.A.I. alla “Battaglia d’Inghilterra” fu piuttosto modesto sul piano militare e Rosario Abate, nel volume più sopra citato, scrive di “inconsistenza dei risultati ottenuti” e definisce quella del C.A.I. una “operazione dimostrativa di nessuna utilità pratica”.
Molte le cause di questa “inconsistenza”. Anzitutto, le condizioni ambientali avverse caratterizzate dall’estrema variabilità delle condizioni metereologiche specie nella stagione invernale alla quale gli italiani, normalmente operanti in clima mediterraneo, non erano – e non sono – avvezzi.
E proprio le avversità atmosferiche spesso proibitive furono la causa di molti incidenti verificatisi fin dal viaggio di trasferimento dall’Italia al Belgio, cosicchè su 34 vittime della spedizione 20 furono dovute ad incidenti e 14 a combattimenti, mentre gli aerei perduti per incidenti di volo furono 26 e 10 quelli in combattimento.
Altra causa, la netta inferiorità, rispetto agli avversari, per le condizioni in cui i piloti italiani erano costretti ad operare e per la qualità degli aerei in dotazione. Il sergente Luigi Gorrini, pilota da caccia, medaglia d’oro, 24 apparecchi abbattuti, in un suo racconto autobiografico ricorda:”…i caccia Fiat G.50 non parteciparono ad alcuna azione perché non avevano autonomia e passata la Manica dovevano tornare subito indietro…Eravamo in braghe di tela e non avevamo riscaldamento sugli aerei che peraltro erano aperti…Alle 11 di mattina i poveri specialisti si attaccavano alle eliche degli aerei che non riuscivano a far girare perché l’olio era diventato duro…Le piste erano fangose ed i piloti mancavano d’addestramento… Ossigeno che si bloccava, senza radio… Non avevamo neppure le carte…”. E conclude, melanconicamente:”…Francamente, avevamo solo gli occhi per piangere, abbiamo fatto la guerra in queste condizioni…”.
Talmente penose che gli alleati tedeschi si sentirono in dovere di fornire al C.A.I. le stufe catalitiche per scaldare i motori, le combinazioni di volo, i guanti ed i caschi nuovi (perché i nostri avevano ancora il caschetto di tela), le strumentazioni per il volo senza visibilità, i dispositivi di protezione contro la formazione del ghiaccio, ed a “corazzare” in qualche modo i nostri fragili velivoli.
Ma i nostri piloti diedero sempre prova di grande coraggio e di spirito di sacrificio: valga, per tutti, la drammatica descrizione dell’incursione dell’11 novembre 1940 emergente dalla relazione dattiloscritta del defunto col.Alessandro Citterio di Milano, allora giovane tenente venticinquenne, gelosamente custodita dal figlio avv.Paolo.
Ad ore 12, il decollo. Partono, agli ordini del t.col. G.Battista Ciccu, due squadriglie di B.R.20: la 242a del cap.Nicola Volpe con 5 aerei, e la 243a del cap.Agostino Rabino anch’essa con 5 aerei. Alla 243° appartiene il B.R.20 MM 21879 del ten.Citterio con equipaggio: 2° pilota s.ten.Angelo Cattaneo, motorista 1° aviere Enrico Giannesini, armiere 1° aviere Umberto Cucino, marconista 1° aviere Giuseppe Gaspardi. Obbiettivo la città di Harwich con i suoi impianti industriali ed il porto.
La partenza di sorpresa a mezzogiorno conta sul fatto che i caccia inglesi, provati da precedenti interventi, non si sarebbero alzati: ma la previsione è errata perché, appena giunti in territorio inglese, gli “Spitfire” non tardano ad apparire ed a mitragliare con tiro micidiale gli aerei italiani privi di qualsiasi corazzatura. Anche se, per la verità, una corazzatura c’era. Scrive infatti Citterio:”…Ad annullare lo svantaggio della mancanza di corazzatura, abbiamo in capo un bell’elmo d’ acciaio che è quello in dotazione alla fanteria. Dobbiamo proprio essere ridicoli con quest’arnese di guerrieri di terra a sostenere una battaglia in quota!...”.
Gli “Spitfire” e la contraerea non perdonano: tutti gli aerei della 243° sono colpiti, e due abbattuti. Pure quello di Citterio incassa colpi: una raffica colpisce il 2° pilota che si accascia, e lui è costretto, pilotando con una mano, a liberare con l’altra i comandi dal corpo del ferito. Poi è la volta del marconista e del motorista ad essere colpiti, mentre l’armiere, ferito ad una mano e non in grado di maneggiare l’arma, si trasforma in puntatore ed urla le correzioni di rotta.
Neppure Citterio scampa alla mitraglia, è ferito alla coscia destra ma non è grave e continua, in quell’inferno, a pilotare. La macchina è di nuovo ferita: i proiettili raggiungono il cruscotto, i motori hanno forti vibrazioni, la pressione di alimentazione diminuisce ed il pilota dubita che l’apparecchio ce la faccia a mantenersi in volo. A questo punto, proseguire o invertire la rotta? La decisione è presa: avanti! La caccia inglese, esaurita l’autonomia di volo, fortunatamente scompare ed il B.R. 20, raggiunto l’obbiettivo, molla il suo carico di bombe, alleggerendosi. Il puntatore comunica di aver colpito le navi, ma non è il momento di rallegrarsene, perché Citterio deve ora riportare alla base il suo apparecchio carico di uomini insanguinati e dei loro lamenti, senza sapere se i motori riusciranno a percorrere i 200 chilometri che da essa li dividono. Allora, la tentazione di un attimo: l’atterraggio di fortuna sul suolo nemico, e la resa.
“Ma” scrive Citterio “mi riprendo subito. Preferisco affrontare ogni difficoltà pur di non cadere in mano nemica” e giunge, con il cuore che pulsa disperatamente, sul continente ove occorre atterrare ad ogni costo perché il carburante è agli sgoccioli. Le nubi ostacolano la visibilità del pilota che, pur privo di altimetro, le buca per esplorare, disperatamente, il territorio sottostante. Si prepara al rischio dell’atterraggio fuori campo allorchè gli pare di vedere la pista di un areoporto, l’armiere spara un razzo ed ecco che “compare a terra la freccia di segnalazione per la direzione del vento e delle fumate si accendono rapide…”. L’aereo pur esausto, risponde fiducioso agli ordini del suo comandante che, stremato, lo conduce a toccar terra, “ed i motori si arrestano di colpo. Mi sembra che il mito della Madonna di Loreto divenga realtà”. E’ accolto da un ufficiale tedesco:” Con l’elmo in testa – scrive Citterio -, maglione e guanti lordi di sangue e la combinazione stracciata, devo avere un aspetto ben grottesco”. Pur intontito, si preoccupa dei feriti e così conclude, senza enfasi (il virgolettato è di chi scrive, per evidenziarlo) il suo drammatico racconto: ”Il volo è durato più di tre ore e mezzo e la prova è stata “abbastanza” dura. La ferita mi brucia e penso di non sentirmi “troppo” bene. Riesco a raccogliere , in un estremo sforzo, codici e cifrari, poi cado a terra sfinito”.
L’equipaggio è decorato con la croce di ferro dai tedeschi ammirati che gli italiani abbiano il coraggio di compiere simili imprese di giorno e con i B.R.20 ben diversi dai loro possenti “Messerschmit”. Da parte sua l’Italia decora l’equipaggio con tre medaglie d’argento ed una di bronzo. All’aereo, malconcio, cambieranno tutti e due i motori e gli impennaggi di coda.
Giovanni Zannini
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