Fra le azioni condotte dagli uomini del C.A.I.
(Corpo Aereo Italiano), la spedizione in Belgio di un gruppo di aerei italiani
per partecipare ai bombardamenti contro gli inglesi durante la “Battaglia
d‘Inghilterra” del 1940, vanno ricordati la prima incursione notturna del 24
ottobre 1940 sul porto di Harwick, il bombardamento diurno del 29 ottobre su quello di Ramsgate,
quello notturno del 5 novembre ancora su Ipswich ed Harwick,
ed infine quello diurno dell’11 novembre
sempre su Harwick, tutti contrastati dalla violenta reazione contraerea e dalla
caccia avversaria.
Il “Corriere
della Sera” del 14 novembre 1940 così riassume, in una drammatica cronaca,
il bombardamento diurno dell’11 novembre
sul porto di Harwich: “cinque partiti, cinque tornati, cinque feriti”.
Ma ancor più drammatico è il ricordo di uno dei partecipanti a questa impresa,
l’allora tenente venticinquenne Alessandro Citterio che emerge da una sua relazione dattiloscritta, custodita (e posta
cortesemente a disposizione di chi scrive, già collega di lavoro del
padre) dal figlio avv. Paolo Citterio di
Milano.
All’incursione dell’11 novembre 1940 parteciparono
due squadriglie del C.A.I: la 242a con 5 aerei, agli ordini del cap. Nicola
Volpe e la 243°, pure con 5 aerei, agli
ordini del cap.Agostino Rabino. Comandante del gruppo il t.col.G.Battista
Ciccu.
Alla 243a apparteneva il bimotore Fiat B.R.20 MM
21879 comandato dal ten. Alessandro Citterio con l’equipaggio: 2° pilota
s.tenente Angelo Cattaneo; motorista 1° aviere Enrico Giannesini; armiere 1°
aviere Umberto Cucino; marconista 1° aviere Giuseppe Gaspardi.
Partenza a mezzogiorno dall’areoporto di Chièvres,
obbiettivo la città di Harwich con i suoi impianti portuali e navi alla fonda.
Durante il volo di avvicinamento tutti i 5 aerei
della 243° squadriglia sono colpiti dai caccia e dalla contraerea inglesi, e due abbattuti.
La partenza di sorpresa alle ore 12 contava sul
fatto che i caccia inglesi, provati da precedenti interventi, non si sarebbero
alzati: previsione errata perché, giunti in territorio inglese,
gli “Spitfire” non tardano a comparire ed a mitragliare con tiro micidiale gli aerei italiani privi di qualsiasi
corazzatura. Gli schienali dei
seggiolini è in lamierino ed a missione compiuta si constata che numerosi colpi
li hanno perforati e che solo la placca d’acciaio del paracadute ed il suo stesso involucro avevano evitato
che i polmoni dei piloti fossero trapassati.
Ma una corazzatura, in realtà, c’era. Scrive
infatti Citterio: ”…Ad annullare lo svantaggio della mancanza della
corazzatura, abbiamo in capo un bell’elmo d’acciaio, che è quello in dotazione
alla fanteria. Dobbiamo proprio essere ridicoli con quest’arnese di guerrieri
di terra, a sostenere una battaglia in quota!...”.
Intanto, gli avversari non scherzano: l’estremo
sinistro della formazione, colpito, precipita, e qualche secondo dopo è il
turno del gregario più vicino.
Gli “Spitfire” non danno tregua, ed anche
l’apparecchio di Citterio incassa colpi: una raffica colpisce il 2° pilota che
si accascia e lui è costretto, pilotando con una mano, a liberare con l’altra i
comandi dal corpo del ferito. Poi è la volta del marconista che dopo aver
abbandonato il trasmettitore aveva imbracciato la mitragliatrice nella torretta
posteriore, ad essere ferito gravemente,
così come il motorista: l’armiere che, colpito ad una mano, non può usare la sua arma, si
trasforma in puntatore e urla le
correzioni alla rotta. Pure Citterio non scampa alla mitraglia, è colpito alla
coscia destra ma non è grave e continua, in quell’inferno, a pilotare. Altri colpi raggiungono il
cruscotto danneggiando la strumentazione; i motori hanno forti vibrazioni, la
pressione di alimentazione diminuisce ed
il pilota dubita che l’apparecchio ce la faccia a tenersi in volo. A
questo punto, proseguire o invertire la
rotta? La decisione è presa: si va
avanti. La caccia inglese, esaurita l’autonomia di volo, fortunatamente
scompare ed il velivolo, raggiunto l’obbiettivo, molla il suo carico di bombe. Il puntatore
comunica che le navi in porto sono state colpite, ma non è il momento di
rallegrarsene.
Il pilota, ferito, deve riportare alla base
l’apparecchio carico di uomini insanguinati e dei loro lamenti, con i motori
esausti che non si sa se riusciranno a
percorrere i 200 chilometri che da essa li dividono. Allora, la tentazione di
un attimo: atterrare sul suolo nemico, e la resa. Ma, scrive Citterio, “mi
riprendo subito. Preferisco affrontare ogni difficoltà pur di non cadere in mano nemica” e giunge
finalmente, col fiato sospeso, sul continente, ma occorre ad ogni costo
atterrare perché il carburante è agli sgoccioli. Le nubi ostacolano la
visibilità del pilota che, pur privo di altimetro, le buca per esplorare,
disperatamente, da cinquecento metri di quota, il territorio sottostante. Si
prepara al rischio dell’atterraggio fuori campo allorchè gli pare di vedere la
pista di un aeroporto, ma non è sicuro. Ordina all’armiere di sparare un razzo ed ecco che “compare a terra la freccia di
segnalazione per la direzione del vento, e delle fumate si accendono rapide…”.
L’aereo, pur esausto, risponde, fiducioso,
agli ordini del suo comandante che, stremato, lo conduce con mano ferma
a toccar terra: ed “i motori si arrestano di colpo”. “Mi sembra che il mito
della Madonna di Loreto divenga realtà” scrive Citterio che sceso a terra viene
accolto da un ufficiale della Lutvaffe. “Con l’elmo in testa, maglione e guanti
lordi di sangue e la combinazione stracciata, devo avere un aspetto ben
grottesco”. Pur intontito, si preoccupa anzitutto delle gravi condizioni del 2°
pilota e del marconista che a cura dei tedeschi, solleciti e ben organizzati,
sono trasportati all’ospedale di Bruxelles.
Commenta Citterio, senza enfasi (il virgolettato è
di chi scrive, per evidenziarlo):”… Il volo è durato più di 3 ore e mezzo, e la prova è stata
“abbastanza” dura. La ferita mi brucia e
penso di non sentirmi “troppo” bene. Riesco a raccogliere, in un estremo
sforzo, codici e cifrari, e poi cado a terra sfinito…”
L’equipaggio è decorato con la croce di ferro dai
tedeschi ammirati che gli italiani abbiano il coraggio di compiere simili
imprese, di giorno, e con i B.R.20, ben diversi dai loro possenti Messerschmit.
Da parte sua l’Italia decora l’equipaggio con tre medaglie d’argento e 1 di bronzo. All’aereo, malconcio, cambieranno
tutti e due i motori e gli impennaggi di coda.
Giovanni
Zannini
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