mercoledì 17 aprile 2013

PRETI GARIBALDINI


L’atmosfera rivoluzionaria del risorgimento oltre ad infiammare gli animi di molti laici italiani era penetrata anche nei chiostri, nei conventi, nei monasteri, nei seminari.
Nel 1847, da Montevideo, Garibaldi aveva offerto al Papa Pio IX,  autore di promettenti riforme liberali la propria spada ma la successiva rinuncia del Papa alla sua politica riformatrice provocò una brusca virata di Garibaldi che divenne il suo più fiero avversario, identificando in lui il principale ostacolo alla completa riunificazione dell’Italia con Roma capitale.
Purtroppo, questo atteggiamento di ostilità verso il Papa Capo dello Stato Pontificio, che aveva mancato alla fiducia dei patrioti italiani, produsse un grave equivoco trascinandoli ad avversare il Papa anche come Capo della Chiesa cosicché il Risorgimento fu connotato dall’ ostilità, favorita dalla Massoneria cui erano affiliati importanti personaggi risorgimentali,  verso la Chiesa cattolica.    
Ciò raffreddò gli entusiasmi iniziali di molto clero per Garibaldi e pose in difficoltà quei religiosi che lo avevano seguito.
Fra quelli che caddero nell’equivoco e rinnegarono la propria fede si ricorda Giovanni Pantaleo nato a Castelvetrano nel 1832. Divenuto giovanissimo frate con i Riformati di S.Francesco, stava predicando nel 1860  nel convento degli Angeli di Palermo   allorchè lo raggiunse la notizia dello sbarco di Garibaldi a Marsala. Abbandonato senza indugio il convento, si presentò al Generale divenendo il cappellano dei Mille; ma poi, contagiato dall’aria anticlericale che tirava nell’ambiente, gettò la tonaca nel 1863. Fu uno dei fedelissimi di Garibaldi che seguì ad Aspromonte, nel Trentino, a Mentana e nella spedizione in Francia del 1870 combattendo contro i tedeschi a Digione.
Passato decisamente dalla parte opposta delle sue origini, prese parte all’anticoncilio adunato a Napoli nel 1869, si sposò nel 1872 e morì a Roma nel 1879 non riconciliato con la Chiesa.
Ma vi furono  anche religiosi che, attratti inizialmente dall’ideale patriottico di Garibaldi ed avendo partecipato alle sue imprese, se ne allontanarono poi - mantenendo così salda, differentemente dal Pantaleo, la propria fede -  allorché si accorsero della sua avversione, complice la Massoneria, contro il proprio padre spirituale, il Papa.
E’ questo il caso di  Giuseppe Fagnano nato a Rocchetta Tanaro (Asti) il 9 marzo 1844, un chierico che, folgorato dalla figura   di Garibaldi non esitò ad arruolarsi, a 16 anni, fra i volontari garibaldini.
Il Generale, che aveva  osservato il giovane  con occhio esperto, aveva apprezzato il suo entusiasmo oltre alla sua robusta costituzione fisica, superiore alla sua età e, tenuto conto dello spirito  umanitario che lo animava, lo destinò alla Croce Rossa avendo occasione di ammirare più volte il coraggio del “fraticello” che tra il sibilare delle pallottole ed il rombo dei cannoni si lanciava senza paura a curare i feriti sul campo di battaglia.
Una volta, mentre questa infuriava, non avendo a portata di mano la bianca bandiera della Croce Rossa, si tolse la camicia e sventolandola riuscì ad ottenere un po’ di tregua potendo così  raggiungere ed assistere i suoi sfortunati compagni.
Ma egli sapeva reagire con altrettanta fermezza contro quei compagni d’arme - e qualche volta anche contro qualche superiore – che disprezzavano la sua fede o irridevano alle sue pratiche religiose.
E Garibaldi, che aveva avvertito il suo disagio, dimostrando anche in questo caso il suo gran cuore, gli disse:” Ascolta, “fraticello”, tu sei davvero valoroso, ti sono molto grato per tutto ciò che hai fatto, ma data la tua intransigenza ti consiglio di passare nell’esercito dove c’è una disciplina più rigida e dove potrai essere utile alla patria quanto qui”.
Il giovane seguì il suo consiglio e si arruolò nell’esercito: ma anche lì trovò un ambiente contrario alle sue convinzioni religiose. E quando alcuni  liberali gli proposero di iscriversi alla massoneria per progredire nella carriera militare, indignato rispose  che vero liberale è chi conta sulle proprie forze, non chi lusinga l’uno o l’altro potente per farsi largo: e se ne andò sbattendo la porta,  riprese gli studi e divenne sacerdote.
L’esperienza fatta con i garibaldini fu una scuola preziosa per il servizio che egli renderà nella congregazione dei salesiani agli “ordini” del suo nuovo generale, San Giovanni Bosco che lo mandò missionario con dieci altri uomini coraggiosi in Sud America, in Cile ed in Argentina  dove Fagnano lavorò con tutte le sue forze.
Divenuto Prefetto per la Patagonia meridionale e la Terra del Fuoco in immaginabili condizioni di grande disagio si prodigò a favore delle primitive popolazioni indie locali (pampas, patagoni, onas, yaganes, alacaluffi, tehuelches, araucani ecc.), i cui diritti strenuamente difese giungendo a porsi dinanzi ai fucili  di militari spietati per evitare la strage dei suoi protetti.  
Non solo, ma spese energie anche a favore degli italiani emigrati in quelle lontane terre, fondando, fra l’altro, nel 1880 a Carmen de Patagones quella “Società Italiana di Mutuo Soccorso” che è tuttora fiorente, e perfino un osservatorio meteorologico.
Morto a Santiago del Cile il 18 settembre 1916, Monsegnor Giuseppe Fagnano riposa nella chiesa di Punta Arenas circondato dalla venerazione di uomini che egli amò come figli.
Del tutto particolare il caso del sacerdote don Angelo Arboit nato a Rocca d’Arsiè il 15 marzo 1826.
Nel 1848 è chierico in seminario ove studia teologia avendo come compagno di studi Giuseppe Sarto, il futuro papa Pio X.
Spinto da sacro fuoco patriottico, si arruola volontario con Garibaldi nei Cacciatori delle Alpi; ferito in combattimento, torna  al suo paese, si laurea in lettere a Padova e rientrato in seminario, è ordinato sacerdote nel 1857 dedicandosi all’insegnamento prima a Mantova e poi a Udine.
Ma il desiderio di partecipare attivamente alla lotta per l’unità d’Italia è così forte da spingerlo ad una nuova avventura: questa volta raggiunge a Caserta Garibaldi che arriva dalla Sicilia, si arruola e diventa cappellano militare dei Mille ai quali presta la sua assistenza morale.
Questa sua “ricaduta” spinge però l’autorità ecclesiastica a sospenderlo “a divinis” non già per comportamenti immorali, non avendo egli mai rinunciato ai principi della buona educazione ricevuta, ma per motivi ideologici, la sua ammirazione per  Garibaldi considerato dalla Chiesa, all’epoca, una specie di demonio.
Nel 1893, mentre è preside del liceo classico di Mantova ove è vescovo Giuseppe Sarto, cade gravemente ammalato e si teme per la sua vita. Al suo capezzale accorre il suo ex compagno di studi che lo tranquillizza assicurandolo che sul suo passato “ribellismo” è già stato steso un velo. Il malato si rasserena, ma insiste nel condannare il potere temporale del Papa
Mons. Alfredo Contran  di Padova, poeta e scrittore di vaglia – autore di una raccolta di profili di sacerdoti della diocesi di Padova intitolata “L’archibugio del cappellano” - scrive che secondo una versione che sa un po’ di leggenda, il colloquio fra i due si  sarebbe svolto pressapoco così:” “Dai” dice il vescovo “vediamo di combinare. Ti suggerisco io la formula di sottomissione”. Ma l’altro lo previene affermando:”Riconosco i miei errori ma è bene che sia cessato lo stato pontificio”. Il Sarto scuote la testa:”No, non così” e allora l’Arboit, di rimando: ”Riconosco di aver sbagliato, ma è giusta l’unità d’Italia”. Cade un silenzio d’attesa, fino a che l’ammalato riprende l’iniziativa:”Riconosco di aver sbagliato…e credo che Dio nella sua infinita sapienza abbia permesso l’unità d’Italia”. Adesso i due amici sorridono e si abbracciano”.
Don Angelo Arboit, cessato l’ insegnamento, tornò al  paese natio ove morì, con la coscienza tranquilla, nel 1896, portando nella tomba, intatti, l’amore per Cristo e quello per Giuseppe Garibaldi.
                                         Giovanni Zannini



  
   

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