L’atmosfera
rivoluzionaria del risorgimento oltre ad infiammare gli animi di molti laici
italiani era penetrata anche nei chiostri, nei conventi, nei monasteri, nei
seminari.
Nel
1847, da Montevideo, Garibaldi aveva offerto al Papa Pio IX, autore di promettenti riforme liberali la
propria spada ma la successiva rinuncia del Papa alla sua politica riformatrice
provocò una brusca virata di Garibaldi che divenne il suo più fiero avversario,
identificando in lui il principale ostacolo alla completa riunificazione
dell’Italia con Roma capitale.
Purtroppo,
questo atteggiamento di ostilità verso il Papa Capo dello Stato Pontificio, che
aveva mancato alla fiducia dei patrioti italiani, produsse un grave equivoco
trascinandoli ad avversare il Papa anche come Capo della Chiesa cosicché il
Risorgimento fu connotato dall’ ostilità, favorita dalla Massoneria cui erano
affiliati importanti personaggi risorgimentali, verso la Chiesa cattolica.
Ciò
raffreddò gli entusiasmi iniziali di molto clero per Garibaldi e pose in
difficoltà quei religiosi che lo avevano seguito.
Fra
quelli che caddero nell’equivoco e rinnegarono la propria fede si ricorda
Giovanni Pantaleo nato a Castelvetrano nel 1832. Divenuto giovanissimo frate
con i Riformati di S.Francesco, stava predicando nel 1860 nel convento degli Angeli di Palermo allorchè
lo raggiunse la notizia dello sbarco di Garibaldi a Marsala. Abbandonato senza
indugio il convento, si presentò al Generale divenendo il cappellano dei Mille;
ma poi, contagiato dall’aria anticlericale che tirava nell’ambiente, gettò la
tonaca nel 1863. Fu uno dei fedelissimi di Garibaldi che seguì ad Aspromonte,
nel Trentino, a Mentana e nella spedizione in Francia del 1870 combattendo
contro i tedeschi a Digione.
Passato
decisamente dalla parte opposta delle sue origini, prese parte all’anticoncilio
adunato a Napoli nel 1869, si sposò nel 1872 e morì a Roma nel 1879 non
riconciliato con la Chiesa.
Ma
vi furono anche religiosi che, attratti inizialmente
dall’ideale patriottico di Garibaldi ed avendo partecipato alle sue imprese, se
ne allontanarono poi - mantenendo così salda, differentemente dal Pantaleo, la
propria fede - allorché si accorsero della
sua avversione, complice la Massoneria, contro il proprio padre spirituale, il
Papa.
E’
questo il caso di Giuseppe Fagnano nato
a Rocchetta Tanaro (Asti) il 9 marzo 1844, un chierico che, folgorato dalla
figura di Garibaldi non esitò ad
arruolarsi, a 16 anni, fra i volontari garibaldini.
Il
Generale, che aveva osservato il giovane con occhio esperto, aveva apprezzato il suo entusiasmo
oltre alla sua robusta costituzione fisica, superiore alla sua età e, tenuto
conto dello spirito umanitario che lo
animava, lo destinò alla Croce Rossa avendo occasione di ammirare più volte il
coraggio del “fraticello” che tra il sibilare delle pallottole ed il rombo dei
cannoni si lanciava senza paura a curare i feriti sul campo di battaglia.
Una
volta, mentre questa infuriava, non avendo a portata di mano la bianca bandiera
della Croce Rossa, si tolse la camicia e sventolandola riuscì ad ottenere un
po’ di tregua potendo così raggiungere ed
assistere i suoi sfortunati compagni.
Ma
egli sapeva reagire con altrettanta fermezza contro quei compagni d’arme - e
qualche volta anche contro qualche superiore – che disprezzavano la sua fede o
irridevano alle sue pratiche religiose.
E
Garibaldi, che aveva avvertito il suo disagio, dimostrando anche in questo caso
il suo gran cuore, gli disse:” Ascolta, “fraticello”, tu sei davvero valoroso,
ti sono molto grato per tutto ciò che hai fatto, ma data la tua intransigenza
ti consiglio di passare nell’esercito dove c’è una disciplina più rigida e dove
potrai essere utile alla patria quanto qui”.
Il
giovane seguì il suo consiglio e si arruolò nell’esercito: ma anche lì trovò un
ambiente contrario alle sue convinzioni religiose. E quando alcuni liberali gli proposero di iscriversi alla
massoneria per progredire nella carriera militare, indignato rispose che vero liberale è chi conta sulle proprie
forze, non chi lusinga l’uno o l’altro potente per farsi largo: e se ne andò
sbattendo la porta, riprese gli studi e
divenne sacerdote.
L’esperienza
fatta con i garibaldini fu una scuola preziosa per il servizio che egli renderà
nella congregazione dei salesiani agli “ordini” del suo nuovo generale, San
Giovanni Bosco che lo mandò missionario con dieci altri uomini coraggiosi in
Sud America, in Cile ed in Argentina dove
Fagnano lavorò con tutte le sue forze.
Divenuto
Prefetto per la Patagonia meridionale e la Terra del Fuoco in immaginabili
condizioni di grande disagio si prodigò a favore delle primitive popolazioni indie
locali (pampas, patagoni, onas, yaganes, alacaluffi, tehuelches, araucani ecc.),
i cui diritti strenuamente difese giungendo a porsi dinanzi ai fucili di militari spietati per evitare la strage dei
suoi protetti.
Non
solo, ma spese energie anche a favore degli italiani emigrati in quelle lontane
terre, fondando, fra l’altro, nel 1880 a Carmen de Patagones quella “Società
Italiana di Mutuo Soccorso” che è tuttora fiorente, e perfino un osservatorio
meteorologico.
Morto
a Santiago del Cile il 18 settembre 1916, Monsegnor Giuseppe Fagnano riposa
nella chiesa di Punta Arenas circondato dalla venerazione di uomini che egli
amò come figli.
Del
tutto particolare il caso del sacerdote don Angelo Arboit nato a Rocca d’Arsiè il
15 marzo 1826.
Nel
1848 è chierico in seminario ove studia teologia avendo come compagno di studi
Giuseppe Sarto, il futuro papa Pio X.
Spinto
da sacro fuoco patriottico, si arruola volontario con Garibaldi nei Cacciatori
delle Alpi; ferito in combattimento, torna al suo paese, si laurea in lettere a Padova e
rientrato in seminario, è ordinato sacerdote nel 1857 dedicandosi all’insegnamento
prima a Mantova e poi a Udine.
Ma
il desiderio di partecipare attivamente alla lotta per l’unità d’Italia è così
forte da spingerlo ad una nuova avventura: questa volta raggiunge a Caserta
Garibaldi che arriva dalla Sicilia, si arruola e diventa cappellano militare
dei Mille ai quali presta la sua assistenza morale.
Questa
sua “ricaduta” spinge però l’autorità ecclesiastica a sospenderlo “a divinis”
non già per comportamenti immorali, non avendo egli mai rinunciato ai principi
della buona educazione ricevuta, ma per motivi ideologici, la sua ammirazione
per Garibaldi considerato dalla Chiesa,
all’epoca, una specie di demonio.
Nel
1893, mentre è preside del liceo classico di Mantova ove è vescovo Giuseppe
Sarto, cade gravemente ammalato e si teme per la sua vita. Al suo capezzale
accorre il suo ex compagno di studi che lo tranquillizza assicurandolo che sul
suo passato “ribellismo” è già stato steso un velo. Il malato si rasserena, ma insiste
nel condannare il potere temporale del Papa
Mons.
Alfredo Contran di Padova, poeta e
scrittore di vaglia – autore di una raccolta di profili di sacerdoti della
diocesi di Padova intitolata “L’archibugio del cappellano” - scrive che secondo
una versione che sa un po’ di leggenda, il colloquio fra i due si sarebbe svolto pressapoco così:” “Dai” dice il
vescovo “vediamo di combinare. Ti suggerisco io la formula di sottomissione”.
Ma l’altro lo previene affermando:”Riconosco i miei errori ma è bene che sia
cessato lo stato pontificio”. Il Sarto scuote la testa:”No, non così” e allora
l’Arboit, di rimando: ”Riconosco di aver sbagliato, ma è giusta l’unità
d’Italia”. Cade un silenzio d’attesa, fino a che l’ammalato riprende
l’iniziativa:”Riconosco di aver sbagliato…e credo che Dio nella sua infinita
sapienza abbia permesso l’unità d’Italia”. Adesso i due amici sorridono e si
abbracciano”.
Don
Angelo Arboit, cessato l’ insegnamento, tornò al paese natio ove morì, con la coscienza
tranquilla, nel 1896, portando nella tomba, intatti, l’amore per Cristo e
quello per Giuseppe Garibaldi.
Giovanni Zannini
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