“Ma chi sarà mai”” si chiedevano i lettori dell’”Illustrazione Italiana” che nel periodo dal 1875 al 1890 scorrevano la “Conversazione” che, mensilmente, un tal misterioso “Doctor Veritas” teneva con un’altrettanto misteriosa signora affermatamente giovane e bella?
Sotto quello pseudonimo si celava Leone Fortis, nato a Trieste il 5 ottobre 1827 da Davide Forti (il cui cognome modificò poi in Fortis) e da Elena Wollemborg che, rimasta prematuramente vedova, si trasferì a Padova col bambino che educò nell’ambiente culturale padovano dell’epoca frequentato da poeti come Dall’Ongaro, Aleardi, Fusinato e Prati riuniti attorno al Pedrocchi: per questo, benché non padovano per nascita, ma per formazione, venne poi sempre considerato come frutto della cultura padovana .
Iscritto inizialmente alla facoltà di medicina del Bo, si dedicò poi alla drammaturgia che, oltre ad attribuirgli un certo successo, lo segnalò anche come patriota malvisto dalle autorità austriache per riferimenti alla libertà ed all’indipendenza italiana che gli costarono ripetuti allontanamenti dalla città, ed anche per qualche tempo l’esilio in Svizzera.
Fu attivo nelle battaglie risorgimentali: nel 48 accorse, da Trieste, ove gli austriaci l’avevano costretto, a Padova ove si arruolò volontario prendendo parte alla battaglia di Monte Osio (Verona), poi fu a Milano, ed infine a Roma ove nel 1849 combattè alla difesa della Repubblica Romana.
Terminata l’esperienza di patriota combattente, tornato a Padova nel 1850 riprese la sua attività di drammaturgo che, nonostante la modestia dei risultati, gli aprì le porte d’ importanti teatri quali la “Compagnia Reale” di Torino che nel 1952 lo assunse come “poeta della Compagnia con obbligo di tre lavori ogni anno” e poi, a Milano, quelle della Scala, che nel 1854 lo nominò “Direttore artistico e poeta ufficiale”. Ma dopo tale data , convinto che l’ attività di drammaturgo fosse destinata ad esaurirsi con gli anni giovanili, decise di indirizzare le sue innegabili doti letterarie verso il giornalismo continuando ad esprimere, per questa via, patriottismo e sete di libertà.
Oltre che per le sue qualità professionali caratterizzate da uno stile sbrigliato, libero ed anticonformista, e da una cultura assai vasta che gli consentiva di trattare gli argomenti più vari, si distinse quale creatore di giornali che, con un dinamismo eccezionale, seminò in tutte le regioni d’Italia che il processo riunificatore risorgimentale andava via via aggregando.
Il successo e la fama di giornalista gli derivò (grazie anche alla qualità di collaboratori quali l’Aleardi, il Nievo - che però lo criticò tacciandolo di taccagneria nei compensi - il Fusinato e l’Arrighi) da “Il Pungolo” che, fondato a Milano e chiuso a forza dagli austriaci, riprese le pubblicazioni a Milano nel 1859 allorchè la Lombardia era entrata a far parte del regno sabaudo.
Dopo un anno il giornale giunse a tirare fino a 10.000 copie, ma il Fortis aveva nel frattempo mutato indirizzo politico ripiegando dalle giovanili posizioni liberal-progressiste e mazziniane, verso un conservatorismo monarchico filo-governativo favorito anche (si disse) dalla necessità di ottenere aiuti e sovvenzioni per ovviare ad affari andati male ed alla non sempre felice gestione del giornale che dopo alterne vicende chiuse definitivamente il 10 settembre 1892.
Allora, a corto di quattrini, fu ben felice di prendere al volo la proposta dell’Editore E.Treves che gli offrì sulla sua “Illustrazione Italiana” una rubrica di politica, cultura e costume simile a quella che già da tempo il Fortis conduceva, e con successo, sul suo giornale cosicchè, dal 1875 al 1890, comparve ogni mese sull’ importante rivista dell’epoca una “Conversazione” a firma “Doctor Veritas”.
Si trattava di intere colonne, fitte, che talora occupavano anche più pagine ove egli commentava gli avvenimenti politici, culturali e mondani del mese con uno stile colloquiale vivace ed intrigante, talora aulico, che all’epoca, evidentemente, piaceva assai ed attirava lettori, donde la scelta, come sempre oculata, dell’editore Treves.
Da esse emergeva un Fortis politicamente conservatore favorevole alla monarchia a suo parere solo argine contro pericolose derive della società verso il socialismo e l’anarchia, e che, culturalmente, manifestava la sua simpatia per gli autori rimasti fedeli al romanticismo criticando ogni forma di sperimentalismo e di letteratura derivante da modelli stranieri.
Ma il maggior interesse per il lettore odierno è fornito dalla cronaca di fatti ed avvenimenti della fine 800 che appaiono quasi perfettamente sovrapponibili, oltre un secolo dopo, a quelli d’oggidì.
Nella “Conversazione” del 27 maggio 1877 rimpiange (già allora…) i bei tempi passati rievocando “la politica di una volta…, la buona politica!”, quando “c’eran due nomi che ci facevano battere il cuore, Venezia e Roma,...quando avevamo un mito vivente, Garibaldi, e una figura storica contemporanea, Vittorio Emanuele, l’uno era qualcosa più di un eroe, l’altro assai più di un re…”. Oggi, invece, (“Conversazione” del 8 aprile 1877) ”i deputati entrano a Monte Citorio (come allora si indicava Montecitorio – ndr.)…parlando quella specie di linguaggio che i candidati sogliono adoperare con i loro elettori, tutto tropi, immagini, metafore, e ne escono parlando un gergo fabbricato in casa… che nessun altro che loro riesce a capire…Occupati a fare e disfare gruppi, gruppetti, gruppini, combinazioni e combinazioncelle, composizioni e decomposizioni di chimica parlamentare…credono che tutta l’Italia non si occupi d’altro e non si accorgono che al di là della muraglia di Monte Citorio l’Italia lavora, pensa, studia, si diverte, si muove e, soprattutto, cammina”.
Nella “Conversazione” del 25 marzo 1877 critica i criteri per l’attribuzione delle cariche pubbliche prendendo ad esempio quanto avveniva alla Scala il cui ambiente, abbiamo visto, conosceva assai bene.
Fra i suoi direttori, scrive, “ce n’è qualcuno a cui tutti riconoscono nessuna autorità né competenza in fatto d’arte, e che pure sta là imperterrito da tanti anni per diritto dinastico. C’è stato il padre, ci deve essere il figlio, e se questo figlio avrà prole, il bimbo nascituro la prima parola che pronuncerà invece di “papà”, sarà “Scala”…”.
Quella dell’ 11 marzo 1877 è tutta dedicata ai critici letterari, fra i quali si annovera, che non esita a criticare aspramente iniziando col dire che “…Lo scrivere è il miglior modo per disimparare a leggere”. Già, perché “…noi, trascinati dal vortice della vita di tutti i giorni, noi i libri dobbiamo accontentarci di prenderli in mano, di guardarli, per fondere, per così dire, nel nostro pensiero, il titolo, il nome dell’autore e quello dell’editore traendo da questi tre dati l’oroscopo della loro vita, della loro morte, della loro fortuna, come fanno gli zingari con le mani dei credenzoni. Sicuro, noi critici, più o meno patentati, non si ha più il tempo di fare la critica letteraria, dobbiamo contentarci di fare della chiromanzia bibliografica”. E allora ben venga – si augura - una malattia la cui convalescenza consenta al critico di esaminare dal suo letto o dalla poltrona quelle pagine che altrimenti rimarrebbero intonse.
E poi (2 aprile 1877) la Borsa il cui termometro “ va soggetto ad agitazioni convulse e repentine. La colonna del suo mercurio sale e scende con una rapidità piena d’orgasmo. Ogni sua vibrazione comunica una scossa a quei capannelli che sulla piazza della Scala stanno accampati…Ognuno fa la pace e la guerra dieci volte al giorno, tira oroscopi, fa profezie, combina alleanze, scioglie questo Stato o quello…”. Più attuale di così!
Infine (24 gennaio 1877), alcuni giudiziosi consigli a quelle dame che si dolevano perché i giovin signori del tempo manifestavano maggior attenzione a “quelle altre” piuttosto che a loro. Per recuperare l’interesse degli uomini, raccomandava alle dame suddette: “Si guardino bene dal porsi al livello di quelle là, evitino gli scoppii di voce, la garrulità fatua, la irrequietezza del gesto, la mobilità provocante, gli ondeggiamenti voluttuosi della persona”, e vedranno che “la gioventù non è sì floscia e scaduta che la mia bella lettrice (l’ immaginaria signora “giovane e bella” alla quale si rivolge nelle sue “Conversazioni – ndr.) non trovi sempre un braccio di giovane che sia superbo di farla ballare, di accompagnarla alla sua carrozza, un’anima di giovane che si apra, compiacendosene, al placido raggio del suo spirito…”.
Giovanni Zannini
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