RACCONTO
Il prof. Pio Tranquilli, docente di filosofia nella locale Università, era un uomo sui trent’anni piuttosto piccolo, robusto, ma agile ed asciutto, con il viso austero, solenne, e gli occhi scuri, profondi. Una figura che non poteva sfuggire a chi avesse un minimo di spirito d’osservazione perché denotava un notevole contrasto fra il capo, da pensatore, ed il corpo, da pugile della categoria dei pesi mosca.
Gentilissimo, salutava tutti, anche quelli che non conosceva; scapolo, viveva da solo in un appartamentino ove meditava e scriveva libri assai apprezzati quando non era impegnato nelle aule accademiche, in convegni, dibattiti o tavole rotonde.
Dato il soggetto innegabilmente interessante, decisi di saperne di più e gli chiesi un’intervista che mi concesse immediatamente con la consueta cortesia.
Gli posi quindi una serie di domande alle quali rispose in termini chiari e comprensibili , cosa assai rara per un filosofo, confermando una preparazione ed una cultura in tutto degni della sua fama.
Ad un tratto la biro che si rigirava, parlando, fra le mani, cadde per terra, infilandosi nel poco spazio esistente sotto la scrivania dietro la quale stava seduto.
Lo vidi alzarsi di scatto mentre i tratti del suo volto si alteravano e, messosi a quattro zampe, gattoni, sul pavimento, ricercare affannosamente la penna che, nonostante i suoi sforzi, continuamente gli sfuggiva.
”Maledetta”, urlò allora con voce carica d’odio, “ti distruggerò, ti massacrerò” e, allorchè, a forza d’improperi riuscì ad agguantarla, la spezzò con ira in due e la gettò, trionfante, nel cestino della carta.
Dopo di che, tornato amabile e serafico, “Dove eravamo rimasti?” mi chiese; ed avendogli ricordato il punto in cui il discorso si era interrotto, lo riprese portandolo, con la consueta razionalità, a termine.
Trascorsa una buona mezz’ora in un conversare assai interessante, mi propose un caffè che accettai di buon grado. Si alzò per andare in cucina a prepararlo e, forse ancora immerso nei suoi pensieri, passando, in sala da pranzo, accanto al tavolo urtò sbadatamente contro un suo spigolo accusando, di conseguenza, un forte dolore.
Si fermò e guatò con odio il mobile sibilando:” Infame!”. Quindi, zoppicando, tornò alla scrivania e, afferrato un grosso martello, quasi un mazzuolo, che vi era sopra, si riavvicinò al tavolino e gli inferse due o tre violenti colpi che lo ridussero a mal partito.
Aduso, per la mia professione di giornalista, a vederne di tutti i colori, feci finta di nulla, ma l’altro si accorse del mio stupore.
“Vedo che è sorpreso – mi disse sorridendo, mentre sorseggiavamo il caffè - e le spiegherò il perché del mio comportamento”. Quindi, assunta un’aria professorale, proseguì: ””Lei ha certamente constatato che la vita quotidiana ci espone, di continuo, a contrasti, a scontri con i nostri simili. Orbene, la morale cristiana che impone di considerare gli altri come fratelli, e, per chi non crede, la buona educazione, vietano ogni reazione violenta contro il tuo prossimo.
Le farò degli esempi assai banali, per non parlare di altri casi ben più importanti, in cui la nostra pazienza e la nostra tolleranza sono messi a dura prova.
Pertanto, a chi ha piazzato la sua vettura davanti al tuo garage impedendoti di entrarvi, mica puoi dire, come peraltro avresti tanta voglia, “Togliti di lì, villano”, ma ti rivolgerai a lui, sforzandoti di rimanere tranquillo, e con il sorriso sulle labbra, dicendogli: ”Ehi, amico, sii cortese, sposta la tua vettura affinchè io possa accedere alla mia autorimessa”.
Ed a chi, mentre tu, pazientemente, alla stazione, stai facendo la fila per il biglietto, senza tanti complimenti ti supera con la scusa che ha il treno in partenza, non puoi, come sarebbe tuo vivo desiderio, allungargli un manrovescio, ma, al più, gli dirai:” Birbantello, te ne prego, rispetta la coda” e chiuso lì.
Ma tutto questo, a lungo andare, rischia di rovinarti la salute perché gli psicologi dicono che in tal modo, continuando a sopportare pazientemente gli altri, si accumulano in noi le cosiddette “scorie” che sono alla base di quelle malattie psicosomatiche e di quelle depressioni oggi così diffuse.
Perciò, dicono sempre gli specialisti, queste scorie bisogna, assolutamente, eliminarle.
Ecco dunque perché Sgarbi che vive insultando a destra e manca, e fa gli urlacci, maledicendo chiunque dica o faccia qualcosa che non gli va, in depressione non ci andrà mai.
Ma noi, poveracci, che crediamo nella carità cristiana e nella buona educazione, dovremo tutti finire nelle cosiddette case di salute, ed ingozzarci di psicofarmaci?””.
Si arrestò perché si era accorto che le sue parole cominciavano a procurarmi una certa angoscia.
Poi, con mio grande sollievo, proseguì:” Per fortuna, ho da pochi giorni eleborata una teoria per risolvere questo problema che affligge le persone educate come noi”.
La cosa si faceva interessante e gli chiesi di illustrarmela.
“”Ho dunque scoperto – rispose – che la violenza, sia verbale che fisica, le ingiurie, le minacce ed il turpiloquio sono riprovevoli solo se rivolte verso altre persone. Nulla vieta, invece, di ingiuriare e percuotere le cose inanimate. Ecco perché ho definito “resfobia” – che tradotto significa “fobia, avversione per le cose” – la mia nuova teoria. Come ha visto, distruggendo quella biro e menando martellate al tavolo ho immediatamente eliminato ogni “scoria” nociva tornando, grazie a ciò, immediatamente, tranquillo e sereno. Ci provi, all’occorrenza – concluse – e mi sappia dire se la mia teoria funziona””.
Glielo promisi, ed in effetti una pacca al televisore che non funzionava e la messa fuori uso della bicicletta che mi aveva lasciato a terra per una foratura, furono le vittime sacrificali per eliminare alcune “scorie” che avevo accumulato.
Circa un mese dopo l’intervista, incontratolo per strada, il professore, dopo avermi salutato con la consueta cortesia, mi chiese di venirlo a trovare perché aveva importanti cose da comunicarmi.
Acconsentii di buon grado e l’indomani eccomi a casa sua.
Mi venne ad aprire un uomo in tuta da lavoro che si presentò dicendomi:” Sono il riparatore di fiducia del professore” e che mi accompagnò da lui.
““Debbo onestamente riconoscere – iniziò il filosofo con un certo imbarazzo – che qualcosa, nella mia teoria sulla “resfobia” non funziona. Qualche giorno dopo esserci visti, mentre facevo la doccia, a seguito di un guasto venni investito da un getto d’acqua bollente che mi mandò su tutte le furie. Rivolsi al boiler le ingiurie più sanguinose poi, afferrato il mazzuolo che tengo sempre pronto sulla mia scrivania, lo presi a martellate. Un altro giorno aprendo il frigorifero mi presi una scossa che quasi mi mandò al Creatore: appena rimessomi dallo spavento, misi fuori uso anche lui””.
“Ma le scorie – gli chiesi, interessato – le ha eliminate?”.
“Per questo – rispose – la resfobia funziona a meraviglia, ma sa quanto mi costa? Si figuri che ho dovuto assumere in pianta stabile quell’uomo che ha visto entrando che, per fortuna, s’intende di tutto: elettricità, idraulica, falegnameria, costruzioni e quant’altro. Ma a causa del suo stipendio, compresi i contributi di legge, francamente sto andando in rovina”.
“E allora?” gli chiesi preoccupato.
“”Ho riveduto la mia teoria: non più “resfobia”, ma “ipsefobia”, ossia avversione per sé stessi. Se, mi son detto, non è possibile offendere né, tanto meno, percuotere il nostro prossimo, e se, per motivi economici, neppure è consentito sfogarsi con le cose, con chi prendersela, allora, per eliminare quelle maledette scorie? Dopo lunga meditazione, finalmente è fiorita nella mia mente la soluzione: ma con sé stessi, perbacco, ed è così che è nata la “ipsefobia”. Essa non prevede la violenza fisica su se’ stessi che potrebbe avere altre conseguenze nocive per la propria salute, ma non pone alcun limite a quella verbale.
Ti prendi una multa per eccesso di velocità? Mica puoi insultare il poliziotto che, poveraccio, fa il suo lavoro. Basterà dirsi: ”Pio, sei un perfetto imbecille ed anche un gran cretino”. E se ti accade d’inciampare su di un gradino e di cadere, per questo, rovinosamente a terra, non c’è più bisogno di farlo a pezzi. Sarà sufficiente dirsi: “Ben ti sta, deficiente! Un’altra volta guarda dove metti i piedi”. E, Le assicuro, quelli che Le ho riferito sono insulti da educande, in confronto a quelli che normalmente mi rivolgo per combattere le famigerate scorie””.
““Ma i risultati di questa “ipsefobia” – gli chiesi – come sono?””
“Ottimi – rispose – Pio è docile, non reagisce mai, incassa tutto, così le scorie vanno via che è un piacere, senza bisogno di tranquillanti o psicoterapeuti: soprattutto, evitando di avere falegnami, elettricisti, tubisti e affini continuamente fra i piedi, con quel che costano”.
Giovanni Zannini
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