Così il padovano Carlo Leoni (1812-1874), figura rappresentativa degli intellettuali risorgimentali patavini, nella sua “Cronaca segreta dei miei tempi” relativa agli avvenimenti accaduti nell’arco di tempo che va dal 1845 al 1874, definisce Alberto Cavalletto: ma, precisa, “non tanto perché gli assomigliasse come personalità, ma perchè Cavalletto fu, nei confronti della storia del Risorgimento patavino quello che Garibaldi fu per l’intero Risorgimento Italiano”.
Pietro Galletto, infatti, nel suo “Alberto Cavalletto – Una vita per la Venezia e per l’Italia”, (opera egregia di storia non solo padovana, ma pure italiana, grazie al testo e ad una grande ricchezza di note che ne fanno una piccola enciclopedia dell’intero periodo risorgimentale), nel descrivere la vita del patriota padovano prende in esame gli aspetti che lo fanno rassomigliare all’Eroe dei due mondi, ma anche quelli che lo differenziano.
Con la spada in pugno
La prima parte del libro, dunque, parla di un Cavalletto che, dopo aver iniziato l’attività lavorativa come ingegnere idraulico, il 24 marzo 1848, all’indomani del ritiro degli austriaci da Padova, non esita ad arruolarsi in un corpo franco di volontari chiamati i “Crociati padovani”, cittadini desiderosi di “combattere in nome della libertà sotto l’auspicio della Fede”; e, in riconoscimento della capacità organizzativa di cui ha dato prova in occasione di inondazioni ed altri dissesti idraulici, è nominato aiutante maggiore del colonnello comandante. Si reca a Vicenza ed assieme ai “Crociati” vicentini, a quelli di Treviso, pure accorsi, ed a truppe pontificie inviate da Pio IX (inizialmente liberaleggiante, ma poi, sappiamo, cambiò idea anche, si dice, per il timore di uno scisma in Austria), si appresta a difendere la città contro gli austriaci che, ottenuti rinforzi, da Verona ove si erano asserragliati, muovono alla riconquista dei territori precedentemente abbandonati.
Nonostante la disperata resistenza, dopo alcuni successi iniziali, i “Crociati” vicentini, padovani e trevigiani, ed i pontifici, sono sconfitti alle porte di Vicenza, e costretti a ritirarsi. Cavalletto, che ha combattuto coraggiosamente in prima linea alla testa dei suoi volontari, rientra con essi a Padova deciso a difendere la città, d’accordo con il “Comitato provvisorio dipartimentale” ivi sorto, contro il nemico che incalza. Ma il Governo della Repubblica Veneta nata dopo il ritiro degli austriaci, che ha autorità anche sulla provincia di Padova, lo ritiene impossibile ed ordina di rinunciarvi e di concentrare tutte le forze esistenti a difesa della città lagunare. Cavalletto tenta disperatamente ma invano di opporsi all’ordine ed alla fine, contrario per principio ad ogni forma di disobbedienza all’autorità legittima, nella notte fra il 12 ed il 13 maggio 1848 alla testa dei suoi uomini lascia Padova diretto a Venezia ove già si erano rifugiati circa 4000 patrioti di città venete ricadute in mano austriaca dopo un effimero breve periodo di libertà.
Giunto nella città lagunare, il maggiore Cavalletto assume il comando del II battaglione della “Legione Bacchiglione Brenta” composto da circa 700 volontari di Padova e provincia e partecipa alla disperata difesa contro l’austriaco assediante. Inoltre, eletto deputato nell’Assemblea Permanente della rinata (ahimè per poco) “Repubblica di S.Marco”, si batte energicamente contro coloro che auspicavano la resa. Ma alla fine, di fronte alla preponderante forza nemica, alla fame ed alle malattie, il 22 agosto 1848 Venezia cede e Cavalletto, rinfoderata la spada, grazie alla decisione austriaca di lasciar partire quanti non volevano restare, lascia la città dai volontari padovani valorosamente difesa (29 i caduti) ed il 26 agosto rientra a Padova di nuovo in mano agli austriaci.
Perso, per il suo patriottismo, l’incarico di ingegnere idraulico comunale, si dedica alla libera professione che gli consente un tenore di vita assai modesto e continua però a coltivare il suo ideale di libertà costituendo con altri patrioti padovani una specie di unione segreta d’ispirazione mazziniana pronta ad intervenire contro gli austriaci “in caso di avvenimenti straordinari che commovessero naturalmente le popolazioni”, fino a che il suo comportamento cospirativo reso noto da un traditore, e l’accusa di aver acquistato 6 cartelle del “Prestito Nazionale ” aperto dal Comitato Nazionale Italiano fondato da Mazzini , provoca, il 7 luglio 1852, il suo arresto. Rinchiuso in un primo tempo nelle carceri politiche di Venezia, viene poi trasferito nella terribile prigione del castello di Mantova chiamata “La Mainolda” ove giunge il pomeriggio del 22 luglio. In questa prigione Alberto Cavalletto condivide per due mesi la cella con Tito Speri patriota bresciano animatore delle “Dieci giornate di Brescia” e fra i due si stabilisce un fraterno rapporto di idee e di sentimenti che, per opera del Cavalletto (lui, accusato di anticlericalismo, ma lo vedremo in seguito), porta il compagno di sventura a riconciliarsi con la religione.
Nel processo del 3 marzo 1853 Cavalletto (imputato di “pregiudicatissima condotta politica per essere stato
in cognizione dell’esistenza del Comitato Rivoluzionario veneto, di aver avuto ed accettato l’incarico da uno dei capi del Comitato veneto ad organizzare un comitato figliale rivoluzionario in Padova e di avere mediante acquisto di cartelle mazziniane cooperato a conseguire i mezzi per la sommossa”), Speri ed altri 23 imputati vengono condannati a morte dalla Corte Marziale austriaca: ma in secondo grado la pena di morte viene confermata per tre imputati, tra i quali lo Speri, e per gli altri 20 commutata nel famigerato “carcere in ferri”.
A seguito di ciò, Cavalletto, con pesanti catene ai piedi, alla fine di un tragico viaggio di sei giorni viene rinchiuso nella fortezza di Josephstadt ( in Boemia, vicina a Sadowa, che diverrà famosa per la battaglia ivi combattuta il 3 luglio 1866 tra austriaci e prussiani, risoltasi con la vittoria di questi ultimi) e soggetto per ben due anni ad un trattamento disumano simile a quello raccontato da Silvio Pellico nella sua famosa opera che egli legge a suo conforto. A causa delle precarie condizioni di salute derivate dalla durissima detenzione, è trasferito nelle prigioni del Castello di Lubiana ove il trattamento è meno feroce e dalle quali esce finalmente grazie all’amnistia concessa il 2 dicembre 1856 dall’imperatore Francesco Giuseppe che, in visita a Venezia, nel tentativo di arginare il crescente odio contro l’Austria, libera 72 detenuti politici italiani fra i quali il Cavalletto. Così l’11 dicembre 1856 dopo 6 anni e 5 mesi di detenzione egli rientra a Padova ove rimane, non domo, cospirando, per i tre anni successivi, contro gli austriaci occupanti. Alla fine, per sfuggire alla occhiuta polizia austriaca che non lo perde d’occhio, ed in vista di una guerra del Piemonte con la Francia alleata contro l’Austria, lascia ancora una volta la città per raggiungere clandestinamente, nel gennaio 1859, Torino, ove dà vita ad una “Associazione dei popoli della Venezia” - avente lo scopo di estendere il Veneto “Dall’Alpe al Quarnero” inglobando anche il Trentino e l’Istria – rappresentativa di quelle migliaia di patrioti Veneti che avevano passato il confine emigrando in Piemonte per trovare libertà loro negata dall’oppressore austriaco.
Il 27 aprile 1859 scoppia la guerra fra Piemonte e Francia alleati contro l’Austria per liberare Lombardia e Veneto ed annetterli al Regno di Sardegna: ma nonostante le vittorie di S.Martino e Solferino in cui gli austriaci sono sconfitti, e che avrebbero aperto agli alleati la strada per Venezia, i francesi di Napoleone IIl (inorridito per la carneficina verificatasi che suscitò nel filantropo Henry Dunant l’idea di fondare in Svizzera, nel 1864, la “Croce Rossa Internazionale”) preferiscono abbandonare la guerra venendo a patti con Francesco Giuseppe, lui pure impressionato dall’immane massacro verificatosi. Così, alla conclusione del Congresso di Zurigo (8 agosto-10 novembre 1859) che definì il nuovo assetto politico dell’Italia, lo Stato Sardo ottenne un risultato solo parziale e con una procedura umiliante: la Lombardia viene assegnata alla Francia di Napoleone III che la cede a sua volta al Regno Sabaudo in cambio di Nizza e della Savoia, ma lascia ancora il Veneto sotto il giogo austriaco.
Questo “tradimento” dei francesi suscita l’indignazione e la protesta di tutti i patrioti ed in particolare di Alberto Cavalletto che a nome della “Associazione dei Popoli della Venezia” invia una lettera a Cavour riaffermando il fermo desiderio dei Veneti di unirsi al nuovo stato italiano in via di formazione.
Ed ora ordine, legalità, democrazia
La proclamazione del Regno d’Italia decretata dal primo Parlamento Italiano il 27 marzo 1861 a seguito dell’esito dei plebisciti nei territori liberati, provoca in Cavalletto quel mutamento di cui si parlava all’inizio, che trasforma la sua mentalità sino ad allora coincidente con l’azione di Garibaldi fatta di audacia, di iniziative coraggiose anche spregiudicate, di lotte e combattimenti con le armi in pugno, e lo induce ad un atteggiamento più prudente, legalitario e democratico che lo allontana dalla “filosofia” garibaldina. Egli pensa infatti che con la proclamazione del Regno d’Italia il periodo storico delle insurrezioni, delle avventure, dei colpi di mano e delle spedizioni (come saranno, ad esempio, quelle di Garibaldi al grido di “Roma o morte” del 1862 stroncata dalle truppe regolari sull’Aspromonte, o la “Campagna dell’Agro Romano”, pure garibaldina, del 1867, sempre mirante alla liberazione di Roma, o le insurrezioni a Sarnico - 1862 - ed in Friuli – 1864) -) sia terminato e che le iniziative per addivenire alla piena unità d’Italia con la liberazione di Roma e del Veneto spettino ormai solo alle decisioni del parlamento italiano democraticamente eletto e del governo legittimo sua emanazione.
Altre iniziative che avrebbero potuto provocare all’Italia complicazioni di politica estera in Europa sarebbero state, secondo Cavalletto, “non solo un’avventataggine, ben’anco un delitto”, e scrivendo poi ad un amico nel 1863 afferma che “io desidero che presto finisca il martirio della Venezia…..ma non desidero che si rinnovino le dolorose sventure dell’anno decorso (chiara allusione ai fatti dell’Aspromonte dell’anno prima – n.d.a.) che fecero sostare e quasi arretrare l’Italia nel compimento dei suoi destini. Un popolo veramente civile e libero rispetta la legge: chi questa infrange apre il varco all’anarchia, alla guerra civile e, senza volerlo, prepara la rivincita ai dominatori stranieri”.
Tale atteggiamento moderato che lo pose in contrasto con il Partito d’Azione dell’epoca d’ispirazione mazziniana (rinato poi in Italia durante il periodo fascista, attivo partecipe alla Resistenza e, nel dopoguerra, per alcuni anni, alla vita politica repubblicana italiana – n.d.a.), che parteggiava invece per un’azione più audace e spregiudicata pur di addivenire alla completa unità italiana, danneggiò l’attività politica del Cavalletto che, nella sua veste di veneto in esilio, era stato ammesso alle competizioni elettorali piemontesi.
Nelle elezioni del gennaio 1864 il Partito d’Azione, per combattere la sua azione di liberale democratico gli oppose, nel Collegio di Casalmaggiore nientemeno che Giuseppe Garibaldi: e Cavalletto fu, naturalmente, sconfitto.
Riprese allora la sua attività lavorativa dalla quale traeva un magro guadagno, ciononostante rifiutando un contributo economico offertogli dal governo e, allorchè Firenze diviene capitale d’Italia, alla fine del 1865 vi si trasferisce per risparmiare sulle spese dato che, scrive, “gli affitti sono bassissimi ….ed il vitto vi è pure a buon mercato”.
Prosegue però anche la sua attività politica mirante ad ottenere la liberazione del Veneto e la sua annessione all’Italia, e allorchè nel 1866 scoppia la III Guerra d’Indipendenza che vede l’Italia a fianco dell’alleata Prussia contro l’Austria, vi partecipa quale capo dell’Ufficio Informazioni Militari facendo tesoro di quelle che gli pervengono dagli amici veneti.
Purtroppo l’esito della guerra è infausto per le armi italiane battute dagli austriaci per terra a Custoza e per mare a Lissa, ma ciononostante, grazie all’alleato prussiano che il 13 luglio 1866 batte gli austriaci nella famosa battaglia di Sadowa, il Veneto viene attribuito all’Italia sia pure, ancora una volta,mediante un’umiliante procedura: l’Austria, che si vanta di aver sconfitto l’Italia a Custoza, cede il Veneto, ma a Napoleone III (ancora una volta in veste di “grande traghettatore”) che a sua volta lo gira all’Italia.
Alberto Cavalletto rientrato a Padova poco prima della fine della guerra accolto con tutti gli onori, riprende la sua attività lavorativa presso il Genio Civile e continua ad occuparsi di politica sia pure con scarso successo venendo battuto nel Collegio di Padova dal Conte Cavalli nelle elezioni politiche del 1866.
Forse amareggiato dalla sconfitta elettorale nella sua città, passa a candidarsi nella provincia di Vicenza e, in virtù anche dei meriti acquisiti nel 1848 con la storica difesa della città, è eletto deputato nel collegio di Valdagno dal 1867 al 1874, nel collegio di S.Vito del Tagliamento dal 1874 al 1882, infine nel terzo collegio di Udine dal 1882 al 1892: ma a questo punto non viene più rieletto ed allora, in premio di una lunga vita spesa con generosità spesso eroica per un’Italia libera e unita, Re Umberto I il 12 dicembre 1892 lo nomina Senatore del Regno e nel marzo 1893, gli conferisce il “Cordone dell’Ordine dei Santi Maurizio e Lazzaro”.
Trascorre gli ultimi anni a Padova, ove tutti lo interpellano familiarmente ”Sior Berto”, quasi sorpreso degli onori che gli vengono attribuiti che non si confanno, dice, “con le mie abitudini di vita semplice e modesta”.
Il 19 0ttobre 1897, scrive Pietro Galletto, “in una casa di rustiche pareti e con meschine suppellettili si spegne a Padova Alberto Cavalletto , il senatore padovano figlio del popolo”.
Anticlericale politico antitemporalistico
Resta da dire dell’anticlericalismo di Cavalletto che, come accadde a molti altri patrioti risorgimentali, fu, in realtà, un anticlericalismo “politico antitemporalistico” con ciò indicando coloro che, anche credenti, avversavano Pio IX non in quanto Vicario di Cristo, ma in quanto Capo di stato.
Quello stato in cui il potere spirituale s’intrecciava negativamente con un potere temporale anacronistico che si opponeva alla completa unificazione dell’Italia con Roma capitale, e che i patrioti cattolici risorgimentali volevano eliminare proprio per ridare al Papa il suo carisma di capo della Chiesa liberandolo dagli impacci di cure terrene che gli impedivano di dedicarsi completamente alla sua alta missione spirituale.
Cavalletto fu uno di questi, e molti sono coloro che ne attestano una personalità “naturaliter cristiana”, la dirittura morale ed il rispetto per la religione.
Fra questi, don Costante Businaro, già cappellano militare dei patrioti padovani che si batterono in difesa di Venezia, poi arciprete di Polesella, ricordava nell’elegia funebre che l’anima di Cavalletto “era volta agli oppressi d’ogni guisa verso cui drizzarvi e core e mente”, e ricorda la soddisfazione con cui egli, durante la breve vita della Repubblica veneta, gli aveva comunicato che le sue adunanze ed i decreti emessi iniziavano con la formula “In nome di Dio e del Popolo”.
Ma soprattutto ne sono testimonianza due scritti di Tito Speri, martire di Belfiore, che con lui aveva condiviso la cella durante la durissima prigionia nella fortezza di Mantova, e che a seguito dei ragionamenti filosofici del Cavalletto si era convertito passando dal materialismo al cattolicesimo da lui definito “la filosofia italiana ontologica”.
In un articolo al “Giornale di Mantova” (che non lo pubblicò) Speri afferma che Cavalletto ”…riassume in sé quanto vi ha di più bello nella ispirazione della religione e dei principi sociali…..”.
E nella notte del 2 marzo 1853, alla vigilia della sua esecuzione gli scrive una lettera nella quale si legge fra l’altro:”.…Sento in me prevalere il principio spirituale in tal modo che sospiro il momento di liberarmi della tortura del corpo e volar finalmente nelle braccia di Colui dal quale sono disceso…..Io ti comando di vivere, di alimentare quel fuoco di virtù che ti serpe nelle vene…..Ai nostri cittadini parla sempre francamemte la verità ed insegna loro dove abbiano ad aspettarsi la vera salute….”. E conclude:” Addio. Sono le 12 di notte. Vado a dormire confabulando confidenzialmente con Dio”.
Una lettera nobilissima, esemplare e commovente, che meriterebbe ben altra diffusione e conoscenza.
Giovanni Zannini
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