lunedì 30 novembre 2015

SE HITLER TORNASSE

e se ancora una volta tentasse di realizzare i suoi sogni di eliminare ogni libertà, di aggredire liberi stati, di alimentare il culto della razza, in una parola se tentasse nuovamente di realizzare le sue folli idee che portarono alla seconda guerra mondiale,  i popoli che combatterono contro di lui         dovrebbero essere, come allora, pronti ad insorgere.
Invece, gli alleati di allora sono incerti, indecisi, in polemica gli uni contro gli altri, e non hanno sinora preso la decisione di combattere insieme contro l’Hitler d’oggidì, quell’Abu Bakr al-Baghdadi autoproclamatosi “califfo” dell’ Islamic State Iraq  Siria (ISIS, poi IS)  che mira alla conquista ed alla distruzione di Roma cristiana simbolo della moderna civiltà.
Intanto il Segretario Generale dell’Onu Ban Kimoon lamenta che le potenze regionali e i Grandi del Consiglio di Sicurezza non abbiano affrontato insieme la situazione: ma  ognuno va per la sua strada nel  ginepraio mediorientale mentre l’IS avanza.
Unica eccezione, da segnalare ed apprezzare,  la Russia di Putin che realisticamente appoggia Assad, unico attuale rappresentante, sia pure discusso, della Siria, rinviando  all’auspicabile vittoria contro l’IS la soluzione del problema interno siriano.
Ma gli altri (in primis l’USA) non la pensano così: eppure una coalizione militare mondiale sotto l’egida dell’ONU non tarderebbe ad aver ragione del piccolo ma agguerrito e feroce esercito dell’IS composto, stando alle informazioni di stampa, da meno  di centomila uomini.
Mentre le giuste preoccupazioni dei pacifisti contrari all’uso della forza nelle controversie internazionali dovrebbero cadere perché essa è giustificata (anche dalla Chiesa cattolica)  allorchè si tratta di difendersi dall’aggressore di oggi (vero bandito internazionale) così come è stato legittimo opporsi, ieri, alla follia hitleriana.    
Senza dimenticare  (e questo va ricordato soprattutto agli americani) che dittatori come Gheddafi, Saddam e  Assad non vanno eliminati, ma convertiti con una paziente opera, e poi rieducati anche facendo  loro balenare i vantaggi che  una corretta gestione dell’autorità potrebbe  loro apportare.
Ad evitare che la loro caduta faccia precipitare i paesi, tipo  Libia ed Iraq,  in situazioni caotiche ancor peggiori di quelle esistenti allorchè essi erano al potere.
                                                                                                                   Giovanni Zannini


Pubblicato su LA DIFESA DEL POPOLO settimanale della Diocesi di Padova           

lunedì 23 novembre 2015

 ENRICO TOTI  MONCO, SALTIMBANCO, EROE

Il centenario della Prima Guerra Mondiale ha riportato d'attualità oltre ad avvenimenti storici   anche i nomi di quanti la vissero: generali illustri, ma anche umili combattenti, e gli eroi.
 Fra i più noti,  Enrico Toti, il bersagliere privo d’una  gamba che all'assalto, prima di morire, scaglia la stampella contro il nemico.
In genere, quest'uomo viene ricordato per il gesto estremo che lo rese famoso, ma raramente sono rievocati gli interessanti anni della sua vita che lo precedettero: il libro di Lucio Fabi (“Enrico Toti – Una storia fra mito e realtà” - Ed. Persico – 2005 dal quale provengono le informazioni che seguono) consente  invece di conoscerli e di approfondire fatti ed episodi sicuramente poco noti che verranno qui rievocati tralasciando di occuparci della leggenda che circonda il gesto di Enrico Toti     
L'eroe nato a Roma il 20 agosto 1882, a 15 anni si arruola nella Marina Militare ove permane  otto anni denotando però un carattere da “pelle storta” (modo popolare dell'epoca  per indicare l'uomo coraggioso  ma portato all'avventura e  insofferente alla disciplina) fino a che si congeda  nel 1904 per essere d'aiuto alla famiglia in  un momento di difficoltà. 
Sulle orme del padre, ferroviere, viene assunto, nel 1905 dalle Ferrovie dello Stato fino a che il 2  marzo 1908 è vittima di un incidente sul lavoro che gli provoca l'amputazione della gamba sinistra 
poco sotto il bacino.
Dopo l’incidente reagisce alla sventura e crea una piccola azienda artigianale  per la lavorazione del legno, con 3 o 4 dipendenti,  che produce  giocattoli, soprammobili e ninnoli di vario genere, che  gli assicura, sommata alla pensione, una vita finanziariamente tranquilla.
Ma, già dotato di una notevole prestanza fisica, non si deprime e non risparmia sacrifici per fortificare il proprio corpo onde dimostrare che la disgrazia non lo ha vinto, ma, anzi, l’ ha rafforzato, e, ribelle, si getta allora in imprese che suscitano interesse e ammirazione sia in Italia che all’estero.   
Fu soprattutto la bicicletta, con la quale intraprende, fra la sorpresa generale, il giro del mondo (che in realtà si riduce ad un “tour” in Europa ed in Africa,  che è pur sempre incredibile, straordinaria  impresa)  a dimostrare  che la sua forza fisica è sopravvissuta alla sventura.
Il “giro” inizia il  30 settembre 1911 da Roma, ove risiede, ed in poco meno di dieci mesi, come risulta dalla sue memorie,  percorre in bicicletta ed in treno quasi 18.000 chilometri. Attraversa la Francia, il Belgio, l’Olanda, la Germania, la Danimarca, la Svezia e la Norvegia, tocca  i ghiacci della Lapponia e da lì  la Russia, la Finlandia, la Polonia: tutto attestato dai visti di poliziotti, ferrovieri,  uffici postali e di altre autorità delle località attraversate, sul suo diario.
Giunto a Vienna, però, forse ritenendolo un pericoloso esempio per i nazionalismi che già insidiavano l’impero absburgico, la polizia gli ingiunge  di togliere  la fascia tricolore che porta a tracolla (e ciò sarà all’origine dell’odio poi da lui sempre  manifestato per l’Austria). Rifiuta, interrompe il viaggio  e torna a Roma il 12 giugno 1912 per un meritato riposo fino a che, spinto dal suo irrefrenabile spirito di avventura,  nel gennaio 1913 sbarca in Africa  ove si  rimette in sella per raggiungere  l’ Egitto e la Nubia, arrivando, scrive, “fin sotto l’equatore nel Sudan, poco lungi dal Congo”: ma, a questo punto,  le autorità inglesi che diffidano di quello strano personaggio, lo fermano e lo rispediscono in Italia ponendo fine alla sua avventura.
In tutti questi viaggi, per sopperire alle spese relative, Toti, da solo, come un moderno “artista di strada” o affiancandosi a carovane di  girovaghi, si esibisce in spettacoli in cui manifesta la sua inventiva ed intraprendenza eseguendo esercizi fisici (“atletismi”) e manovre con la bicicletta  che, già impegnativi per atleti normodotati, suscitano maggior  ammirazione in considerazione della sua infermità.
Al Cairo, ad esempio, ha molto successo un suo spettacolo nel quale (dice la locandina) “l’uomo che fa il giro del mondo in bicicletta con una gamba sola esegue un numero eccezionale di  pittura a rovescio e di atletismo”. A Stoccolma, per campare, dà  lezioni d’italiano, lavora come caricaturista nei teatri di varietà, e, altrove,  vende proprie fotografie, autografate, che, accanto all’inseparabile bicicletta,  evidenziano la sua prestanza fisica nonostante la mutilazione, e le medaglie (conquistate in  molte gare, fra cui l’attraversamento del Tevere a nuoto) che ornano la sua abituale  “maglia da ciclista”.
Rientrato dal viaggio in Africa, per mantenersi ed anche per contribuire alle necessità della famiglia  riprende con un certo successo, tanto da fargli meditare di aprire un laboratorio, l’attività lavorativa interrotta per il suo infrenabile desiderio di avventura.   
Del resto la fantasia non gli mancava di sicuro: aveva, tra l’altro, inventato un triciclo al quale aveva applicato, sul manubrio, un’elica che faceva girare  con una manovella azionata a mano, per agevolarne la corsa; inoltre era riuscito a brevettare una benda speciale per cavalli che, opportunamente manovrata,  copriva i loro occhi allorchè si imbizzarrivano.
Ma, ormai, la guerra incombe, ed il 24 maggio 1915 infiamma vieppiù l’animo patriottico di Enrico Toti.
Tralasciamo di occuparci della parte del libro di Lucio Fabi che esamina criticamente, talora con accenni polemici, tutta la letteratura fiorita attorno al gesto dell’eroe  Enrico Toti.
Ci limitiamo a riferire che essa è altrettanto interessante, e che l’autore affaccia ivi qualche dubbio sulle reali modalità del famoso gesto, mentre avanza l’ipotesi che esse siano state esaltate, in guerra, dalle autorità militari per incitare i combattenti ad emularlo, e, nel dopoguerra, dalla propaganda fascista per contribuire a suscitare nei giovani la mentalità guerriera in vista dell’immane tragedia che li attendeva.

                                                                                                           Giovanni Zannini