lunedì 30 novembre 2015

SE HITLER TORNASSE

e se ancora una volta tentasse di realizzare i suoi sogni di eliminare ogni libertà, di aggredire liberi stati, di alimentare il culto della razza, in una parola se tentasse nuovamente di realizzare le sue folli idee che portarono alla seconda guerra mondiale,  i popoli che combatterono contro di lui         dovrebbero essere, come allora, pronti ad insorgere.
Invece, gli alleati di allora sono incerti, indecisi, in polemica gli uni contro gli altri, e non hanno sinora preso la decisione di combattere insieme contro l’Hitler d’oggidì, quell’Abu Bakr al-Baghdadi autoproclamatosi “califfo” dell’ Islamic State Iraq  Siria (ISIS, poi IS)  che mira alla conquista ed alla distruzione di Roma cristiana simbolo della moderna civiltà.
Intanto il Segretario Generale dell’Onu Ban Kimoon lamenta che le potenze regionali e i Grandi del Consiglio di Sicurezza non abbiano affrontato insieme la situazione: ma  ognuno va per la sua strada nel  ginepraio mediorientale mentre l’IS avanza.
Unica eccezione, da segnalare ed apprezzare,  la Russia di Putin che realisticamente appoggia Assad, unico attuale rappresentante, sia pure discusso, della Siria, rinviando  all’auspicabile vittoria contro l’IS la soluzione del problema interno siriano.
Ma gli altri (in primis l’USA) non la pensano così: eppure una coalizione militare mondiale sotto l’egida dell’ONU non tarderebbe ad aver ragione del piccolo ma agguerrito e feroce esercito dell’IS composto, stando alle informazioni di stampa, da meno  di centomila uomini.
Mentre le giuste preoccupazioni dei pacifisti contrari all’uso della forza nelle controversie internazionali dovrebbero cadere perché essa è giustificata (anche dalla Chiesa cattolica)  allorchè si tratta di difendersi dall’aggressore di oggi (vero bandito internazionale) così come è stato legittimo opporsi, ieri, alla follia hitleriana.    
Senza dimenticare  (e questo va ricordato soprattutto agli americani) che dittatori come Gheddafi, Saddam e  Assad non vanno eliminati, ma convertiti con una paziente opera, e poi rieducati anche facendo  loro balenare i vantaggi che  una corretta gestione dell’autorità potrebbe  loro apportare.
Ad evitare che la loro caduta faccia precipitare i paesi, tipo  Libia ed Iraq,  in situazioni caotiche ancor peggiori di quelle esistenti allorchè essi erano al potere.
                                                                                                                   Giovanni Zannini


Pubblicato su LA DIFESA DEL POPOLO settimanale della Diocesi di Padova           

lunedì 23 novembre 2015

 ENRICO TOTI  MONCO, SALTIMBANCO, EROE

Il centenario della Prima Guerra Mondiale ha riportato d'attualità oltre ad avvenimenti storici   anche i nomi di quanti la vissero: generali illustri, ma anche umili combattenti, e gli eroi.
 Fra i più noti,  Enrico Toti, il bersagliere privo d’una  gamba che all'assalto, prima di morire, scaglia la stampella contro il nemico.
In genere, quest'uomo viene ricordato per il gesto estremo che lo rese famoso, ma raramente sono rievocati gli interessanti anni della sua vita che lo precedettero: il libro di Lucio Fabi (“Enrico Toti – Una storia fra mito e realtà” - Ed. Persico – 2005 dal quale provengono le informazioni che seguono) consente  invece di conoscerli e di approfondire fatti ed episodi sicuramente poco noti che verranno qui rievocati tralasciando di occuparci della leggenda che circonda il gesto di Enrico Toti     
L'eroe nato a Roma il 20 agosto 1882, a 15 anni si arruola nella Marina Militare ove permane  otto anni denotando però un carattere da “pelle storta” (modo popolare dell'epoca  per indicare l'uomo coraggioso  ma portato all'avventura e  insofferente alla disciplina) fino a che si congeda  nel 1904 per essere d'aiuto alla famiglia in  un momento di difficoltà. 
Sulle orme del padre, ferroviere, viene assunto, nel 1905 dalle Ferrovie dello Stato fino a che il 2  marzo 1908 è vittima di un incidente sul lavoro che gli provoca l'amputazione della gamba sinistra 
poco sotto il bacino.
Dopo l’incidente reagisce alla sventura e crea una piccola azienda artigianale  per la lavorazione del legno, con 3 o 4 dipendenti,  che produce  giocattoli, soprammobili e ninnoli di vario genere, che  gli assicura, sommata alla pensione, una vita finanziariamente tranquilla.
Ma, già dotato di una notevole prestanza fisica, non si deprime e non risparmia sacrifici per fortificare il proprio corpo onde dimostrare che la disgrazia non lo ha vinto, ma, anzi, l’ ha rafforzato, e, ribelle, si getta allora in imprese che suscitano interesse e ammirazione sia in Italia che all’estero.   
Fu soprattutto la bicicletta, con la quale intraprende, fra la sorpresa generale, il giro del mondo (che in realtà si riduce ad un “tour” in Europa ed in Africa,  che è pur sempre incredibile, straordinaria  impresa)  a dimostrare  che la sua forza fisica è sopravvissuta alla sventura.
Il “giro” inizia il  30 settembre 1911 da Roma, ove risiede, ed in poco meno di dieci mesi, come risulta dalla sue memorie,  percorre in bicicletta ed in treno quasi 18.000 chilometri. Attraversa la Francia, il Belgio, l’Olanda, la Germania, la Danimarca, la Svezia e la Norvegia, tocca  i ghiacci della Lapponia e da lì  la Russia, la Finlandia, la Polonia: tutto attestato dai visti di poliziotti, ferrovieri,  uffici postali e di altre autorità delle località attraversate, sul suo diario.
Giunto a Vienna, però, forse ritenendolo un pericoloso esempio per i nazionalismi che già insidiavano l’impero absburgico, la polizia gli ingiunge  di togliere  la fascia tricolore che porta a tracolla (e ciò sarà all’origine dell’odio poi da lui sempre  manifestato per l’Austria). Rifiuta, interrompe il viaggio  e torna a Roma il 12 giugno 1912 per un meritato riposo fino a che, spinto dal suo irrefrenabile spirito di avventura,  nel gennaio 1913 sbarca in Africa  ove si  rimette in sella per raggiungere  l’ Egitto e la Nubia, arrivando, scrive, “fin sotto l’equatore nel Sudan, poco lungi dal Congo”: ma, a questo punto,  le autorità inglesi che diffidano di quello strano personaggio, lo fermano e lo rispediscono in Italia ponendo fine alla sua avventura.
In tutti questi viaggi, per sopperire alle spese relative, Toti, da solo, come un moderno “artista di strada” o affiancandosi a carovane di  girovaghi, si esibisce in spettacoli in cui manifesta la sua inventiva ed intraprendenza eseguendo esercizi fisici (“atletismi”) e manovre con la bicicletta  che, già impegnativi per atleti normodotati, suscitano maggior  ammirazione in considerazione della sua infermità.
Al Cairo, ad esempio, ha molto successo un suo spettacolo nel quale (dice la locandina) “l’uomo che fa il giro del mondo in bicicletta con una gamba sola esegue un numero eccezionale di  pittura a rovescio e di atletismo”. A Stoccolma, per campare, dà  lezioni d’italiano, lavora come caricaturista nei teatri di varietà, e, altrove,  vende proprie fotografie, autografate, che, accanto all’inseparabile bicicletta,  evidenziano la sua prestanza fisica nonostante la mutilazione, e le medaglie (conquistate in  molte gare, fra cui l’attraversamento del Tevere a nuoto) che ornano la sua abituale  “maglia da ciclista”.
Rientrato dal viaggio in Africa, per mantenersi ed anche per contribuire alle necessità della famiglia  riprende con un certo successo, tanto da fargli meditare di aprire un laboratorio, l’attività lavorativa interrotta per il suo infrenabile desiderio di avventura.   
Del resto la fantasia non gli mancava di sicuro: aveva, tra l’altro, inventato un triciclo al quale aveva applicato, sul manubrio, un’elica che faceva girare  con una manovella azionata a mano, per agevolarne la corsa; inoltre era riuscito a brevettare una benda speciale per cavalli che, opportunamente manovrata,  copriva i loro occhi allorchè si imbizzarrivano.
Ma, ormai, la guerra incombe, ed il 24 maggio 1915 infiamma vieppiù l’animo patriottico di Enrico Toti.
Tralasciamo di occuparci della parte del libro di Lucio Fabi che esamina criticamente, talora con accenni polemici, tutta la letteratura fiorita attorno al gesto dell’eroe  Enrico Toti.
Ci limitiamo a riferire che essa è altrettanto interessante, e che l’autore affaccia ivi qualche dubbio sulle reali modalità del famoso gesto, mentre avanza l’ipotesi che esse siano state esaltate, in guerra, dalle autorità militari per incitare i combattenti ad emularlo, e, nel dopoguerra, dalla propaganda fascista per contribuire a suscitare nei giovani la mentalità guerriera in vista dell’immane tragedia che li attendeva.

                                                                                                           Giovanni Zannini

mercoledì 7 ottobre 2015

MARINAI TEDESCHI SALVATI DA SOMMERGIBILISTI ITALIANI

Nel dicembre del 1941 quattro sommergibili italiani di “Betasom”, la base navale costituita dall'Italia in Francia vicino a Bordeaux per collaborare con i tedeschi in Atlantico alla lotta contro le navi che trasportavano gli aiuti degli Stati Uniti all'Inghilterra, effettuarono una coraggiosa azione di soccorso nei confronti di marinai tedeschi in pericolo.
Il comando superiore dei sommergibili tedeschi aveva infatti disposto che quattro unità (U-A, U-68, U-124 e U-129 ) effettuassero un'azione di sorpresa nelle lontanissime acque sud-africane (mai prima battute) prospicenti Città del Capo, potendo contare durante il lungo tragitto sull'assistenza di due navi appoggio, l'incrociatore ausiliario “Atlantis” e la nave appoggio “Python” già posizionate all'altezza delle isole dell'Ascensione e di S.Elena
Ma l'affondamento da parte degli inglesi di queste due navi costrinse il comando tedesco a sospendere l'operazione progettata ed a trasformarla in azione di soccorso dei quattrocentoquindici superstiti dell'affondamento delle due navi ausiliarie.
I quattro sommergibili accorsi riuscirono a prendere a bordo i naufraghi, ma dovettero constatare che ciò aveva appesantito i battelli in modo tale da rendere difficoltosa la loro manovrabilità, soprattutto l'impossibilità di immergersi in caso di pericolo, a parte la scarsità di viveri e di acqua provocata dall'arrivo degli imprevisti ospiti.
La situazione creatasi era dunque di estremo pericolo: quattro sommergibili tedeschi alla mercè di qualsiasi nave inglese che avesse avuto la fortuna di intercettarli.
Di fronte alle richieste di aiuto che continuamente gli pervenivano, l'Ammiraglio Donitz comandante della flotta sottomarina tedesca, non avendo in Atlantico altro naviglio in grado di raggiungere velocemente la zona del disastro, chiese ed ottenne dal capitano di vascello Polacchini comandante della base italiana di Betasom a Bordeaux, di inviare sottomarini italiani in soccorso.
Ci si chiede perchè Donitz anziché far partire per l'operazione di salvataggio propri
sommergibili, preferì far intervenire quelli italiani e la risposta è che questi ultimi, di dimensioni maggiori di quelli tedeschi, disponevano, ovviamente, di spazi maggiori per caricare soccorsi per i naufraghi, e poi imbarcarli.
All'impresa furono destinati i sommergibili Finzi, Calvi, Tazzoli e Torelli alleggeriti di tutto il materiale non indispensabile ed anche di parte dell'equipaggio, il che provocò reazioni degli esclusi evidentemente ansiosi, generosamente, di partecipare all'avventura.
I sommergibili italiani accolti con comprensibile entusiasmo, riuscirono a trasbordare su quelli tedeschi 3600 razioni di viveri da guerra, 11 quintali di miglioramento vitto, 53.700 sigarette, 30 tonnellate di nafta e 2400 chilogrammi di olio lubrificante, mentre i naufraghi imbarcati furono in totale .254 con il che i sommergibili tedeschi, sgravati da tale peso, poterono riprendere regolarmente la navigazione
I sommergibili italiani avevano percorso circa 5000 miglia marittime ciascuno, il che costituì
l'azione di salvataggio a più lungo raggio di tutta la storia navale.
Rientrati alla base , i comandanti delle 4 unità italiane (De Giacomo del Torelli, Giudice del Finzi, Fecia di Cossato del Tazzoli e Olivieri del Calvi) furono decorati, in una solenne cerimonia, dall'Ammiraglio Donitz, con la Croce al Merito dell'Ordine dell'Aquila tedesca con spade di seconda classe.

Giovanni Zannini

I "SOMMERGIBILI DELL'IMPERO"

 Fu così chiamato quel gruppo di sommergibili italiani che dopo l'inizio della seconda guerra mondiale si trovò completamente isolato in Africa Orientale nelle colonie italiane del Mar Rosso dell'epoca in Africa Orientale. Una circolare del duca Amedeo d'Aosta, Vicerè dell'impero, aveva infatti previsto che “ l'Impero deve fronteggiare qualsiasi situazione facendo assegnamento soltanto sulle proprie forze e sui propri mezzi”.
Una situazione altamente drammatica che ebbe purtroppo per l'Italia il previsto esito negativo della guerra su questo fronte.
I sommergibili presenti nella base di Massaua in Eritrea all'inizio del conflitto erano i seguenti otto: Guglielmotti, Archimede , Ferraris, Perla, Galvani, Torricelli , Galilei e Macallè.
Il loro compito doveva essere, secodo il Vicerè, quello di “condurre la guerra di corsa senza economia di forze contro il traffico marittimo avversario sul Mar Rosso e sulle coste dell'Arabia e della Somalia particolarmente fra Aden e Gibuti con obbiettivo la cattura di tutti i piroscafi nemici e neutrali che si trovassero ancora a navigare su quelle rotte all'apertura delle ostilità”.
In realtà i risultati ottenuti furono assai modesti per diverse cause.
Anzitutto il clima torrido mal sopportato dagli uomini; il cattivo funzionamento, all'interno dei sommergibili, degli impianti di condizionamento dell'aria funzionanti a cloruro di metile le cui perdite provocavano gravi danni alla salute degli equipaggi; la difficoltà della navigazione in superfice a causa dei monsoni che impedivano il miglior impiego delle armi di bordo; infine la difficoltà di svolgere l'osservazione periscopica per lunghi periodi.
A ciò si aggiunga il rafforzamento della difesa navale inglese cui si aggiunsero unità alleate indiane ed australiane mentre, al contrario, gli italiani bloccati in Mar Rosso a nord dal Canale di Suez ed a sud dallo stretto di Bab-el-Mandeb non poterono ottenere alcun rinforzo.
A fronte dei modesti risultati ottenuti, le perdite italiane furono gravissime.
Due sommergibili, il Torricelli e il Galvani affondati in combattimento, il Macallè affondato per un errore di manovra del comandante, il Galilei catturato dagli inglesi a seguito di combattimento. Soffermiamoci su quest'ultimo episodio.
Avvistato dall'aviazione avversaria il 18 giugno 1940 ed attaccato con bombe di profondità che fortunatamente non recano danni, il Galilei, comandato dal capitano di corvetta Corrado Nardi si immerge alla profondità di 45 metri per dar riposo all'equipaggio ma, a causa della fuoruscita di cloruro di metile dall'impianto di condizionamento dell'aria, è costretto ad emergere ed affrontare l'impari combattimento con le numerose navi avversarie accorse. Il tiro avversario uccide il comandante e l'ufficiale in seconda e danneggia gravemente il sommergibile che, con la macchine in avaria, si arresta. Allora il guardiamarina Mazzucchi, come più alto in grado sopravvissuto, convinto che suo compito sia quello di salvare la vita ai numerosi feriti gravi a bordo del Galilei, si arrende e chiede agli inglesi un'imbarcazione di soccorso contravvenendo in tal modo all'ordine del comandante morente di evacuare ed autoaffondare il battello.
L' “equipaggio da preda” inglese salito a bordo si accorge che il sottomarino è ancora in grado di navigare e, rimesse in moto le macchine, raggiunge trionfalmente il porto di Aden con la bandiera inglese che sventola in torretta sopra quella italiana: successivamente il battello catturato è incorporato nella Royal Navy
Un episodio non glorioso per la marina italiana, tanto più che la mancata distruzione dei documenti segreti (codici e ordine di operazione) rivela agli inglesi utili informazioni per la caccia ai sottomarini italiani sopravvissuti all'impari lotta.
Ma, a fronte di questa disavventura, un fatto eroico.
Il sommergibile Galvani in navigazione è intercettato dal nemico che apre il fuoco provocando una falla dalla quale l'acqua irrompe all'interno del sottomarino che minaccia di affondare. Allora il secondo capo silurista Pietro Venuti (poi decorato con medaglia d'oro alla memoria) si chiude nel locale a lui affidato e blocca, a costo della vita, la porta stagna frenando la furia delle acque che lo uccidono:. ma il suo sacrificio è inutile perchè il sommergibile, nuovamente colpito, affonda.
Di fronte a questa drammatica situazione Supermarina (il comando supremo della marina italiana) ordina ai superstiti sommergibili Guglielmotti, Ferraris, Archimede e Perla di lasciare il Mar Rosso e di raggiungere la base navale “Betasom” che l'Italia aveva costituito in Atlantico presso Bordeaux. Un percorso di quasi 13.000 miglia nell'oceano Indiano ed in quello Atlantico, in acque burrascose, violando la caccia nemica.
Ed i “Sommergibili dell'impero”, abbandonate la torride acque del Mar Rosso iniziarono una nuova, impari lotta nelle gelide acque del' Oceano Atlantico.


                                                                                     Giovanni Zannini

sabato 26 settembre 2015

UN COLPO DI STATO ANOMALO

Nella lontana trasmissione televisiva di Porta a Porta dell'ottobre 2004 in cui Romano Mussolini ha rievocato la figura del padre Benito, sono state fatte alcune affermazioni che meritano di essere precisate.
Anzitutto, si è detto che all’interno del Gran Consiglio del Fascismo era sopravvissuto un residuo di democrazia in quanto era previsto il diritto di voto dei consiglieri che potevano quindi dissentire dal Duce.
L’affermazione è solo apparentemente esatta.
Il “Regolamento interno del Gran Consiglio del Fascismo” approvato all’unanimità dallo stesso consesso nella seduta del 9 aprile 1929 , coperto da segreto di stato per tutto il periodo fascista, sin qui inedito ed attualmente in mio possesso, prevedeva in effetti il diritto di voto dei consiglieri regolato dettagliatamente nel paragrafo “Delle adunanze” agli articoli da 11 a 17.
Ma, in realtà, tale apparente cascame di democrazia veniva brutalmente annullato dall’art.2 del Regolamento stesso che prevedeva un vero e proprio diritto di veto del Capo del Governo Presidente del Gran Consiglio il quale “ha facoltà di interrompere in ogni momento la discussione su qualsiasi questione e di sospendere la esecuzione delle deliberazioni del Gran Consiglio”.
Viene da chiedersi perchè Mussolini non si sia avvalso di tale potere nella drammatica seduta del 24 luglio 1943 in cui la maggioranza approvò l’ordine del giorno Grandi a lui sfavorevole.
Forse perché, stressato dall’esercizio di un potere assoluto protrattosi per vent’anni e reso consapevole del suo fallimento dall’invasione della Sicilia da parte degli alleati, non ebbe più la forza di affrontare i nuovi drammatici problemi che sarebbero derivati dal suo “veto” e preferì percorrere la strada in allora costituzionale aperta dal voto del Gran Consiglio per rimettersi in extremis in carreggiata sulla via di quella democrazia a suo tempo combattuta e vilipesa nella speranza di una sua uscita meno traumatica dal pantano in cui era andato a cacciarsi.
Da quanto precede emerge anche discutibile che si possa qualificare colpo di stato quanto avvenne in Italia nel luglio 1943 nel rispetto di una procedura che era stata acutamente prevista, in tempi non sospetti - 1940 – da Paolo Biscaretti di Ruffia, libero docente di diritto costituzionale nell’Università di Roma,
Nel suo “Le attribuzioni del Gran Consiglio del Fascismo” egli scriveva infatti, lucidamente, che il Gran Consiglio, “solito a collaborare in diretto contatto con il Capo del governo, entra in contatto con la Corona soltanto in quegli estremi momenti in cui è in gioco il destino della nazione quando il Sovrano, supremo arbitro della corrispondenza di un determinato indirizzo politico alle necessità più vitali della collettività nazionale, deve addivenire alla nomina di un nuovo Capo del governo”.
E’ quanto precisamente avvenne il 25 luglio: il Re, preso atto del voto del Gran Consiglio – terzo organo costituzionale, con la Corona ed il Capo del Governo , dello stato fascista - convoca Mussolini ed in base all’art 65 dello Statuto Albertino in allora ancora vigente in base al quale “Il Re nomina e revoca i suoi ministri “, gli revoca la nomina a Primo Ministro e nomina, al suo posto, Pietro Badoglio.
Senza che si sia sparato un sol colpo di pistola:
E’ dunque giusto continuare a parlare di “Colpo di stato del 25 luglio 1943?”. Giovanni Zannini









mercoledì 23 settembre 2015

LA STRETTA DI MANO

LA STRETTA DI MANO

Il col.Antonio Rigidi aveva trasferito nella sua famiglia usi e costumi in uso nella caserma da lui comandata che avevano sempre dato ottimi risultati. Quindi nessuna mollezza, vita spartana, dominio delle proprie azioni, il tutto mirante alla formazione di un vero uomo, perchè il coraggio ce l'ha chi è consapevole della funzionalità dei propri muscoli. E' infatti difficile, diceva il colonnello, che un uomo gracilino sappia affrontare le battaglie della vita, sia quelle cruente (oggi, per fortuna, meno frequenti) che quelle imposte dalla vita di ogni giorno.
Così il figlio Giuseppe era cresciuto a pane, studio e palestra, con ottimi risultati: un bel fisico, intelligenza sveglia, voglia di fare, mai ozio o dormite prolungate.
Giunse così il momento di, come si dice, entrare in società, attenendosi alle regole ancora una volta dettate dalla saggezza del padre. Quando ti presentano a qualcuno, gli aveva raccomandato, assumi un atteggiamento rispettoso ma non servile, e guardalo negli occhi cosicchè l'altro possa comprendere dal tuo sguardo chi sei e quanto vali. E, soprattutto, se ti porge la mano, attenzione a non fare come tanti che ricambiano con mani mollicce come molluschi, lasciandole, inanimate e sudaticcie , in balia dell'altro che, leggermente schifato, non vede l'ora di liberarsene.
La mano che tu affidi a chi te la richiede, raccomandava il colonnello al figlio, sia invece fresca e gradevole al tatto, in grado di suscitare immediatamente favorevoli impressioni: e, alla fine, la stretta sia franca e virile.
Così il ragazzo, ammesso come socio alla Società dei concerti, in occasione del suo primo ingresso si attenne alle istruzioni ricevute, ma commise il grave errore di pensare che la “stretta virile” suggerita dal padre, significasse “stretta vigorosa” .
La serata fu disastrosa.
Strappò un urlo di dolore alla vecchia contessa patronessa del concerto che, offerta la mano per il baciamano, se la vide agguantare e stritolare dal ragazzo. Analogo inconveniente accadde per il monsignore ospite d'onore il quale, offerta, lui pure, imprudentemente, la mano per il bacio dell'anello, se la trovò fratturata in modo scomposto dalla eccessiva devozione del giovane. L'illustre ecclesiastico con grande autocontrollo riuscì a reprimere un grido di dolore pur inviando in cuor suo i peggiori moccoli al colpevole.
Proseguendo nelle presentazioni, vittime dell'eccesso di energia del neo-socio, fu il primo violino che, trovandosi fratturato l'indice della mano sinistra, fu sostituito in fretta e furia dopo affannose ricerche; poi la soprano che pur essa colpita dalla foga del ragazzo, coraggiosamente, nonostante tutto, volle proseguire il programma incappando però in un paio di stecche; quindi il Questore che mise in allarme la scorta la quale, vedendolo comprimersi ripetutamente la mano destra, fiutò qualche misterioso attentato.
E la mattanza sarebbe proseguita se, provvidenzialmente, il neo socio non fosse incappato in un piccoletto campione di Karate che, trovatasi la mano imprigionata dalla stretta del Giuseppe prima resistette all'assalto poi passò al contrattacco con una devastante morsa che mandò in frantumi ogni osso della sua mano costringendo con il braccio al collo per un paio di mesi l'imprudente ragazzo il quale, a guarigione avvenuta, si convinse che nelle presentazioni e nei saluti, la pressione sulle mani altrui deve essere semplicemente “virile” e non, assolutamente, “vigorosa”.



Giovanni Zannini

martedì 22 settembre 2015

CHE FATICA RESTARE "NAIF"

Racconto

Ecco il testo dell'intervista che Carlo Ravetti, vincitore del prestigioso Premio Letterario “Prealpi” ha rilasciato a Nico Fanni della “Gazzetta del Nord”.
“Ravetti, una bella soddisfazione vincere, a soli 25 anni, il “Prealpi”, bruciando sul filo autori di grido già affermati. A quale modello letterario si ispira? Quale l'autore che ha maggiormente influito sulla Sua formazione?”
“Non seguo alcun modello letterario né mi sono mai ispirato ad alcun autore. Anzi, Le dirò, ho sempre evitato con cura la lettura di opere di quelli che vanno per la maggiore proprio per proteggere la mia vena originaria da ogni pericolo d'inquinamento. Ed oggi posso dire di essere un “unicum” nel panorama letterario non solo nazionale ma anche mondiale perchè nessuno, prima di me, ha scritto come scrivo io. Anche se non escludo che, dopo di me, possano venire altri che, per la mania di avere dei modelli, si mettano ad imitarmi, definendosi magari “ravettiani”.
“Ma come è possibile? Una qualche influenza l'avranno pure esercitata su di Lei gli autori che, per arrivare alla laurea, ha dovuto, obbligatoriamente, leggere!”.
“Le dirò, la mia è stata una battaglia dura, ma l'ho vinta, ed i risultati confermano che è stato bene averla combattuta. Senta, Lei ha mai preso l'olio di ricino? Io ricordo ancora quando, da bambino, mi toccava talora ingurgitare quella disgustosa medicina oggi, per fortuna, quasi del tutto negletta.
Ricordo lo sforzo immane per far sì che il liquido nauseabondo passasse per il cavo orale senza che le papille gustative entrassero in azione e ne rivelassero l'orrendo sapore. Era una tecnica che con il tempo avevo perfezionata cosicchè l'intruglio scorreva dalla bocca nello stomaco leggero,  insapore, evitandomi nausea e disgusto.
Ebbene, la mia carriera scolastica è stata una lunga, continua lotta contro tutto quanto potesse attentare alla mia originalità, alla mia innata purezza d'espressione: ed è così che ho potuto restare ed essere  l'unico, intatto, scrittore “naif” della letteratura italiana contemporanea”.
“Ma se Lei non ha fatto altro  che “schifare” i maestri della letteratura, come ha fatto a laurearsi in lettere, per giunta, a pieni voti?”.
“Glielo ripeto, è stata dura. Una battaglia sottile fatta di sotterfugi, di finzioni, di equivoci. I miei temi ottenevano i voti migliori, erano letti nelle classi a mo' d'esempio suscitando l'ammirato stupore degli insegnanti  i quali non riuscivano a capire che li stavo prendendo in giro  fingendo ammirazione per ciò che invece detestavo. Ed io, nel mio intimo, soffocavo le risa perchè tutto quanto scrivevo era un falso, non era ciò che sentivo, ma quanto dovevo scrivere per prendere un bel voto: se, infatti, avessi scritto quanto in effetti pensavo in cuor mio, mi avrebbero cacciato. Se poi avessi fatto i miei temi con lo stesso stile con cui ho vinto il “Prealpi”, la laurea me la sarei sognata”.
“Mi chiarisca meglio il discorso dell'olio di ricino”.
“Come Le dicevo, ero riuscito ad ingurgitarlo facendolo scorrere abilmente in gola senza che lasciasse traccia alcuna del suo passaggio. Allo stesso modo, ho saputo sorbirmi anni ed anni di Omero, di Dante, di Ariosto, di Boccaccio, di Tasso, Petrarca, Manzoni, D'Annunzio, Pascoli, Carducci e così via, senza che nulla di essi mi rimanesse appiccicato al cervello, senza che essi riuscissero a turbare la mia vena, ad influenzare il mio stile, ad inquinare la mia originalità. Insomma, caro Fanni, per non essere plagiato: ed ancor oggi evito con cura tutto  quanto sa di letteratura che  considero un attentato alla mia autenticità”.
“Ma qualcosa leggerà pure...”.
“Si, i fumetti: quelli, almeno, non inquinano”.
     

UNA TERZA VIA PER I RIFORNIMENTI AGLI INGLESI IN EGITTO

Dalla “Storia della seconda guerra mondiale” di Churchill emerge che due erano le vie possibili per far arrivare i rifornimenti agli inglesi impegnati in Africa settentrionale contro gli italiani.
La prima, l'attraversamento di tutto il mar Mediterraneo partendo da Gibilterra, da ovest a est, era considerata estremanente pericolosa per il predominio in quel periodo della Marina Militare italiana nel Mediterraneo dopo la resa della Francia che aveva resa inutilizzabile la sua potente flotta relegandola inattiva nei porti.
Si ricorse allora ad una seconda via, sicura ma estremamente più lunga: la rotta verso il sud in Atlantico con il superamento del Capo di buona speranza e la successiva risalita del continente africano nell'Oceano Indiano fino in Egitto.
Ma stante l'eccessiva lunghezza e la necessità di ridurre i lunghi tempi conseguenti, gli inglesi studiarono una terza via a ciò dedicata: una specie di scorciatoia della rotta del Capo che partiva da circa la metà del continente africano evitando in tal modo di doverlo aggirare tutto.
Per sovvenire alla pressante richiesta di aerei proveniente dall'Egitto, essi costituirono quindi una base presso il porto di Takoradi nel Ghana ove gli aerei pervenuti via mare smontati ed in casse erano riassemblati e fatti proseguire per il nord.
Partiti da Takoradi gli aerei facevano tappa nel nord della Nigeria a Kano, quindi proseguivano per Khartum nel Sudan per poi raggiungere con un ultimo balzo il Cairo.
La stessa rotta era seguita da altri velivoli sbarcati da portaerei inglesi a Takoradi e fatti proseguire per il nord.
Nel periodo che va dal 21 agosto 1940 alla fine di quell'anno 107 aerei provenienti da Takoradi erano arrivati in Egitto.
Ma le difficoltà degli inglesi per realizzare questa terza via non erano mancate.
Anzitutto, gli specialisti inviati in gran fretta per realizzare officine, capannoni e le relative attrezzature, nonché, lungo la rotta verso il nord-Africa, le stazioni di rifornimento e di riposo per i piloti, furono tormentati dal clima torrido e dalla malaria.
Oltre a ciò, gli aerei giungevano sul luogo di impiego, in Egitto, “debilitati” dal lungo volo di 3700 miglia prevalentemente sopra varie distese desertiche compromettendo la loro funzionalità bellica mentre, scrive Churchill, “il numero di aeroplani inservibili, in attesa di parti di ricambio lungo la rotta, andava sempre più aumentando”.
Si ritiene pertanto che allorchè gli inglesi aumentarono la loro potenza navale nel Mediterraneo con la conseguente possibilità di far pervenire per questa via i rifornimenti ai loro militari in Egitto, questa terza via, assai difficoltosa, si potrebbe dire di fortuna, sia stata gradualmente abbandonata.
Giovanni Zannini


lunedì 21 settembre 2015

LA LUNGA STRADA DEI RIFORNIMENTI AGLI INGLESI IN EGITTO

E' sempre interessante osservare la seconda guerra mondiale vista dalla parte dei nemici dell'Italia, in particolare con gli occhi di Winston Churchill, uno dei principali protagonisti di quel conflitto, che nella sua monumentale opera “La seconda guerra mondiale” (che gli valse il Premio Oscar per la letteratura nel 1953) ne rievoca le vicende.
In particolare, val la pena rievocare quelle avvenute sul fronte dell'Africa settentrionale subito dopo l'entrata in guerra dell'Italia, il 10 giugno 940, contro la Francia e Inghilterra, quali raccontati dall'autore, senza commento alcuno da parte nostra sulla loro credibilità peraltro alta attestata dal riconoscimento dell'autorevole consesso internazionale.
Secondo l'autore al momento dell'entrata in guerra l'Italia disponeva di una quindicina di divisioni con 215.000 uomini, contro una forza inglese di circa 50.000 uomini destinati a difendere l'Egitto dalla prevista offensiva italiana; oltre a ciò, gli italiani disponevano della superiorità aerea.
Forte di questa superiorità, Mussolini vorrebbe passare subito all'attacco per conquistare l'Egitto, ma Graziani, comandante in Africa settentrionale, tergiversa: lo preoccupano i rifornimenti (acqua soprattutto!) una volta allontanatosi dalle basi di partenza in Cirenaica. Mussolini critica aspramente Graziani: “Non bisogna affidare incarichi a coloro che non hanno almeno un grado da conquistare. Graziani ne ha troppi da perdere” si legge nel diario di Ciano riportato da Churchill.
Alla fine, però, “molto di controvoglia” (scrive Ciano) il generale cede ed il 13 settembre ordina l'avanzata, il confine egiziano è superato, Sidi Barrani conquistata.
Il successo iniziale rallegra Mussolini che se ne attribuisce il merito. Gli inglesi arretrano combattendo e, abbandonata Sollum, si concentrano su Marsa Matruh preparandosi ad una battaglia disperata per arrestare le sovrastanti forze italiane: ma, insperatamente, Graziani si ferma sulle posizioni conquistate.
Gli inglesi, prevedendo che prima o poi gli italiani proseguiranno nell'avanzata che avrebbe fatalmente portato, data la sproporzione delle forze in campo, alla perdita dell'Egitto, chiedono con urgenza a Londra l'invio di rinforzi. Nonostante il pericolo sempre incombente di una invasione tedesca sull'isola britannica, il Gabinetto di Guerra inglese prende la coraggiosa decisione di ridurre le difese metropolitane a favore del fronte nordafricano inviando colà quasi la metà dei propri migliori carri armati destinati alla difesa della madrepatria.
Presa questa audace decisione, si pone il problema del loro trasporto dall'Inghilterra in Africa ed i punti di vista divergono.
L'Ammiragliato è fermamente deciso a far pervenire gli aiuti per la cosiddetta “rotta del Capo”, ossia circumnavigando l'intero continente africano, ritenendo troppo pericoloso l'attraversamento dell'intero mare Mediterraneo (ove gli italiani, dopo la resa dei francesi e quindi della loro potente flotta, sono divenuti la forza maggiore) da occidente a oriente.
Churchill è di parere opposto ed insiste affinchè i preziosi carri armati giungano in Egitto attraverso la “scorciatoia” del Mare Mediterraneo: il pericolo che gli italiani riprendano l'offensiva verso il
Delta egiziano è sempre incombente, e se decidessero di farlo ora la possibilità di fermarli, data l'attuale evidente stato d'inferiorità sarebbe nulla. Egli ritiene dunque che valga la pena di correre il rischio della rotta del Mediterraneo di fronte a quello assai maggiore di una completa sconfitta in Africa settentrionale che avrebbe portato gli italiani a conquistare l'intero Egitto.
Churchill sosteneva che se il convoglio con i preziosi aiuti avesse percorso la “scorciatoia” del Mediterraneo sarebbe giunto al porto di Alessandria verso il 15 settembre: se, invece, avesse intrapreso la “rotta del Capo”, sarebbe arrivato circa tre settimane dopo.
Senza contare che nel frattempo, inutilizzati in mare, essi non avrebbe giovato né alla difesa dell'Inghilterra né agli inglesi asserragliati a Marsa Matruh.
Ma l'Ammiragliato inglese è irremovibile ed il convoglio con il prezioso carico si avvia a tutta forza sulla lunga rotta del Capo di Buona Speranza.
Giungerà in tempo prima che Graziani decida di riprendere la marcia che avrebbe quasi certamente portato alla conquista dell'intero Egitto?
Graziani non si muove: forse, si chiede Churchill, attende l'arrivo di forze tedesche:”..ed in tal caso i tedeschi afferreranno con mani sempre più salde la macchina bellica italiana, ed allora il quadro sarà ben diverso”. Una dura considerazione che a noi italiani non fa certo piacere...
Per cui, arrivati finalmente i rinforzi dalla rotta del Capo, gli inglesi così rinvigoriti, invece di attendere l'iniziativa avversaria impegnandosi in una battaglia esclusivamente difensiva per poi contrattaccare, decidono di prevenire le mosse avversarie ed il 6 dicembre 1940, da Marsa Matruh passano essi stessi all'attacco con un esito devastante per gli italiani.
Cadono Sidi Barrani, Sollum, Bardia ed il 22 gennaio 1941 gli inglesi conquistano Tobruch ove arrestano la vittoriosa offensiva.
Scrive Churchill:”La grande armata italiana che aveva parzialmente invaso e sperato di conquistare l'Egitto, non esisteva più come forza militare e soltanto le imperiose difficoltà della distanza e dei rifornimenti (le stesse che avevano indotto gli italiani ad interrompere la propria avanzata a Sidi Barrani – n.d.a.) ostacolavano il proseguimento indefinito dell'avanzata britannica a occidente”.

Fin qui Churchill, e noi ci chiediamo, col senno di poi, quale sarebbe stato l'esito della battaglia in Africa settentrionale se Graziani fosse passato all'attacco prima dell'arrivo dei rinforzi dalla “rotta del Capo”.
Noi ora apprendiamo da Churchill lo stato di grave inferiorità in cui si trovavano gli inglesi di fronte all'offensiva italiana del settembre 1940 e possiamo dedurne che il suo proseguimento, ove Graziani si fosse assicurato i rifornimenti prima di partire all'attacco come impostogli da Mussolini, avrebbe sicuramente portato alla conquista dell' Egitto con conseguenze inimmaginabili sulla sorte dell'intero conflitto.
Da tutto quanto sopra emerge che non si può considerare, come molti affermano, il gen.Graziani responsabile dell'accaduto.
Al momento dell'entrata in guerra dell'Italia egli aveva chiaramente dichiarato di non essere ancora pronto a scatenare un'offensiva contro gli inglesi per la conquista dell'Egitto: ed è pensabile che egli si stesse preoccupando di risolvere i difficilissimi problemi relativi ai rifornimenti (acqua, soprattutto!) in terra africana, prima di farlo.
Fu invece Mussolini a spingerlo, anche con minacce (diario di Ciano: “... se non attacca per lunedì sarà sostituito”) che lo costrinsero ad obbedire con le note conseguenze.
Ecco un ulteriore errore da addebitare allo stratega Mussolini.


                                                                                                      Giovanni Zannini

venerdì 11 settembre 2015

LA PETACCI FU VIOLENTATA?

L'ottima ricostruzione delle “Ultime ore di Mussolini” scritta dal direttore Marco Delpino sul recente numero di agosto della rivista “Bacherontius” offre l'occasione per affrontare un argomento assai delicato ed estremamente imbarazzante che tratteremo nella maniera meno scabrosa possibile.
Riguarda il dubbio già avanzato da molti circa una possibile violenza sessuale subita dall'amante di Mussolini nelle ore precedenti la sua uccisione.
Da parte sua Delpino scrive che Giorgio Pisanò, il noto storico di parte fascista gli “”...raccontò d'aver successivamente scoperto...che Claretta Petacci sarebbe stata violentata da alcuni partigiani tra cui un tal “Capitano Roma”...””.
Così prosegue la ricostruzione di Pisanò:””...Il duce viene trascinato con forza giù dalle scale e portato nel cortile dei De Maria. La Petacci, che nel frattempo s'è affacciata alla finestra d'una stanza, grida:”Aiuto! Aiutateci!”, ma in quello stesso istante qualcuno l'afferra con forza facendola rientrare””.
Le invocazioni disperate di aiuto della donna sono confermate da una testimone, Dorina Mazzola, all'epoca diciannovenne che dalla propria casa distante circa 100 metri da quella dei De Maria che aveva ospitato Mussolini e la sua amante, riferì del trambusto osservato nella casa vicina.
Ma cosa accadde veramente a quella donna che invocava disperatamente aiuto?
L'ipotesi che nella camera in cui la signora Petacci e Mussolini avevano trascorso la notte si sia verificato un atto di violenza sessuale contro la donna, è a tutt'oggi dubbia e oggetto di dibattito.
Tenuto conto della drammaticità del momento che lasciava la donna in balia di uomini eccitati dalla consapevolezza del momento storico che stavano vivendo, carichi di odio verso il duce e colei che per anni ne era stata l'amante può fondare l'ipotesi che il fatto vergognoso si sia effettivamente verificato.
Ma il dubbio può essere superato da un particolare macabro che potrebbe portare ad avallare l'ipotesi della violenza.
Piazzale Loreto: è in corso l'episodio che tanto ha nuociuto alla nobiltà della Resistenza antifascista.
I cadaveri di Mussolini, della signora Petacci e di altri gerarchi giacciono sul piazzale antistante un vecchio distributore di benzina in disuso.
La folla imbestialita insulta i cadaveri, li copre di sputi, li calpesta, li prende a calci.
Per evitare che essi siano ridotti in poltiglia, si decide di appenderli per le gambe, a testa in giù, alla struttura del vecchio distributore, così la gente potrà continuare a vederli e insultarli, ma si eviterà la completa distruzione dei corpi.
A questo punto la gonna dell'abito della signora Petacci si rovescia lasciando scoperto il pube privo di indumento intimo.
Per por fine alla macabra esibizione, e per eliminare almeno questo sconcio, la mano pietosa di un frate unisce con uno spillone i lembi della gonna coprendo in tal modo l'addome della donna.
A questo punto la domanda: è possibile che una signora, vestendosi, ometta di indossare l'indumento intimo destinato a coprire la parte inferiore del proprio corpo? E' questo un movimento istintivo che, pur nelle tragiche circostanze che stava vivendo, con quasi assoluta certezza la signora Petacci, lasciato il letto, ha effettuato.
E allora? Come si spiega che l'esposizione di Piazzale Loreto ne abbia attestato l'assenza?
Non può essere questa la prova che qualcuno, imbestialito dalla vita del guerrigliero, eccitato dall'insperata fortuna della cattura di un uomo tristemente famoso, e, perchè no, dall'indubbia avvenenza della donna, abbia strappato il delicato indumento per compiere l'abominevole gesto?
Non si pretende certamente di aver sciolto il dubbio che la signora Petacci, prima di morire, sia stata vittima di violenza sessuale.
Ma la circostanza sopra evidenziata, basata su di un elemento obbiettivo che supera ipotesi solo verbalmente affermate da Giorgio Pisanò, pare propendere per l'ipotesi che la deprecabile violenza, si sia, in effetti, verificata. Giovanni Zannini



mercoledì 9 settembre 2015

LA PITTURA GENERATIVA DI MAURIZIO TURLON

Il progetto generativo portato avanti dal Politecnico di Milano nasce dalla volontà di indagare ed ampliare i campi della creatività umana non conseguibili ai giorni nostri senza l'utilizzo di strumenti informatici.
Questo progetto comprende l'arte generativa che è un'espressione creativa necessariamente mediata da un codice (software generativo) risultato di un processo a cui contribuiscono, con diversi gradi di autonomia, artista e sistemi non umani che si propongono di rappresentare (con forme, colori, suoni...) strutture complesse originate da differenti esperienze formative. In tal modo è possibile realizzare una delle modalità espressive più adatte per coniugare il rapporto fra arte e scienza.
Maurizio Turlon padovano laureato in fisica all'Università patavina, già insegnante di matematica e fisica nei licei cittadini, è l'alfiere a Padova di questo tipo di pittura che consente di creare e visualizzare forme definite in spazi di varie dimensioni.
Per rendere esplicita e comprensiva la pittura generativa egli parte dalla considerazione che l'arte e la scienza che originariamente convivevano utilizzando gli stessi principi e le stesse regole (ricordiamo personaggi famosi contemporaneamente artisti e scienziati) si sono nel tempo divaricati, ma solo apparentemente. Si pensi, per fare un esempio, ad un albero che dietro la triplicità della chioma, del tronco e delle radici presenta caratteristiche equivalenti alle strutture di un fiume (fonte, percorso, foce) convergenti con le risultanze ispirate dal concetto fisico-matematico detto “dipolo”.
Da qui, utilizzando migliaia di programmi frutto di una vita di studio e di passione per le discipline scientifiche, Turlon ha trovato il modo di esprimere la propria creatività agendo sulla sua magica tastiera così come il comune pittore creando fantastiche composizioni che, associate a impulsi fisico sonori, emettono suoni riconducibili ai più vari generi musicali.
Nella recente mostra “Momart Art Exibition” presso l'ex macello di via Cornaro, Turlon ha presentato sue opere stampate su tela con forme e colori sin qui mai realizzati che hanno suscitato l'interesse dei visitatori: un viaggio intrigante tra vista, udito e mente.


Giovanni Zannini  

sabato 6 giugno 2015

QUANDO LE IDEE COINCIDONO

Fa piacere constatare, talora, la coincidenza di idee con persone che non si sono mai conosciute, tanto più se si tratti di persone note e stimate.
Mi offre l'occasione di questa considerazione la lettura di un articolo apparso su “Avvenire” del 21 maggio scorso dal titolo “Destro-Pesce e l'ipotesi dei Vangeli costruiti su fonti inaffidabili” firmato da Mario Iannaccone.
L'autore recensisce infatti l'ultimo libro (“Il racconto e la scrittura. Introduzione alla lettura dei Vangeli” – Ed. Carocci, pagg 176, € 15 -) degli autori Adriana Destro e Mauro Pesce che discutono sulle “varie fonti dalle quali, presumibilmente, gli evangelisti si sarebbero procurati informazioni sulla vita del loro maestro”.
Argomento trattato nel mio “Le vere ultime parole di Gesù Cristo” pubblicato su questo Blog nel novembre 2011 nel quale parlavo, appunto, delle “fonti” dalle quale gli Evangelisti, veri giornalisti dell'epoca, hanno tratto le loro “informazioni” sulla vita e morte di Gesù.
In particolare appuntavo la mia indagine su di un particolare di grande importanza, la diversità delle ultime parole attribuite dai 4 Evangelisti a Cristo prima della Sua morte in croce.
Matteo: “”...Verso l'ora nona Gesù gridò ad alta voce “Elì,Elì, lamà sabactanì?” (Dio mio, Dio mio, perchè mi hai abbandonato?)
Marco: fornisce la medesima versione assai poco credibile quando suona come impensabile, velato rimprovero di Cristo al Padre, e, oltrettutto, ce lo mostra dimentico di quanto Egli stesso aveva chiaramente pronosticato sulla sua morte.
Luca:”Padre, nella tue mani raccomando lo spirito mio!”
Giovanni:”Tutto è compiuto!”.
E concludevo che le versione più veritiere sono quella di Luca e, soprattutto, quella di Giovanni che fu testimone “de visu” della morte del suo Maestro, mentre Matteo e Marco non poterono che riferire quanto appreso da altri.
Chiedendomi, nel contempo, perchè nella liturgia celebrativa pasquale non si dia spazio esclusivamente al Vangelo di Giovanni: forse perchè la frase drammaticamente incomprensibile contenuta in quello di Matteo e di Marco accentua la commozione e l'intensità della partecipazione del popolo di Dio al sacro racconto.
Ma altri elementi ( le ripetute traduzioni da una lingua all'altra, le interpretazioni dei vari autori e, perchè no, la distrazione o la sonnolenza di qualche copista) possono aver influito a rendere talora incomprensibili, o contraddittorie la lettura di qualche sacro testo.
Come, sempre restando nell'ambito della crocifissione di Cristo, stupisce la frase che, secondo Luca, Egli avrebbe rivolto al buon ladrone che aveva invocato la sua misericordia:”Oggi sarai con me nel paradiso”.
Qui, evidentemente, vi è un “oggi” di troppo che Cristo non può aver pronunciato ben sapendo che la sua ascesa al cielo, al paradiso, sarebbe avvenuta 40 giorni dopo la Sua resurrezione – durante i quali apparve ripetutamente ai suoi apostoli - e non subito, dopo la sua morte.



Padova 23.5.2015 Giovanni Zannini

lettera a direttore de LA7 su "Announo"

                                                                                Padova 6.6.2015




Alla Gentile Signora
DANIELA COMIRATO
Direttore de LA SETTE
Via della Pineta Sacchetti n.229


00168 - ROMA




Desidero esprimere il mio più vivo rincrescimento per quanto avvenuto nel corso della trasmissione ANNOUNO andata in onda pochi giorni fa, con la conduzione di una giovane ed inesperta ragazza.
Uno dei partecipanti, il sig.Busi, si è vantato, in occasione di riunioni partecipate da donne, di invitarle (lo scrivo con grande imbarazzo) ad “andare in culo” per evitare l'eccesso di popolazione che, secondo lui, affligge l'Italia ed il mondo.
Ora non discuto sull'opportunità di invitare personaggi come il sig.Busi, sicuramente destinati a suscitare, come in questo caso, acceso clamore (ma forse proprio per questo, purtroppo, invitati...) ma considero scandaloso che la giovane conduttrice, aspirante divetta chiaramente incapace di condurre la trasmissione, non sia intervenuta per censurare, in difesa dei molti ascoltatori che rifuggono dal turpiloquio, la volgare espressione del sig.Busi degna di essere pronunciata in una bettola della suburra ma non certamente negli studi di un'emittente che ho sin qui considerato seria e responsabile.
Sono sicuro che il suo “maestro” Michele Santoro, che pur nella foga polemica - che non ho sempre condiviso - ha sempre mantenuto toni civili rifuggendo da basse volgarità, l'avrebbe fatto.
Mi auguro che quanto accaduto sia solo un incidente di percorso che non mi precluda di proseguire l'ascolto della Sua emittente.
La prego gradire i miei migliori saluti.


Giovanni Zannini




Via Ferri n.6 – 35126 – Padova – TLFAX 049/757890


BLOG: “informastoria.globspot.com”




martedì 5 maggio 2015

Cavalli nella 1a Guerra Mondiale - OTTIMI GLI AMERICANI

Si legge su “L'Intervento” (Casa Editrice A.Mondadori – 1930) scritto da Antonio Salandra - Presidente del Consiglio dei Ministri italiano dal 1914 al 1916 e artefice dell'entrata in guerra dell'Italia nel 1915 a fianco delle potenze dell'Intesa (Francia, Inghilterra, Russia) - che fra i molteplici problemi che affliggevano lo Stato Maggiore dell'esercito italiano vi fu anche quello della scarsità di cavalli addetti al traino dei pezzi d'artiglieria: infatti, scrive, “all'interno (dell'Italia – n.d.a.) era assolutamente irrisorio il numero di cavalli adatti al traino dell'artiglieria campale”.
Che fare? Per risolvere il grave problema l'Italia si rivolse allora al mercato americano molto fiorente perché “il cavallo americano del nord si dimostrò resistente agli strapazzi, di ottima indole e vigorosissimo”.
Ma neppure questo fu facile perché anche la Francia, l'Inghilterra e la stessa Germania (evidentemente anch'esse prive di buoni cavalli da tiro pesante) già si contendevano quegli animali: comunque, una volta trovato il canale giusto, si pose il problema altrettanto importante di trasferirli dall'America in Italia. I primi viaggi su normali navi da carico furono disastrosi perché “i cavalli che morivano nella traversata erano la maggioranza” e perché mancava “personale pratico in tale materia” (ve l'immaginate il carico e lo scarico dalle navi di centinaia di animali atterriti e scalcianti?), fino a che, dimostrando gran fiuto commerciale, gli Stati Uniti crearono navi apposite, vere e proprie stalle galleggianti, che consentirono di trasportare i cavalli sani e salvi in Italia. Anche se Salandra affaccia il dubbio che molti ostacoli all'importazione in Italia dei cavalli americani fossero stati creati da chi voleva dissuadere l'Italia dall'entrare in guerra.
Comunque, al dilà del suo valore “militare”, l'importazione di cavalli dall'America si risolse per l'Italia in un buon affare perché quelli che scamparono alla fatica ed alle bombe (le foto di guerra sono piene anche dei loro cadaveri) “a guerra finita” scrive Salandra, “furono venduti in paese a prezzi superiori notevolmente a quelli di acquisto”.
E per restare in tema di equini che aiutarono i nostri soldati nella Grande Guerra, Salandra afferma che, invece, per i muli preziosi compagni dei nostri Alpini nella guerra di montagna, non vi furono problemi perché “se ne reclutarono di ottimi nelle province meridionali della penisola ed in Sicilia per mezzo di apposite commissioni di acquisto”.
Giovanni Zannini

da Padova 24-3-2015

martedì 28 aprile 2015

LA PRIMA "CAMPAGNA" DEGLI EBREI IN PALESTINA

La conquista della Palestina da parte del popolo ebreo è esaltato nella Bibbia come episodio glorioso e segno della benevolenza divina.
Eppure si trattò di una grave ingiustizia: la lotta del popolo ebreo per impadronirsi di territori abitati da altri popoli considerati nemici da sconfiggere e sterminare per far posto al loro.
Le pagine della Bibbia grondano di elogi per le battaglie sostenute dagli ebrei e da espressioni di ammirazione per il loro coraggio nello sconfiggere i nemici, in realtà popoli che cercavano disperatamente di salvare la propria libertà ed il diritto di esistere nella loro terra.
Val dunque la pena di seguire quella che si potrebbe chiamare la “Prima Campagna di Palestina” combattuta secoli fa dagli ebrei provenienti dall'Egitto per impadronirsi della terra promessa loro dal Signore.
Dopo la lunga marcia nel deserto guidati da Mosè in continuo contatto con il Signore che li guida dall'alto, essi raggiungono finalmente il fiume Giordano: ma qui Mosè, dopo aver avvistato da lontano la meta tanto agognata, muore.
Allora, il comando del popolo e dell'esercito che lo accompagna passa a Giosuè ( figlio di Nun, ministro di Mosè) ed il Signore lo invita a passare il fiume.
Prima, però, Giosué manda avanti due esploratori per rendersi conto di come stanno le cose al dilà del fiume, e quelli trovano accoglienza presso Raab, “una donna” dice la Bibbia, “di malaffare”, ma molto generosa, presso la quale “riposarono” per tutto il tempo della loro missione, ragione per cui quale compenso per l'ospitalità offerta ottiene l'assicurazione che non avrebbe avuto alcuna seccatura una volta che fossero arrivati gli ebrei vincitori.
Intanto i due esploratori, felicemente rientrati, riferiscono a Giosué che tutti gli abitanti al dilà del fiume “erano abbattuti dallo spavento” dovuto alla fama di grandi guerrieri di cui godevano gli ebrei che stavano per attaccarli.
Tranquillizzato, Giosué si prepara all'attraversamento, ma il fiume è ingrossato dallo scioglimento delle nevi del monte Ermom, per cui l'impresa é oltremodo difficoltosa: che fare?
Ci pensa il Signore a trarlo d'impaccio. Memore della strategia usata sul mar Rosso per far fuggire gli ebrei dall'Egitto, utilizza lo stesso metodo per far loro attraversare il Giordano. Per questo incarica i sacerdoti che portano “l'arca dell'alleanza” di metter piede nell'acqua del Giordano, ed ecco che “le acque che scendevano di sopra si fermarono in un sol luogo alzandosi come un monte (una vera e propria montagna d'acqua - n.d.a.)...e quelle che andavano in giù seguitarono verso il mare del deserto (detto ora Mar Morto) e sparirono del tutto”. In tal modo “tutto il popolo passò per il letto disseccato del Giordano” assieme a 40.000 dei 100.580 soldati che formavano l'esercito degli ebrei, mentre gli altri 60.580 restarono a difendere da eventuali aggressioni la Transgiordania già conquistata.
Da parte sua il Giordano, appena i sacerdoti con l'arca dell'alleanza furono usciti dal fondo disseccato, riprese il suo corso regolare.
Finalmente, la terra promessa è a portata di mano! All'attacco, dunque: primo obbiettivo, la città di Gerico.
Per la verità, non é gran fatica conquistarla, perchè grazie all'arca dell'alleanza che vi aveva fatto molti giri attorno, alle potenti trombe di robusti sacerdoti ed alle grida altissime di tutti gli ebrei come ordinato da Giosué, “le mura caddero subito” ed allora gli ebrei “uccisero tutto quello che vi era, dall'uomo alla donna, dal fanciullo al vecchio. Misero a fil di spada anche i buoi , le pecore, gli asini...e diedero fuoco alla città ed a tutto quello che vi era dentro eccettuato l'oro, l'argento, i vasi di rame e di ferro che consacrarono all'erario del Signore.” .
Ma i vincitori mantengono la parola, e salvano la vita a “Raab meretrice con tutti quelli che sono in casa con lei ...perchè essa nascose gli esploratori da noi mandati”. Non solo, ma apprendiamo pure, da una nota in calce alla suddetta Bibbia, che “la famiglia di Raab verrà ammessa a far parte del popolo d'Israele” e che “é ritenuta dai Padri come una figura della Chiesa”.
L'offensiva procede. Da Galgala, che é la base operativa ove ha posto il suo quartier generale, Giosué punta sulla città di Ai per la quale il Signore ordina di fare tutto quello che era stato fatto alla città ed al re di Gerico: unica eccezione, questa volta, non dovevano accoppare gli animali.
E così avviene: tutti i 12.000 abitanti di AI, fra donne e uomini, sono uccisi e, in più, il re sconfitto è crocifisso ed a sera il cadavere é gettato all'ingresso della città e ricoperto da un mucchio di sassi
E' la volta di Gabaon i cui abitanti, atterriti dalla fama guerriera degli ebrei, si arrendono ed anzi si alleano con loro suscitando la reazione dei re di Ebron, di Ierimot, di Lachis e di Eglon che muovono contro di loro per punirli. Ma anche questa coalizione viene sonoramente battuta dagli ebrei che riducono a pezzi gli avversari, e quelli che scampano sono fatti fuori dalle pietre che il Signore scaglia dal cielo su di loro.
I cinque re sono scoperti in una caverna, impiccati e poi sepolti proprio nella caverna nella quale avevano tentato di salvarsi.
La “Campagna” militare di Giosué prosegue vittoriosa, tutti i 31 re , elencati ordinatamente come in un moderno bollettino di vittoria, sono sconfitti e uccisi, ed alla fine tutta la Palestina è in mano agli ebrei.
Missione compiuta.
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Abbiamo riassunto il “Libro di Giosué” (scritto, secondo la Bibbia dei Paolini Ed. 1945, non prima del regno di Davide - 1012/972 - e non dopo l'epoca del re ACAB – 878/857 -) che narra la storia dell'occupazione della Palestina da parte degli ebrei sotto la direzione prima di Mosé e poi di Giosué, sempre guidati dall'alto dal Signore.
Dalla sua lettura abbiamo appreso interessanti informazioni che val la pena commentare.
Anzitutto: il fatto straordinario delle acque del Mar Rosso che si aprono per far passare gli ebrei in fuga dall'Egitto, si verifica tal quale con il fiume Giordano le cui acque sono bloccate fino a che gli ebrei son passati sul suo letto disseccato per conquistare la “terra promessa”. Forse pochi lo sapevano.
Poi, che lo stato d'Israele, il popolo prediletto del Signore, è sorto sul genocidio degli abitanti di Gerico, Ai, Maceda, Lebna, Lachis, Gazer, Eglon, Ebron, Dabir, Asedot e di molte altre città, tutti passati a fil di spada assieme ai loro re “senza lasciarvi alcuno” e uccidendo “tutto quello che poteva respirare”.
Fortunati i cittadini di Gabaon che salvarono la pelle impegnandosi però per tutta la vita a “tagliar legna e portar acqua...a servizio di tutto il popolo” d'Israele.
Circa la famosa frase pronunciata da Giosué “fermati o sole!” - che così grande importanza ebbe nel processo a Galileo Galilei – riteniamo sia stata motivata dal fatto che con il permanere più a lungo della luce solare, la mattanza degli Amorrei sarebbe riuscita meglio.
Infine, non può non stupire quel Signore che, in continuo contatto verbale con loro, guida dal cielo l'invasione degli ebrei in Palestina proteggendoli ed incitandoli ad agire con feroce determinazone.
S.Agostino, di fronte a passi della Bibbia che suscitano perplessità, dice: ”Qui, o c'è uno sbaglio di copista, o il traduttore non ha reso bene l'originale, o io non capisco”.
E noi siamo di quelli che non capiscono perchè un Signore che dovrebbe essere saggio, giusto, buono e misericordioso, abbia potuto appoggiare e guidare un'impresa così violenta e criminale che rammemora altre invasioni ed altri eccidi avvenuti tanti secoli dopo, giustamente condannati dal mondo intero.

Padova 25-4-2015                                                                                                  Giovanni Zannini


mercoledì 22 aprile 2015

SOMMERGIBILI PORTAEREI GIAPPONESI NELLA II GUERRA MONDIALE

L’innegabile ingegno dei tecnici giapponesi si manifestò nella 2° Guerra Mondiale anche con la costruzione di sommergibili che costituirono il mezzo più sofisticato prima dell’avvento dei sommergibili nucleari: i sommergibili-portaerei.
Si trattava di due categorie di grandi sommergibili “Sen Toku” aventi caratteristiche assai simili (dislocamento a nave vacante tonn.2.919, a pieno carico tonn.4150, l’una; tonn.2.589/3.654 l’altra; entrambe lunghezza oltre m.110 , equipaggio oltre 100 uomini, armati di un cannone, mitragliere anti-aeree, 6 tubi lanciasiluri - veri e propri incrociatori subacquei ) sui quali al centro del ponte veniva collocato un “hangar” capace di contenere la carlinga di un piccolo idrovolante con le ali ripiegabili.
Sopra di esso veniva installata la consueta torretta di comando: una struttura, quindi, che si elevava notevolmente in altezza e che dava certamente l’impressione di una torre navigante.
Giunto il momento dell’impiego, la carlinga veniva estratta dal suo abitacolo, le ali dispiegate e quindi l’aereo, scagliato da una catapulta, decollava.
L’aereo era un piccolo idrovolante da ricognizione “Yokosuka” categoria “Glen” con un equipaggio di uno o due uomini, lungo m.8,54, apertura alare m.11, velocità massima kmh 246, armato di una mitragliatrice da 7,7 millimetri, in grado di trasportare sulle ali due bombe da 70-80 chilogrammi.
Evidente la pericolosità di questa macchina da guerra in grado di avvicinarsi notevolmente, inosservata, al territorio nemico e quindi di lanciare l’aereo prima che la difesa contraerea si allarmasse; e se anche la modestia del materiale esplosivo trasportato rendeva l’offesa molto limitata, l’effetto doveva essere tuttavia soprattutto psicologico e influire negativamente sul morale della popolazione civile(si pensi alla paura provocata in Italia dalle incursioni del famoso “Pippo”).
Circa il suo impiego, è conosciuta l’operazione compiuta dal sommergibile I-25 alla fine di agosto 1942 contro il territorio statunitense in località Wheeler Ridge, 4 miglia a sud-est di Mount Emily sulla costa dell’Oregon.
Emerso a poca distanza da Capo Blanco il sottomarino lanciò l’aereo pilotato dal Ten.Fujta Nobuo con a bordo due bombe sub-alari al fosforo da 76 chilogrammi che vennero sganciate su di una fitta foresta incendiandola: terminata la missione, il velivolo venne recuperato senza problemi.
Oltre a ciò pare, ma non è certo, che lo stesso aereo abbia effettuato un secondo “raid” nell’Oregon, pur esso con risultati assai modesti: sta però di fatto che l’allarme provocato indusse gli americani a dislocare nella regione una squadriglia di aerei da caccia.
I danni arrecati in questo caso al nemico dall’impiego di sottomarini-portaerei furono assai limitati, ma l’effetto fu traumatico per gli americani che, sicuri dell’inattaccabilità del proprio territorio, si resero invece conto che anche la loro fortezza poteva essere violata: ed a guerra terminata i giapponesi riconobbero l’errore di non aver insistito maggiormente su tale tipo di offesa.


Bibliografia
E.ROSSLE = U-BOAT = F.lli Melita Editori – La Spezia 1993

ALBERTO ROSSELLI “Le operazioni dei sommergibili giapponesi lungo le coste occidentali statunitensi 1941/1942” – su Internet

lunedì 20 aprile 2015

A difesa della patria - IN TRINCEA E NEI CIELI

Rientrato, dopo lo scoppio della guerra, in Italia dalla Russia ove si era recato per lavoro, Arturo Zannini da Borso del Grappa, classe 1887, è arruolato ed assegnato il 17 novembre 1915 al 1° Reggimento Granatieri di Sardegna. Inviato in zona di guerra nel febbraio 1916, partecipa come soldato semplice ai duri combattimenti sull'Altopiano di Asiago, sul S.Michele e, infine, da ufficiale, sull'Hermada ove il 10 giugno 1916 è ferito ad un ginocchio e quindi trasferito per cure all'Ospedale Vignola di Milano.
Durante la malattia e la convalescenza è “ispirato” scrive in una sua lettera, “dal valore dei nostri piloti”, ed è desideroso di “tutelare con le mie ali i granatieri” nelle trincee ove ha a lungo combattuto. Perciò, appena guarito, chiede ed ottiene di entrare a far parte del nuovo “Corpo Aeronautico Militare” all'epoca ancora dipendente dall'Esercito: solo il 28 marzo 1923, infatti, veniva istituita la “Regia Areonautica”come Arma indipendente da Esercito e Marina.
Il corpo era composto da ufficiali provenienti dalle diverse armi dell'esercito che mantenevano le proprie divise caratterizzandosi solo per un'aquila sul braccio destro. Il ten.Zannini potè così continuare a fregiarsi degli alamari (un girocollo bianco, residuo delle sgargianti divise dei granatieri creati da Vittorio Amedeo II di Savoia) che nella sua corrispondenza definisce “sacri” così come li esaltava all'epoca lo spirito di corpo dei granatieri.
Inizia così il 5 aprile 1918 la sua scuola di volo presso il “Battaglione scuola aviatori” del campo d'aviazione di Venaria Reale (Torino) ed il “Libretto personale di volo” rintracciato fra le carte custodite dal figlio, costituisce un prezioso documento sugli inizi dell'aviazione militare italiana.
Il rischio per i partecipanti alla scuola era altissimo (si parla di un rischio morte del 35% e forse più) causato e dalla scarsa affidabilità dei velivoli e dall'accelerata istruzione degli allievi per fornire al più presto uomini al nuovo corpo solo recentemente costituito.
“Cappellano Militare e ambulanza della Croce Rossa erano sempre presenti in areoporto al bordo delle piste” ricordava Zannini. Ed in proposito citava come, rientrato, un pomeriggio, da una breve commissione a Torino, ebbe la traumatica notizia della morte del collega con il quale condivideva la camera, dalla divisa insanguinata gettata con noncuranza militaresca, sul suo letto.
Gli incidenti si verificavano soprattutto in fase di atterraggio, ed il “Libretto di volo” del giovane allievo ne attesta uno, fortunatamente non grave, avvenuto l'8 maggio nel corso della lezione n.23. L'istruttore annota infatti:”Qualche volta atterra picchiato. Arriva lungo e va contro un altro apparecchio rompendo un rotatore ed un montante”.
Il programma didattico prevedeva inizialmente il “rullaggio” a bordo della carlinga di un aereo privo di ali (definito in gergo “Checca”) sul quale l'allievo vagolava sul campo per prendere confidenza con il motore ed il timone di direzione.
Successivamente, il rullaggio su veri aerei, il “Bleriot“ (36 HP) ed il “Caudron” (ben 80!), poi, il 27 aprile, il primo “decollaggio”: la strada del cielo si è aperta. E si vola : la quota raggiunta l'11 maggio è di 400 metri; il 13 si sale a 800; il 20, a 1050; il 21, nello stesso giorno, in tre lezioni, si raggiungono i 1300 metri, poi i 1500, infine, i 2200.
Così, in 41 giorni, dopo 45 lezioni e 6 ore e 53 minuti di volo, l'allievo ottiene il 1° Brevetto di pilota il giorno 23 di maggio.
Per perfezionarsi è trasferito, alla stessa data, al campo di Cascina Costa (vicino a Busto Arsizio) ove dal 29 maggio al 17 luglio vola su aerei “Aviatich” e “Nieuport” ottenendo il 2° Brevetto, dopo di che è di nuovo trasferito sul campo di Furbara (vicino a Roma) per lezioni di acrobazia e tiro su sagome in mare ove Zannini, tutto preso dalla mira, sta per finire, e solo una brusca virata ed il suo sangue freddo lo salvano.
Ottenuto il 30 agosto il 3° Brevetto, il tenente pilota Arturo Zannini è pronto per l'impiego ed il 23 settembre è destinato al Campo d'Aviazione di Terni al comando della 306a squadriglia: l'ordine è di opporsi a possibili incursioni nemiche miranti a colpire le famose acciaierie ove si costruiscono i cannoni tanto necessari al fronte.
Il 4 novembre la guerra finisce, ed il Ten.Arturo Zannini, inviato in congedo il 26-8-1919 sale per l'ultima volta sul suo fedele “Nieuport” che, ricorda fieramente, “porta dipinta sull'ala l'aquila che fra gli artigli ghermisce i Sacri Alamari sormontati dalla fiamma del I Reggimento Granatieri”.




martedì 14 aprile 2015

Maggio 1915 - ANATOMIA DI UNA CALDA PRIMAVERA

I primi 23 giorni del mese di maggio 1915 furono, metaforicamente, se non i più caldi, certamente fra i più caldi della storia d'Italia. Furono essi, infatti, a maturare con una velocità impressionante gli avvenimenti che portarono l'Italia ad entrare nella Grande Guerra scoppiata in Europa il 28 luglio 1914.
Fu un susseguirsi di colpi di scena internazionali, e, in Italia, il frenetico contrasto fra gli interventisti eccitati dai proclami di Gabriele d'Annunzio, ed i neutralisti capeggiati da Giolitti restii ad entrare in un conflitto che si annunciava immane ed incerto.
Per questo, abbiamo voluto analizzare quei terribili giorni prendendo le mosse dalla situazione internazionale in cui l'Italia si trovava a seguito delle trattative intercorse nei mesi precedenti alla sua discesa in guerra sia con le potenze dell'”Intesa” (Francia, Inghilterra, Russia) che con l'Austria-Ungheria e la Germania, facenti parte della Triplice Alleanza alla quale apparteneva, allora, l'Italia.
Avvertendo, per la chiarezza, che nel corso dell'analisi che segue le parti in contesa saranno come sopra denominate “Intesa” e “Triplice”.


Le trattative con la “Triplice”.
L'Italia che già dal 3 agosto 1914 aveva dichiarato la propria neutralità nel conflitto mondiale scoppiato il 28 luglio dello stesso anno, aveva dal dicembre 1914 iniziato trattative con l'Austria condizionando la propria neutralità ad una serie di richieste territoriali che non erano state però accolte nonostante la mediazione del tedesco principe Bulow, già Cancelliere tedesco, buon conoscitore ed amico dell'Italia, in missione a Roma per evitare la rottura della Triplice Alleanza e la conseguente entrata in guerra dell'Italia a fianco delle potenze dell'Intesa. Ma la missione era fallita e di conseguenza l'Italia, con dichiarazione 4 maggio 1915 aveva posto fine ad ogni trattativa denunciando contemporaneamente l'alleanza che la legava all'Austria-Ungheria. La motivazione di tale decisione era stata la mancata informazione da parte dell'Austria della sua intenzione di dichiarare guerra alla Serbia a causa dell'omicidio avvenuto il 28 luglio a Serajevo dell'arciduca Francesco Ferdinando, ed il turbamento che ne era derivato allo “statu quo” esistente nei Balcani, come pattuito nell'alleanza stessa.


Le trattative con l'”Intesa”.
L'Italia aveva allacciato, fin dal 4 marzo 1915, trattative segrete con il ministro degli esteri inglese Grey quale esponente delle potenze dell'Intesa al quale era stato fatto pervenire un “memorandum” in XVI punti contenenti le nostre condizioni per scendere in guerra al loro fianco.
Anche qui le trattative furono laboriose, con alti e bassi, ma alla fine i rappresentanti delle potenze dell'Intesa siglarono a Londra il 26 aprile 1915 un accordo che recependo tutte le richieste contenute nel “memorandum” italiano portava l'Italia a schierarsi con l'Intesa.


Da tutto quanto sopra emerge indiscutibilmente che per un certo periodo l'Italia aveva contemporaneamente trattato sia con le potenze dell'Intesa che con l'Austria e ciò aveva suscitato le sue aspre accuse di doppiezza nei nostri confronti.
Da parte sua il presidente del Consiglio italiano Salandra nel suo libro “L'intervento” (Casa Editrice A.Mondadori – 1930) dal quale sono tratte molte delle informazioni qui riportate, riconosce la fondatezza dell'accusa ma scrive “potrei rispondere senz'altro: quel governo che non ha mai trattato da due parti tiri la prima pietra”. E cita, in proposito, Metternich e Bismarck.
Ma torniamo alla situazione esistente in Italia nelle bollenti giornate del maggio 1915.
Ricordiamo: il 26 aprile l'Italia aveva sottoscritto a Londra un accordo che la impegnava a scendere in guerra a fianco dell'Intesa avendo essa accettato tutte le pretese da essa avanzate con il noto“memorandum” in XVI punti; ed il 4 maggio l'Italia aveva rotto l'alleanza con l'Austria che non aveva invece aderito alle sue richieste.
A turbare questa situazione che pareva chiara e stabilizzata, interviene un fatto nuovo: le lettere 10 e 11 maggio 1915 dell'ambasciatore di Germania a Roma principe Bulow infaticabile nello sforzo di evitare il conflitto fra Italia ed Austria ma dimentico che già i rapporti diplomatici con quest'ultima si erano interrotti.
Esse accompagnavano le dichiarazioni pari data sottoscritte dal Bulow stesso nella sua qualità di Ambasciatore di Germania in Italia e dal suo collega ambasciatore d'Austria in Italia barone Macchio, illustranti le definitive concessioni che l'Austria-Ungheria era disposta a fare all'Italia.
Tali concessioni che in realtà quasi nulla aggiungevano a quelle già fatte in precedenza, diedero origine ad un'offensiva in Parlamento dei neutralisti italiani capeggiati da Giolitti con la sua famosa teoria del “parecchio” secondo la quale era opportuno accontentarsi delle ultime offerte austriache pur di evitare il flagello di una guerra dall'esito incerto, mentre gli interventisti infiammati dall'oratoria di D'Annunzio (suo il famoso discorso del 12 maggio dal balcone dell'Hotel Regina a Roma) spingevano per la discesa in campo a fianco dell'Intesa contro l'Austria-Ungheria.
Questa situazione pose in grave difficoltà il presidente del consiglio Salandra il quale, di fronte all'ipotesi di dover rinnegare l'accordo già raggiunto con l'Intesa - che sollecitava gli impegni presi con essa il 26 aprile a Londra - consegnò il 13 maggio le dimissioni nelle mani del re che il 16 maggio le respinse. Non restò allora che rimettersi alle decisioni del parlamento che convocato per il 20 maggio, avrebbe dovuto prendere la suprema decisione: pace o guerra?
Ritengo a questo punto opportuno segnalare quanto emerge a pag. 297 del libro di Salandra.
Scrive infatti l'autore:””... Il 18 (maggio) il ministro Riccio (Vincenzo - poste e telegrafi – n.d.a.) mi scriveva: ”In questo momento l'avv.Carlo Patriarca mi dice che è incaricato da Sua Santità di fare un' urgente comunicazione; ed è che l'Austria è disposta ad accettare tutte le richieste dell'Italia dandovi esecuzione immediata. Sua Santità vuole che un membro del governo ne sia informato. Ho risposto che non credo sia il caso di riferire la cosa al Presidente del Consiglio e che io non l'avrei riferita”. Il Patriarca era un professionista serio e stimato, con larga clientela negli ambienti cattolici. Aveva pure domandato di essere ricevuto da me; ma, forse scoraggiato da Riccio, non insistette””.
E' strano che l'autore abbia scritto quanto sopra senza rendersi conto che ciò avrebbe potuto evidenziare una sua gravissima omissione ed un atto di accusa contro di lui: non aver approfondito la notizia pervenutagli nel timore che si evidenziasse una circostanza che sarebbe andata a favore delle tesi neutraliste e fatto crollare quelle interventiste da lui sin ad allora tenacemente perseguite. Le preoccupazioni per la sua carriera politica prevalsero dunque sull'interesse della nazione?
Ma chiudiamo questa inquietante parentesi non senza aver prima messo in tutta evidenza che da quanto sopra emerge ancora una volta il fattivo, generoso interessamento sempre manifestato dalla Santa Sede per evitare il sanguinoso conflitto.
Oramai gli avvenimenti precipitano.
20 maggio 1915: nella seduta alla Camera dei Deputati il ministro degli esteri Sonnino presenta il “Libro Verde” con il quale si ripercorrono le trattative intercorse fra Italia ed Austria-Ungheria dal 9 dicembre 1914 al 4 maggio 1915. Quindi il disegno di legge in un solo articolo con il quale si conferiscono al governo del re “poteri straordinari in caso di guerra” viene approvato con il seguente risultato: votanti 482, 407 a favore, 74 contrari, un astenuto. Solo i socialisti e pochi altri che con un discorso di Turati si confermano neutralisti, votano contro: gli altri si sono volatilizzati.
21 maggio: il Senato approva lo stesso disegno di legge con 281 voti a favore su circa 300 presenti: anche qui, i neutralisti sono sfumati.
22 maggio. Non doma, l'Austria-Ungheria, con il ministro degli esteri Burian, consegna al duca di Avarna, ambasciatore d'Italia a Vienna, una lunga nota in risposta alla denunzia dell'alleanza notificatagli fin dal giorno 4. “Un bel caso” commenta Salandra “di tardigrada burocrazia diplomatica”.
23 maggio: in risposta, Avarna, ambasciatore d'Italia a Vienna, presenta la dichiarazione di guerra dell'Italia all'Austria-Ungheria.
24 maggio: le truppe italiane varcano la frontiera austriaca.

8 aprile 2015 Giovanni Zannini


venerdì 10 aprile 2015

Racconto - UNA POLIZZA TROPPO GENEROSA

“Guarda, sto porco!” dice un giorno il dr. Franco Liconti, impiegato all'ufficio sinistri della Compagnia di Assicurazioni “Tranquilli & Sicuri” al collega della scrivania accanto. “Il rag.Modesto Faibene lo conosco perché è stato mio capufficio. Tutto casa e chiesa, attenti a come si parlava, vietate le barzellette sporche, di bestemmie neanche parlarne, guai se uno si prendeva confidenze con una collega, o se quella si metteva la minigonna o era troppo scollata. Ma adesso che ha 74 anni, è dirigente in pensione, e vedovo, si è trasformato in un mandrillo che cambia donna anche un paio di volte l’anno! E non guarda tanto per il sottile, per lui vanno bene tutte, dalle ventenni alle cinquantenni e anche oltre! Non c’è che dire, un bell’esempio di “cattolico praticante”, come lui si vantava di essere!”.
In effetti, le prove del dissoluto comportamento sessuale del Rag. Faibene, in netto contrasto con i principi religiosi da lui sempre professati, c’erano tutte, inequivocabili, ed erano fornite dalle “denunce di sinistro” con successiva richiesta di rimborso che egli inviava con una certa frequenza alla Compagnia di Assicurazioni ”Tranquilli & Sicuri” presso la quale la ditta ove aveva lavorato per ben 42 anni aveva stipulato una polizza contro le malattie e gli infortuni a favore dei propri dirigenti dopo il pensionamento.
La copertura assicurativa era molto vasta e riguardava i ricoveri, gli interventi chirurgici, le degenze, le assistenze domiciliari post operatorie, le spese per esami di laboratorio, radiografie, cure riabilitative, spese oculistiche, odontoiatriche, infermieristiche ecc.ecc., insomma i benemeriti datori di lavoro presso cui il Faibene aveva lavorato (e l’auspicio è che anche molti altri seguano il loro esempio) si erano preoccupati di sollevare i propri ex dirigenti, che tanto avevano collaborato alle fortune dell’azienda, da ogni e qualsiasi spesa derivante dalle magagne di salute cui essi, per l’età, erano fatalmente destinati ad andare incontro. E, si badi bene, tale assistenza così completa era prestata non solo a favore dell’ex dirigente, della moglie e dei figli, ma addirittura dell’eventuale “convivente more uxorio”: più ampia di così!
“Guarda qua”, dice lo scandalizzato Liconti mentre snocciola al collega le prove dell’insaziabile attività sessuale del pio Faibene.
“Il 12 ottobre 2011 chiede il rimborso di una fattura dell’importo di Euro 3. 100,00 da lui pagate alla clinica “Supersalux” per un intervento di appendicectomia - con relative rette di degenza – effettuato su tal Cristina Brambilla, di anni 55, casalinga, chiaramente qualificata sua “convivente more uxorio”.
Ma la Cristina era succeduta, sempre come “convivente more uxorio”, alla Angelica Coletta di anni 19, barista, che l’11 marzo dello stesso anno , a seguito di frattura tibio tarsica da incidente stradale, era stata sottoposta, nella stessa clinica, ad operazione chirurgica di osteosintesi per la quale il Faibene aveva sborsato ben 4.421 Euro dei quali chiedeva all’ assicurazione il rimborso.
L’anno precedente, ossia il 2010 – prosegue lo scandalizzato racconto dell'attento impiegato dell'Ufficio Sinistri - il Faibene aveva presentato la richiesta di rimborso di Euro 2.500,00 da lui pagate per un chep-up completo effettuato in data 1 settembre sulla sua “convivente more uxorio” Diomira Recalcati, di anni 70, pensionata che, evidentemente, aveva voluto dare una controllatina al suo stato di salute. Nel 2009  la sua “convivente more uxorio” di turno, Carla Paz, messicana di anni 28, operaia, si era  fatta cavare un paio di denti sostituiti con altri due, con una spesa di 3400,00 Euro che il Faibene aveva pagato al dentista e che l’assicurazione gli aveva rimborsato. Mentre è il 2008 che, francamente, impressiona, perché prima, il 2 febbraio, chiede il rimborso di € 3.100,00 da lui anticipate per un intervento di ulcera gastrica effettuato sulla “convivente more uxorio” dell’epoca, Caterina Conquelli, di anni 60, insegnante, e poi, solo pochi mesi dopo, il 7 agosto, di € 4.888,00 da lui anticipate per pagare cure ospedaliere (sempre nella migliore clinica cittadina) e rette di degenza a seguito di una polmonite patita dalla nuova “convivente more uxorio”, Mariolina Sveglia, di anni 19, studentessa della facoltà di filosofia.
E quello che stupisce - conclude l’attento impiegato rivolto al collega, piuttosto perplesso, anche se un po’ ammirato per le “performances” amorose del vecchio dirigente - in tutto questo tempo, manco mezzo euro di spese per la sua salute, ma migliaia per curare quella delle sue scalognate “conviventi more uxorio” che, se avessero saputo che portava iella, si sarebbero ben guardate, in futuro, dall’andare a letto con lui.
Ma quello che fece traboccare il vaso fu l’ impudente richiesta di rimborso, avanzata dal Faibene, della fattura di Euro 4.400,00 datata 20 febbraio 2012 emessa dalla solita clinica “Supersalus” relativa alla cura di una depressione in cui era caduta la Carmela L. – il nome non si può dire perché, come si vede, è una cosa delicata - educatrice, di anni 44, pur essa “convivente more uxorio”, che in realtà, a seguito dell’attenta lettura della cartella clinica effettuata dal dr.Liconti, emerse essere nientemeno che la madre Badessa di un convento di suore che gestivano l’ Asilo Infantile “Casa degli Angeli”.
Di fronte ad un tale scandalo l'impiegato si rivolse per istruzioni al suo direttore che lo lodò per l’attenzione dimostrata e lo incaricò di un’approfondita indagine (“discreta, per carità”) su tutta la faccenda.
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Alla fine, dalla diligente inchiesta del dr.Liconti emerse che il Faibene, anziché erotomane incallito, e seduttore di pie donne come tutto sembrava dimostrare, era in effetti un sant’uomo, da porre, alla sua morte, sugli altari.
Rimasto, solo dopo pochi mesi dal pensionamento, vedovo, si era dato alle opere di bene e, approfittando delle generose garanzie della polizza stipulata dal suo ex datore di lavoro a favore dei suoi ex dirigenti, ed in particolare della clausola relativa ai “conviventi more uxorio”, era divenuto il benefattore di tante donne, monache comprese, che o prive di assistenza sanitaria, o perché non in grado di pagare i “tikets”, o perché necessitanti di ricoveri urgenti senza dover sottostare ad infinite attese, o per altre gravi necessità, egli faceva passare per sue “conviventi more uxorio” consentendo loro di godere (si fa per dire) di una pronta assistenza sanitaria , oltrettutto, di prima qualità.
Vorrei vedere, si era detto con un sorrisetto, come anche il più zelante impiegato dell'Ufficio Sinistri potrebbe controllare se io con le sinistrate ci vado a letto regolarmente, “more uxorio”: ed aveva con tranquilla coscienza iniziato la sua benefica attività di falso “convivente more uxorio” a fin di bene.
Il direttore dell’Ufficio Sinistri della “Tranquilli & Sicuri”, ricevuta la diligente relazione del suo impiegato - che ebbe una promozione - si affrettò ad informarne il collega dell’Ufficio Assunzioni (quello che vigila sull’andamento delle polizze, ossia quanti sinistri producono e quanti soldi fan pagare) ed insieme si recarono dal Direttore Generale per un lungo, approfondito consulto alla fine del quale, per evitare che altri generosi ex dirigenti seguissero l’esempio del loro pio collega, e che la polizza divenisse una specie di pronto soccorso per donne bisognose con problemi di salute, si decise di eliminare dalla polizza incriminata la famigerata (per la Compagnia) clausola relativa ai “conviventi more uxorio”.
A seguito di ciò il Faibene fu costretto a sospendere, con rammarico, la sua proficua attività umanitaria, ma il peggio toccò a quei ex dirigenti che una “convivente more uxorio” ce l’avevano sul serio, e che da quel momento furono costretti a pagare di tasca propria le magagne delle loro amanti.

Giovanni Zannini.

LA "IPSEFOBIA"

RACCONTO                                                

Il prof. Pio Tranquilli, docente di filosofia nella locale Università, era un uomo sui trent’anni piuttosto piccolo, robusto, ma agile ed asciutto, con il viso austero, solenne, e gli occhi scuri, profondi. Una figura che non poteva sfuggire  a chi avesse un minimo di spirito d’osservazione  perché denotava un notevole contrasto  fra il capo, da pensatore,  ed il corpo, da pugile della categoria  dei pesi mosca.
Gentilissimo, salutava tutti, anche quelli che non  conosceva; scapolo, viveva da solo in un appartamentino ove meditava e scriveva libri assai apprezzati quando non era impegnato nelle aule accademiche, in convegni, dibattiti o tavole rotonde.
Dato il soggetto innegabilmente interessante, decisi di saperne di più e gli chiesi un’intervista che mi concesse immediatamente con la consueta cortesia.
Gli posi quindi una serie di domande  alle quali rispose in termini chiari e comprensibili , cosa assai rara per un filosofo, confermando una preparazione ed una cultura in tutto degni della sua fama.
Ad un tratto la biro che si rigirava, parlando, fra le mani, cadde per terra, infilandosi nel poco spazio esistente sotto la scrivania dietro la quale stava seduto.
Lo vidi alzarsi di scatto mentre i tratti del suo volto si alteravano e, messosi a quattro zampe, gattoni, sul pavimento, ricercare affannosamente la penna che, nonostante i suoi sforzi, continuamente gli sfuggiva.
”Maledetta”, urlò allora con voce carica d’odio, “ti distruggerò, ti massacrerò” e, allorchè, a forza d’improperi riuscì ad agguantarla, la spezzò con ira in due e la gettò, trionfante, nel cestino della carta.
Dopo di che, tornato amabile e serafico, “Dove eravamo rimasti?” mi chiese; ed avendogli ricordato il punto in cui il discorso si era interrotto, lo riprese portandolo, con la consueta razionalità, a termine.
Trascorsa una buona mezz’ora in un conversare assai interessante, mi propose un caffè che accettai di buon grado.  Si alzò per andare in cucina a prepararlo e, forse ancora immerso nei suoi pensieri, passando, in sala da pranzo,  accanto al tavolo  urtò sbadatamente  contro un suo  spigolo accusando, di conseguenza, un forte dolore.
Si fermò e guatò con odio il mobile sibilando:” Infame!”. Quindi, zoppicando, tornò alla scrivania e, afferrato un grosso martello, quasi un mazzuolo, che vi era sopra, si riavvicinò al tavolino e gli inferse due o tre violenti colpi che lo ridussero a mal partito.      
Aduso, per la mia professione di giornalista, a vederne di tutti i colori, feci finta di nulla, ma l’altro si accorse del mio stupore.
“Vedo che è sorpreso – mi disse sorridendo, mentre sorseggiavamo il caffè  - e le spiegherò il perché del mio comportamento”. Quindi, assunta un’aria professorale, proseguì: ””Lei ha certamente constatato  che la vita quotidiana ci espone, di continuo,  a contrasti, a scontri con i nostri simili. Orbene, la morale cristiana che impone di considerare gli altri come fratelli, e, per chi non crede, la buona educazione, vietano ogni reazione violenta contro il tuo prossimo.
Le farò degli esempi assai banali, per non parlare di altri casi ben più importanti, in cui la nostra pazienza e la nostra tolleranza  sono messi a dura prova.
Pertanto, a chi ha  piazzato la sua vettura  davanti al tuo garage impedendoti di entrarvi, mica puoi dire, come peraltro avresti tanta voglia, “Togliti di lì, villano”, ma ti rivolgerai a lui, sforzandoti di rimanere tranquillo, e  con il sorriso sulle labbra, dicendogli: ”Ehi, amico, sii cortese, sposta la tua vettura affinchè io possa accedere alla mia autorimessa”.
Ed a chi, mentre tu, pazientemente, alla stazione, stai facendo la fila per il biglietto, senza tanti complimenti ti supera con la scusa che ha il treno in partenza, non puoi, come sarebbe tuo vivo desiderio, allungargli un manrovescio, ma, al più, gli dirai:” Birbantello, te ne prego, rispetta la coda” e chiuso lì.
Ma tutto questo, a lungo andare, rischia di rovinarti la salute perché gli psicologi dicono che in tal modo, continuando a sopportare pazientemente gli altri, si accumulano in noi le cosiddette “scorie” che sono alla base di quelle malattie psicosomatiche e di quelle depressioni oggi così diffuse.  
Perciò, dicono sempre gli specialisti, queste scorie bisogna, assolutamente, eliminarle.
Ecco dunque perché Sgarbi che vive insultando a destra e manca, e fa gli urlacci, maledicendo chiunque dica o faccia qualcosa che non gli va, in depressione non ci andrà mai.
Ma noi, poveracci, che crediamo nella carità cristiana e nella buona educazione, dovremo tutti finire nelle cosiddette case di salute, ed ingozzarci di psicofarmaci?””.
Si arrestò perché si era accorto che le sue parole cominciavano a procurarmi una certa angoscia.
Poi, con mio grande sollievo, proseguì:” Per fortuna, ho da pochi giorni eleborata una teoria per risolvere questo problema  che affligge le persone educate come noi”.
La cosa si faceva interessante  e gli chiesi di illustrarmela.
“”Ho dunque scoperto – rispose – che la violenza, sia verbale che fisica, le ingiurie, le minacce ed il turpiloquio sono riprovevoli solo se rivolte verso altre persone. Nulla vieta, invece,  di ingiuriare e percuotere  le cose inanimate. Ecco perché ho definito “resfobia” – che tradotto significa “fobia, avversione per le cose” – la mia nuova teoria. Come ha visto, distruggendo quella biro  e menando martellate al tavolo ho immediatamente eliminato ogni “scoria” nociva tornando, grazie a ciò, immediatamente, tranquillo e sereno. Ci provi, all’occorrenza – concluse – e mi sappia dire se la mia teoria funziona””.
Glielo promisi, ed in effetti una pacca al televisore che non funzionava e la messa fuori uso della bicicletta che mi aveva lasciato a terra per una foratura, furono le vittime sacrificali per eliminare alcune “scorie” che avevo accumulato.
Circa un mese dopo l’intervista, incontratolo per strada, il professore, dopo avermi salutato con la consueta cortesia, mi chiese di venirlo a trovare perché aveva importanti cose da comunicarmi.
Acconsentii di buon grado  e l’indomani eccomi a casa sua.
Mi venne ad aprire un uomo in tuta da lavoro che si presentò dicendomi:” Sono il riparatore di fiducia del professore” e che mi accompagnò da lui.
““Debbo onestamente riconoscere – iniziò il filosofo con un certo imbarazzo – che qualcosa, nella mia teoria sulla “resfobia” non funziona. Qualche giorno dopo esserci visti, mentre facevo la doccia, a seguito di un guasto venni investito  da un getto d’acqua bollente che mi mandò su tutte le furie. Rivolsi al boiler le ingiurie più sanguinose poi, afferrato il mazzuolo che tengo sempre pronto sulla mia scrivania, lo presi a martellate. Un altro giorno aprendo il frigorifero mi presi una scossa che quasi mi mandò al Creatore:  appena rimessomi dallo spavento, misi fuori uso anche lui””.      
“Ma le scorie – gli chiesi, interessato – le ha eliminate?”.
“Per questo – rispose – la resfobia funziona a meraviglia, ma sa quanto mi costa? Si figuri che ho dovuto assumere in pianta stabile  quell’uomo che ha visto entrando  che, per fortuna, s’intende di tutto: elettricità, idraulica, falegnameria, costruzioni e quant’altro. Ma a causa del suo stipendio, compresi i contributi di legge,  francamente sto andando in rovina”.
“E allora?” gli chiesi preoccupato.
“”Ho riveduto la mia teoria: non più “resfobia”, ma “ipsefobia”, ossia avversione per sé stessi. Se, mi son detto, non è possibile offendere né, tanto meno, percuotere il nostro prossimo, e se, per motivi economici, neppure è consentito sfogarsi con le cose,  con chi prendersela, allora, per eliminare quelle maledette scorie? Dopo lunga meditazione, finalmente è fiorita nella mia mente la soluzione: ma con sé stessi, perbacco, ed è così che è nata la “ipsefobia”.  Essa non prevede la violenza fisica su se’ stessi che potrebbe avere altre conseguenze nocive per la propria salute, ma non pone alcun limite a quella  verbale.
Ti prendi una multa per eccesso di velocità? Mica puoi insultare il poliziotto che, poveraccio, fa il suo lavoro. Basterà dirsi: ”Pio, sei un perfetto imbecille ed anche un gran cretino”.  E se ti accade  d’inciampare su di un gradino e di cadere, per questo, rovinosamente a terra, non c’è più bisogno di farlo a pezzi. Sarà sufficiente dirsi: “Ben ti sta, deficiente! Un’altra volta guarda dove metti i piedi”. E, Le assicuro, quelli che Le ho riferito sono insulti da educande, in confronto a quelli che normalmente mi rivolgo per combattere le famigerate scorie””.
““Ma i risultati di questa “ipsefobia” – gli chiesi – come sono?””
“Ottimi – rispose – Pio è docile, non reagisce mai, incassa tutto,  così le scorie vanno via che è un piacere, senza bisogno di tranquillanti o psicoterapeuti: soprattutto, evitando di avere falegnami, elettricisti, tubisti e affini continuamente fra i piedi, con quel che costano”.
                                                                                                                             Giovanni Zannini