sabato 30 giugno 2012



Lettere alla “Difesa del Popolo”

NOTIZIE BUONE A META’

Vi sono  notizie che fanno piacere e altre che non piacciono affatto, ma vi sono anche quelle che suscitano,  contemporaneamente, impressioni positive ma anche  negative.
Quando, ad esempio, leggiamo sul “Sole 24 Ore” che “Prada  (per chi non lo sapesse, uno dei gruppi italiani  più forti della moda e del lusso - n.d.a.) raddoppia l’utile a 122 milioni” e che  “nel corso dei primi tre mesi sono stati inaugurati  8 nuovi negozi e altri 7 nelle settimane successive” portando così a 402 il numero dei negozi gestiti direttamente, non resta che  compiacersene con i titolari della società e con i loro collaboratori.
Armando Branchini, direttore della “Fondazione Altagamma”, informa su “Avvenire”  - titolo: “Altagamma: il lusso non muore mai” – che tutte le categorie del lusso “vanteranno un giro d’affari in crescita” e che  sarà soprattutto “la fascia altissima”, o il “lusso assoluto”, a trainare il mercato: e dal punto di vista strettamente economico e commerciale, in un momento di crisi così pesante, notizie come queste potrebbero anche far piacere.     
Ma, d’altro canto, esse creano contemporaneamente una reazione negativa perché evidenziano  che al mondo c’è chi  spende milioni e milioni in autovetture, abiti, scarpe, gioielli, orologi e borse costosissimi, e che, incapace di rinunciare a determinati livelli di consumo, non si accorge che la maggior parte della gente è oggi costretta a tirare la cinghia e, molti, troppi, a morire di fame.
Dovrebbero capire, costoro, che spesso hanno studiato in prestigiose università, che scandalo non è solo rubare, uccidere o esibire comportamenti licenziosi, ma anche banchettare  alla faccia di chi ha fame.
Diano un’occhiata, li prego, al  quadro di Emilio Longoni  “Riflessioni di un affamato”  qui a fianco riportato,
e pensino se non sia il caso di dar ascolto a quanti (la Chiesa per prima), invitano alla moderazione anche per evitare possibili derive violente, e raccomandano di intraprendere stili di vita  alieni da  ogni forma esasperata di consumismo, all’insegna di  due semplici parole,  “frugalità” e  “sobrietà”, tanto care a quel  santo di Assisi. 

                                                                                              Giovanni  Zannini    


UN INNO NAZIONALE CHE NON SI PUO’ CANTARE

Molti si stupiscono perché negli stadi dei campionati europei di calcio  allorchè suona l’inno nazionale spagnolo i “diavoli rossi” restano,  ostinatamente, in silenzio,  al contrario di quanto fanno, più o meno, gli atleti delle altre squadre nazionali.
A cominciare dagli Italiani che, appena la banda attacca l’”Inno di Mameli”, si scatenano e cantano a squarciagola -   a cominciare dal capitano Buffon in atteggiamento ispirato e ad occhi chiusi  - che l’Italia s’è desta e che, per vincere la partita, son pronti alla morte.
Gli spagnoli, invece, non fanno neppure una piega limitandosi ad ascoltare, nel più assoluto mutismo, le note della “Marcha Real”. 
C’è chi dice che ciò dipenda dal fatto che sono un po’ ammosciati a causa dello “spred” troppo alto rispetto ai titoli tedeschi, e che perciò  lo spirito patriottico che in passato animava i loro cuori, ne abbia risentito.
Altri, invece, pensano che quei giovinotti, assai abili nel palleggiare la sfera, lo siano assai meno nel canto,  e che siano addirittura stonati per cui, ad evitare brutte figure, è meglio tenere  la bocca chiusa.
Ma la verità è diversa e dipende dal fatto che gli spagnoli, e quindi anche i loro atleti, l’inno nazionale  non lo possono cantare per il  semplice fatto che le parole da cantare non ci sono.
In sostanza, nell’inno nazionale spagnolo la musica c’è, ed anche di pregio,  ma il  testo manca proprio.
La cosa è preoccupante e turba l’opinione pubblica spagnola , e, dicono, anche il re, tanto è vero che è stato lanciato un concorso per far “parlare” la “Marcha Real”, e già poeti, scrittori e semplici cittadini si sono messi in moto per risolvere finalmente questo grave problema e mettere così in grado gli atleti iberici di dimostrare, alla prossima occasione, che il patriottismo, che tanto  animò in passato gli “hidalgos”,  è tuttora vivo e vegeto.            
                                                                                             Giovanni  Zannini       

mercoledì 27 giugno 2012


MAZZINI, UOMO “DI CARNE E DI OSSA”.

Se molto si è parlato e si parla degli amori di Garibaldi, minor  risonanza hanno avuto quelli di Giuseppe Mazzini.
Eppure esiste chi ricorda “le storie sentimentali che pure affollano il cammino della sua vita di uomo di carne e di ossa” come Bruno Gatta nel suo “Mazzini una vita per un sogno” dal quale sono tratte molte delle notizie di seguito riportate; o Gabriele Gasparro che,  in un libro di cucina nel quale -  argomento sin qui poco trattato -  descrivendo  i suoi gusti peraltro molto parchi,  afferma che egli “amava la musica, componeva canzoni, suonava la chitarra  che portò con sé in esilio” aggiungendo che “il fascino femminile lo trovò sensibilissimo sin dalla giovane età” e che “i suoi amori  lo conforteranno molto nelle ore tristi”. Aggiungendo che “a Londra era circondato da un vero e proprio circolo femminile che egli chiamava scherzosamente il suo “clan”. Lo curavano, lo servivano, lo coccolavano e lo ascoltavano rapite”.
Fra queste Francesco Fumara nel suo “Donne e amori di Mazzini” cita le sorelle Ashurst, le sorelle Mandrot, Jane Carlyle, Matilda Biggs; e  Paolo Di Vincenzo (de “Il Centro” di Pescara, in un articolo su Internet), Clementine Taylor, le sorelle (ancora!) Winlworert, Margherita Fuller, Arethusa Miller, Jessye Meriton, Sarah Nathan, senza chiarire peraltro se con alcune di esse sia stata  semplice amicizia, e con altre si sia, invece, trattato di un’  amicizia che,  con un eufemismo, s’usa  oggi definire   “affettuosa”.   
La cosa è complicata dal fatto che nell’ 800 si usa spesso la parola amore nel senso di affetto, amicizia, come quando, ad esempio,  uomini di sicuro genere mascolino chiudevano la loro corrispondenza con gli amici (e questo mi aveva, francamente, sorpreso)  con frasi tipo “Il tuo…che ti ama” o, addirittura, “Amami come io ti amo”.
Comunque sia, la fortuna con il gentil sesso “ammaliato dalla sua profonda cultura,...da una piacevole figura e dal suo affascinante colloquiare” (così il sopra citato Paolo Di Vincenzo) sorprende lo stesso Mazzini che non sa darsene ragione, dal momento che, molto onestamente fa di sé una descrizione che non parrebbe  la più idonea ad attrarre l’interesse femminile.
”…Le donne ch’io ho conosciuto – scrive alla madre  -  hanno quasi tutte presa una grande simpatia per me; simpatia tanto più strana ch’io non ho nulla di quel che va a genio alle donne: vesto male, negletto come quando ero a Genova e più se occorre: fumo sempre e in conseguenza chi m’avvicina  può facilmente avvedersene: non so parlare di cosa alcuna che di vera; non sono galante, rovescio per la più ciò che tocco…”. Alla fine, si dà lui stesso la ragione di questo successo piuttosto anomalo :”..Circondate come sono sempre le donne da uomini continuamente ma superficialmente galanti  e devoti ,  esse simpatizzano con chi si  mostra loro  siccome una novità”.
Se poi vogliamo fare un raffronto, sul piano sentimentale, fra Garibaldi e Mazzini, possiamo dire che  il primo, con le donne,  era piuttosto spiccio e qualche volta, diciamolo, anche di bocca buona,  mentre il secondo era piuttosto raffinato, coltivando i suoi sentimenti -  talora molto combattuti, fra ripensamenti e sensi di colpa  - solo con donne di un certo ceto, colte e talora aristocratiche.    
Nel suo comportamento emerge soprattutto il contrasto  fra un serio  desiderio d’amore, ed  un inflessibile senso del dovere, uno  sfrenato attaccamento alla propria  libertà  che lo spingono a dedicarsi esclusivamente  alla lotta politica, con tutta la sua imprevedibilità ed i suoi molti rischi che,  collidendo con il primo, gli impediscono  di realizzare una serena vita familiare che pure considera ideale.     
E’ di ciò chiaro esempio il rapporto, fondamentale nella sua vita affettiva, intercorso con Giuditta Bellerio, figlia  del barone Andrea  magistrato nel regno italico, e vedova del carbonaro  Emilio Giovanni Sidoli di Reggio Emilia con il quale aveva condiviso, nel ducato di Modena, le battaglie per il riscatto dell’Italia. Ricercata per tale sua attività  rivoluzionaria, si pone in salvo a Marsiglia ove nel 1932 avviene l’incontro con Mazzini  a sua volta esiliato dal  Regno di Sardegna dopo che  a Genova era stata scoperta la sua attività di carbonaro: e scoppia l’amore.
Intenso, romantico, carico di sentimentalismo   evidente  nelle lettere dell’uomo all’amata, ove trovano luogo i più classici ingredienti  della corrispondenza amorosa, il desiderio, i baci appassionati al medaglione che la ritrae, la ciocca di capelli  che porta sempre con sé, la promessa di un amore infinito, frasi come “Tu sei un angelo, tu sei sublime per me” e così via. Lei ricambia con pari passione (ne nasce anche un figlio che muore a soli tre anni), ma la  concreta soluzione di un matrimonio, che lei sollecita, (e che anche la madre di lui, solitamente ascoltata consigliera, appoggia), ottiene una dura risposta: non può, la patria italiana e repubblicana lo chiama.
Lei, risentita,  gli scrive:”…Mi mostri qualcosa di troppo  serio, qualcosa che mi fa anche ridere, non ti incresca. Io leggo nel tuo cuore, so che di là partono le tue parole, amo, apprezzo il sentimento  che le detta ma non posso impedirmi di dire: eccolo là, sempre quello, facitore di poesia, di amore, in tutto quello che di vero, di sensibile nell’anima, ma sfuggendo sempre alla realtà della terra”: e tutto finisce.
E che dire delle passioni amorose che -  talora involontariamente, ma non sempre - l’esule italiano accende nelle famiglie che lo accolgono, suscitando talora qualche sconquasso?  
A Losanna,  in casa dell’avv.Giovanni Mandrot aveva addirittura provocato una vera eruzione vulcanica di passioni nel cuore della moglie Louise (o Lisette), e pure di tre delle sue cinque figlie, Caterine, Maria ed Elisa. Cosicchè, allorchè Mazzini  lascia la Svizzera per Londra, la Maria non esita a dichiarargli il suo amore e ne nasce una corrispondenza con la quale  Mazzini, delicatamente, la informa di non poterlo corrispondere. Ma siccome la fanciulla  non si dà per vinta,   prega il comune amico Luigi Amedeo Melegari lui pure patriota   esule a Losanna,   rimasto sul posto,   di convincerla che non c’era niente da fare. Resta da dire che la conclusione   di questo “affaire” amoroso fu certamente singolare perché  il Melegari, dopo aver spento  l’incendio  della fanciulla per Mazzini, prese fuoco a sua volta per lei,  e se la sposò.
Durante il suo soggiorno in Inghilterra, che fu la sua seconda patria, l’esule italiano ebbe rapporti di grande amicizia con l’avv.William Henry Ashurst, la moglie di lui, il figlio William  -  che fu banchiere di Garibaldi -   e le  tre sorelle Elisa, Emilia e Carolina “tutte –scrive sempre Paolo  Di Vincenzo – innamorate di lui” anche se  Mazzini afferma che, per quanto lo riguardava, si trattò di  semplice amicizia. Sta di fatto che Elisa, l’unica nubile, s’infatuò perdutamente e “non ricambiata condusse una vita errabonda finendo per sposare un operaio francese morendo poi giovanissima”.
“Emilia – prosegue di Vincenzo  –  che pare fosse la prediletta, intrattene con lui una fitta corrispondenza, ma quando venne in Italia per incontrarlo conobbe un ufficiale garibaldino (evidentemente assai più fascinoso  di Mazzini – ndr) che sposò dopo aver ottenuto il divorzio dal marito inglese”.
Infine, anche la Carolina,  sebbene sposata -  sottolinea lo stesso autore - ebbe una lunga  relazione epistolare con Mazzini interrotta  solo dalla sua morte.
Ma dove emerge in  modo assai evidente il singolare modo di Mazzini di  manifestare la propria affettività sempre sul filo del rasoio fra amore ed amicizia, è nel rapporto instauratosi a Londra nel 1837                       fra lui e Jane Carlyle,   moglie di Thomas, critico e scrittore scozzese che accolse con molta cordialità nella sua casa l’esule italiano  da lui ritenuto “…uomo di chiara intelligenza e di nobili virtù, pieno di musicalità…un po’ lirico per natura “. Le frequenti visite di Mazzini nella sua casa  di Cheyne Row, a Celsea, favorirono il nascere di una profonda amicizia fra lui e Jane, che non insospettì affatto il marito  Thomas  un  po’ distratto perché,  scrive Gatta, “sentimentalmente indaffarato  con tal Lady Harriet Baring…”.
Ad asserire che di sola amicizia si trattava,  bella e sincera,  è Mazzini nelle sue frequenti lettere alla madre, sua confidente e fidata consigliera. Dopo averle descritta Jane (… ancora giovine, non bella, non brutta, occhi e capelli neri, magra, piuttosto alta, vivace…) l’assicura “affinchè l’esser ella ancor giovine  non vi faccia sospettare oltre il  vero, ch’io non l’amo  se non come sorella  per le eccellenti qualità del suo cuore, per l’amore che porta al paese mio  ed alle mie idee…Essa pure, benché forse m’ami  più ancora  ch’io non l’amo, m’ama come sorella, d’amicizia donnesca, esaltata, ma pur d’amicizia…”.
Successivamente, però,  con la lettera 19 marzo 1840 sempre diretta alla madre, parlandole  di Jane, premesso che “non ho quasi in nulla svelata  la mia natura con lei”   ammette che “v’è una strana simpatia  che l’attira verso di me, e mi pare ch’essa stimi il mio cuore più che la poca conoscenza diretta”: insomma, si accorge che l’altra si è innamorata di lui, mentre lui insiste a considerarsi solo ed esclusivamente suo amico, giungendo a sconsigliarla di abbandonare, come lei vorrebbe, per le sue ripetute infedeltà, il marito.
E  che  per Jane quell’amicizia fosse  amore vero, di cuore e pure  di sensi, emerge da una sua lettera alla madre di lui :”…”Ama il martir d’Italia”. Non bisogna comandarmelo!...Non posso far altro!...Oh! se voi sapeste come l’amo”; ed a questo punto  una frase non chiara, forse dovuta alla modesta conoscenza dell’italiano, ma che può essere interpretata come audace, incredibile, esplicito desiderio di amore concreto:”Non “bisogna”, dico, ma mi goda!”.
A suscitar sospetti sul tipo di rapporto intercorso fra i due, stanno le  romantiche passeggiate londinesi che li portano  sul punto più elevato di Londra, sulla cupola della cattedrale di S.Paolo, ove rimangono soli, (lo scrive lui alla madre) per tre quarti d’ora in mezzo ad un vento diabolico.
Oppure, di notte, nel mezzo di un ponte sul Tamigi, ove rimangono una diecina di minuti ad osservare il fiume e le imbarcazioni “tra l’umido  e un vento  rabbioso e freddissimo che urlava d’intorno a noi” (e sappiamo pure che lui aveva, in quell’occasione, il mal di denti che, forse per la violenta reazione causata dal vento e dal freddo, il giorno dopo, come d’incanto,  era sparito).
Bruno Gatta, nella sua opera più volte citata, si chiede se questa  “liaison” sia stata o no solo platonica. E noi pure  ci chiediamo se fra i due,  oltre a scarpinare sugli scalini della cupola di S.Paolo, o ad osservare di notte, da un ponte, il Tamigi, vi sia stato  un rapporto meno freddo del vento che, ostinatamente,  accompagnava, a Londra,  i loro incontri.
                                                                                                                                            Giovanni Zannini 

PARLAMENTARE CORAGGIOSO (E  INTELLIGENTE) CERCASI
Visto che in materia di riduzione dei compensi ai parlamentari di passi avanti se ne fanno pochi, occorre pensare al modo di riuscire nell’intento senza dover aspettare leggi e regolamenti, difficili da attuale e soprattutto chi sa quando.
Si dovrebbe, dunque,  trovare una scorciatoia, e basterebbe  che un parlamentare coraggioso e convinto che la solidarietà serve a fare delle buone opere e non a mantenere privilegi e benefici ormai intollerabili, dichiarasse di essere disposto a rinunciare ad una parte dei suoi compensi (di quanto? in Francia i ministri se li sono  ridotti  del 30% ma ci si potrebbe accontentare anche di un 25) chiedendo che i colleghi dichiarino PUBBLICAMENTE di essere disposti a fare altrettanto.  
A questo punto o gli altri si dicono d’accordo, e il problema è risolto, o, in caso contrario, l’elettorato, scandalizzato dal rifiuto del parlamentare renitente, gliela farebbe pagare,    alla prossima occasione, con una sicura sconfitta elettorale.  
Ma, si diceva, questo parlamentare modello  dovrebbe essere, oltre che coraggioso, anche intelligente: perché se sarebbe sommerso dai moccoli e dagli improperi che, sottovoce, i colleghi, costretti loro malgrado a questo gesto di generosità, gli farebbero pervenire, si vedrebbe però gratificato, alla prossima competizione  elettorale, da una tal valanga di voti da fargli meritare, senza spesa alcuna,   la sicura rielezione.
Che se poi il suo esempio fosse seguito da qualcun’altro di quelli che  siedono in altri scranni elettivi (nelle regioni, nelle province, nei  comuni e così via), quel parlamentare generoso (e avveduto) correrebbe il gradito rischio  di diventare una specie di eroe nazionale come Cavour, Mazzini e Garibaldi.     

                                                                                                          Giovanni Zannini

“ORE” ALLA PATRIA

Il 18 dicembre 1935 fu celebrata in Italia la “Giornata della fede” in cui le mogli ed i mariti italiani furono invitati  a donare “Oro alla patria” facendo cadere in un’urna (talora in un elmetto rovesciato come simbolico contenitore) le proprie fedi nuziali.
L’iniziativa era stata lanciata dal governo fascista come risposta alle “Sanzioni economiche” decretate dalla Società delle Nazioni il 18 novembre dello stesso anno contro l’Italia colpevole di aver aggredito l’Abissinia in violazione dell’art.XVI del  suo Statuto.
Grazie all’abilità del governo fascista che in un  momento di grande  difficoltà era riuscito a  convincere  gli  italiani del loro diritto a conquistare l’Abissinia  in cui potersi  espandere e della  quale godere  le (affermate) ricchezze, e quindi di  reagire alla grande ingiustizia subita,  l’iniziativa ebbe un innegabile successo per merito  anche dell’esempio dato dalle supreme autorità nazionali e da altri illustri personaggi.
Il re Vittorio Emanuele donò lingotti d’oro, la Regina Elena la propria fede, accompagnandola con un proclama, il principe ereditario Umberto il “Collare dell’Annunziata”, Guglielmo Marconi, oltre all’anello, la medaglia da senatore, Luigi Pirandello la medaglia del Premio Nobel, e Gabriele d’Annunzio, oltre alla fede (ricordo del suo matrimonio con Maria Hardouin, duchessa di Gallese, il che non costituì certamente per lui, che con la fedeltà coniugale non ci aveva molta dimestichezza, gran sacrificio)  addirittura, riferiscono le cronache, “una cassa d’oro”: ed in totale vennero raccolte 37 tonnellate d’oro e 115 d’argento.
Anche oggi,  e ancora una volta, l’Italia si trova di difficoltà e vien da chiedersi se non si potrebbe, per superarla,   indirizzare l’entusiasmo di una volta  - che trasformò,  purtroppo  l’oro e l’argento  in armi e gas asfissianti per portare la civiltà ai selvaggi etiopi -  a fini più nobili.
Vogliamo forse  che il Presidente Napolitano e la signora Clio ascendano  la scalinata del Vittoriano per versare  i propri anelli nuziali - sia pure  in un contenitore più pacifista che non  un elmetto da guerra -  e che gli altri italiani facciano, sul loro esempio,  altrettanto in municipio?.
Non direi  sia il caso, perché a questo mondo occorre rinnovarsi e ricorrere a idee nuove,  ed anche perché,
con tutti i  conviventi che ci sono oggi in giro i quali, notoriamente, delle fedi, non sanno che farne, i risultati sarebbero disastrosi.
Perché non pensare, allora,  a donare all’Italia non più oro, ma “ore” di lavoro, per aiutarla a superare i guai in cui attualmente si trova?.
Mi hanno sempre colpito le statistiche allorchè, confrontando i risultati economici di un mese rispetto al precedente, attribuiscono l’eventuale risultato negativo alla perdita di ore di lavoro per festività infrasettimanali o per ore di sciopero:   parrebbe perciò logico che, se invece che sottrarle, si aggiungessero ore al lavoro, la produttività ne trarrebbe indubbio beneficio.
E allora, una volta alla settimana l’impiegato, pubblico o privato, con il suo dirigente, resta un’ora di più in ufficio, l’operaio, con il suo direttore, idem in fabbrica, il medico in ospedale, il  poliziotto sulla strada, il giudice in tribunale, l’insegnante a scuola -  ma qualcosa si dovrebbe pensare anche per i liberi professionisti e pure per alcuni  pensionati troppo spesso inutilizzati - prolungano  di un’ora il proprio servizio.
Il  tutto, rigorosamente,“ gratis” e su base volontaria, per cui chi lo facesse avrebbe la soddisfazione morale di considerarsi un po’ patriota, mentre gli altri dovrebbero sentirsi un po’ vigliacchi.
Si tratta di vedere, se, a 150 anni dall’unità  gli italiani, dopo aver tanto lodato quelli che per essa ci hanno spesso rimesso  la pelle, sarebbero oggi disposti, senza spendere un quattrino,  a dare una  mano alla ripresa dell’Italia solo rinunciando, una volta alla settimana, a un po’ di riposo o alla partita a briscola.                                                                                                               
                                                                                                                                    Giovanni  Zannini








       


Racconto
UNA POLIZZA TROPPO GENEROSA.                      

“Guarda, sto porco!” dice  un giorno il dr. Franco Liconti, Ispettore Liquidatore sinistri della Compagnia di Assicurazioni “Tranquilli & Sicuri” al collega della scrivania accanto. “Il rag.Modesto Faibene lo conosco  perché è stato mio capufficio. Tutto casa e chiesa, attenti a come si parlava, vietate le barzellette sporche, di bestemmie neanche parlarne, guai se uno si prendeva confidenze  con una collega, o se quella si metteva la minigonna o era troppo scollata. Ma adesso che ha 74 anni, è in pensione, e  vedovo, si è trasformato  in un mandrillo che cambia donna anche un paio di volte l’anno! E non guarda tanto per il sottile, per lui vanno bene tutte, dalle ventenni alle cinquantenni e anche oltre! Non c’è che dire, un bell’esempio di “cattolico praticante”, come lui si vantava di essere!”.
In effetti, le prove del dissoluto comportamento sessuale  del Rag. Faibene, in netto contrasto con i principi religiosi da lui sempre professati, c’erano tutte,  inequivocabili, ed erano fornite  dalle “denunce di sinistro” con successiva richiesta di rimborso  che egli inviava con una certa frequenza alla Compagnia di Assicurazioni  ”Tranquilli & Sicuri” presso la quale  la ditta ove aveva lavorato per ben 42 anni aveva stipulato una polizza contro le malattie e gli infortuni a favore  dei propri dirigenti dopo il pensionamento.
La copertura assicurativa era molto vasta e riguardava i ricoveri, gli interventi chirurgici, le degenze, le assistenze domiciliari post operatorie, le spese per esami di laboratorio, radiografie, cure riabilitative, spese oculistiche, odontoiatriche, infermieristiche ecc.ecc., insomma i benemeriti datori di lavoro presso cui il Faibene aveva lavorato (e l’auspicio è che anche molti altri seguano il loro esempio) si erano preoccupati di sollevare i propri ex dirigenti, che tanto avevano collaborato alle fortune dell’azienda,  da ogni e qualsiasi  spesa derivante dalle  magagne di salute cui essi, per l’età, erano fatalmente destinati ad andare incontro. E, si badi bene, tale assistenza così completa era prestata non solo a favore dell’ex dirigente, della moglie e dei figli, ma addirittura dell’eventuale “convivente more uxorio”: più ampia di così!
“Guarda qua”, e lo scandalizzato  liquidatore sinistri snocciola al collega le prove dell’insaziabile attività sessuale del pio Faibene.
“Il 12 ottobre 2011 chiede il rimborso di una fattura dell’importo di Euro 3. 100,00 da lui pagate alla clinica “Supersalux” per un intervento di appendicectomia  -  con relative rette di degenza – effettuato su tal Cristina Brambilla, di anni 55, casalinga, chiaramente qualificata sua “convivente more uxorio”.
Ma la Cristina  era succeduta, sempre come “convivente more uxorio”, alla  Angelica Coletta di anni 19, barista, che l’11 marzo dello stesso anno , a seguito di frattura tibio tarsica da incidente stradale, era stata sottoposta, nella stessa clinica,  ad operazione chirurgica di osteosintesi per la quale il  Faibene aveva sborsato ben 4.421 Euro dei quali chiedeva all’  assicurazione il rimborso.    
L’anno precedente, ossia il 2010 – prosegue lo scandalizzato  racconto del Liquidatore Sinistri -  il Faibene  aveva presentato la richiesta di rimborso di Euro 2.500,00 da lui pagate per un chep-up completo effettuato in data 1 settembre sulla sua “convivente more uxorio”  Diomira Recalcati, di anni 70, pensionata che, evidentemente, aveva voluto dare una controllatina al suo stato di salute. Nel 2009 poca roba  perché la sua “convivente more uxorio” di turno, Carla Paz, messicana di anni 28, operaia, si era limitata a farsi cavare un paio di denti sostituiti con altri due, con una spesa di soli 1400,00 Euro che il Faibene aveva pagato al dentista e che l’assicurazione gli aveva rimborsato. Mentre  è il 2008 che, francamente, impressiona, perché prima, il 2 febbraio, chiede il rimborso di €  3.100,00 da lui anticipate per un intervento di ulcera gastrica effettuato sulla “convivente more uxorio” dell’epoca, Caterina  Conquelli,  di anni 60, insegnante, e poi, solo pochi mesi dopo, il 7 agosto,  di  €  3.888,00  da lui anticipate per pagare cure ospedaliere (sempre nella migliore clinica cittadina) e rette di degenza a seguito di una polmonite patita dalla nuova   “convivente more uxorio”, Mariolina Sveglia, di anni 19,  studentessa della facoltà di  filosofia.
E quello che stupisce - conclude l’attento Ispettore Liquidatore Sinistri rivolto al collega, piuttosto perplesso, anche se un po’ ammirato per le “performances” amorose del vecchio dirigente   - in tutto questo tempo, manco mezzo euro di spese per la sua salute, ma migliaia per curare quella delle sue scalognate “conviventi more uxorio” che, se avessero saputo che portava iella,  si sarebbero ben guardate, in futuro,  dall’andare a letto con lui”.
Ma quello che fece traboccare il vaso fu l’ impudente richiesta di rimborso, avanzata dal Faibene,  della fattura di Euro 4.400,00 datata 20 febbraio 2012 emessa dalla solita clinica “Supersalus” relativa alla cura di una depressione in cui era caduta la Carmela L. – il nome non si può dire perché, come si vede, è una cosa delicata - educatrice, di anni 44,  pur essa “convivente more uxorio”,  che in realtà, a seguito dell’attenta lettura della cartella clinica effettuata dal Liquidatore, emerse essere nientemeno che la madre Badessa di un convento di suore che gestivano  l’ Asilo Infantile  “Casa degli Angeli”.
Di fronte ad un  tale scandalo, il Liquidatore si rivolse per istruzioni al suo direttore che lo lodò per l’attenzione dimostrata e lo incaricò di un’approfondita indagine (“discreta, per carità”) su tutta la faccenda.
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Alla fine, dall’attenta e diligente inchiesta del dr.Liconti  emerse che il Faibene, anziché   erotomane incallito, e seduttore di pie donne come tutto sembrava dimostrare, era in effetti un sant’uomo, da porre, alla sua morte, sugli altari.    
 Rimasto, solo dopo pochi mesi dal pensionamento, vedovo, si era dato alle opere di bene e,  approfittando delle generose garanzie della polizza stipulata dal suo ex datore di lavoro a favore dei suoi ex dirigenti, ed in particolare della clausola relativa ai “conviventi more uxorio”, era divenuto il benefattore di tante donne, monache comprese,  che o prive di assistenza sanitaria, o  perché non in grado di pagare i “tikets”, o perché necessitanti di ricoveri urgenti senza dover sottostare ad infinite attese, o per altre gravi necessità, egli  faceva passare per sue “conviventi more uxorio” consentendo loro di  godere (si fa per dire) di una pronta assistenza sanitaria , oltrettutto, di prima qualità.
Vorrei vedere, si era detto  con un sorrisetto, come l’assicurazione potrebbe controllare se io con le sinistrate ci vado a letto regolarmente, “more uxorio”,  o se con loro ho avuto solo un rapporto rapido ed occasionale, una scappatella, insomma:  ed aveva con tranquilla coscienza iniziato la sua benefica attività di falso “convivente more uxorio” a fin di bene.    
Il direttore dell’Ufficio Sinistri della “Tranquilli & Sicuri”,  ricevuta la diligente relazione del suo Ispettore, si affrettò ad informarne il collega dell’Ufficio Assunzioni  (quello che vigila sull’andamento  delle polizze, ossia quanti sinistri producono e quanti soldi fan pagare) ed insieme si recarono dal Direttore Generale per un lungo, approfondito consulto alla fine del quale, per evitare che altri generosi  ex dirigenti seguissero l’esempio del loro pio collega, e che la polizza divenisse una specie di pronto soccorso per donne bisognose con problemi di salute, si decise di eliminare dalla polizza incriminata la famigerata (per la Compagnia) clausola relativa ai “conviventi more uxorio”.
A seguito di ciò il Faibene fu costretto a sospendere, con rammarico,  la sua proficua attività umanitaria, ma il peggio toccò a quei ex dirigenti che una “convivente more uxorio” ce l’avevano sul serio, e che da quel momento furono costretti a pagare di tasca propria  le magagne delle loro amanti.
                                                                                                                        Giovanni  Zannini.

MAZZINI E I 1000: MERITO SUO?
Giuseppe Garibaldi compì la grande impresa della spedizione dei Mille per liberare il sud Italia dai Borboni e addivenire all’unità d’Italia: ma di chi fu l’idea? L’ebbe lui stesso, o furono altri ad ispirarlo?
E la risposta, per quanto strano possa apparire, è: Giuseppe Mazzini ed i suoi seguaci. Proprio lui, che di Garibaldi  aveva sempre avversato la strategia (l’unità d’Italia nel nome e sotto la guida dei Savoia), fedele al suo motto “Dio e popolo” che il comune sogno dell’Unità d’Italia affidava invece ad insurrezioni popolari da fomentarsi in ogni parte d’Italia e ad una guerra per bande alla quale  gli italiani, trascinati dall’esempio di tanti martiri caduti nei vari tentativi,  avrebbero  alla fine partecipato.
Già nel 1854 in un incontro a Londra, Mazzini aveva invitato Garibaldi a capeggiare una spedizione in Sicilia contro i Borboni,  trovandosi però di fronte ad un netto rifiuto del Generale che non riteneva maturi  i tempi per tale audace operazione.    
Ma a fargli mutare idea furono, alla fine, altri mazziniani siciliani, numerosi nell’isola, fra cui Francesco Crispi, Rosolino Pilo, Giovanni Corrao,  Giuseppe   La farina, Nicola Fabrizi  ed altri  che già avevano partecipato ma, ahimè, senza successo, all’insurrezione palermitana del 1848 contro i Borboni e  che  all’inizio del 1860 tornarono di nuovo alla carica.
Chiara, in tal senso, la lettera che Rosolino Pilo -  un nobile mazziniano palermitano che aveva partecipato alla rivoluzione del 1848 nella sua città e poi collaborato con Pisacane alla sua fallita avventura del  1858 convincendosi,  dopo di ciò,  della necessità di cambiare il sistema di lotta e di chiedere  aiuto a forze esterne al movimento mazziniano  - d’accordo con Francesco Crispi, invia da Genova,  il 24 febbraio 1860, a Garibaldi. Con essa lo informa di “mezzi preparati e messi  insieme in Sicilia da Mazzini che non fa questione di repubblica, per riuscire non ad un moto scomposto (come quelli soliti mazziniani….Ndr) ma ad un’azione seria”. Per questo, una volta che Garibaldi fosse riuscito a procurarsi i fondi  per  i volontari,  il necessario armamento  ed il “noleggio di bastimento”, egli  si sarebbe recato in Sicilia per iniziare “un fatto serio nel Mezzogiorno ove Voi, a nostro avviso telegrafico, dovreste farci la grazia di recarvi per capitanarci…”. E conclude: “Sì, Generale stimatissimo, è tempo che voi non veniate meno all’Italia…Dai Vostri ultimi scritti ho visto che Voi siete convinto che non resta se non l’armarsi e l’audacia e la fermezza di proposito  agli italiani per liberarsi  degli stranieri  che tuttavia baldanzosi stanno nella penisola”.
Dopo di ciò il 28 marzo 1860, assieme a Giovanni Corrao,  partì per la Sicilia ove accese  la scintilla  che portò alla fine del Regno delle Due Sicilie.      
 L’insurrezione ebbe successo nel contado, mentre a  Palermo incontrò difficoltà che mal riferite a Garibaldi, lo posero nel dubbio se partire o rinunciare.  Ma il 5 maggio, pur ignorando  se al suo arrivo nell’isola avrebbe trovato  un popolo che lo accoglieva festante o le agguerrite truppe borboniche pronte a rigettarlo in mare, si decise ed ancora una volta la fortuna gli arrise.
Rosolino Pilo, dopo lo sbarco di Garibaldi, si unì immediatamente alle sue camicie rosse in marcia verso Palermo  cadendo in combattimento sei giorni prima della presa della città.
“Missione compiuta”, dunque, di un eroe del quale poco si parla nella storia del Risorgimento Italiano ma al quale andrebbero invece attribuiti  maggiori riconoscimenti.
Alla sua memoria fu conferita, il 30 settembre 1862,  la medaglia d’oro al valor militare con la seguente motivazione:  ”Morto sul campo combattendo con valore  a S.Martino di Monreale il 21 maggio 1860”.
                
                                                                                                    Giovanni  Zannini

IL VALORE DELL’ESEMPIO
E’ strano che un uomo di  grande intelligenza  come  l’ing.Sergio  Marchionne si sia lasciata sfuggire un’ottima occasione per rendere più sicuro il successo del suo progetto di ammodernamento della Fiat di cui ampiamente  si è parlato nei giorni scorsi.
Eppure egli  ben conosce chi sia Lee Jacocca, famoso  manager proveniente dalla Ford,  che nel 1978 ebbe l’incarico di  rimettere in sesto la Chrysler  che stava allora per fallire.
In considerazione della grave crisi in cui versava  l’azienda, egli inaugurò un clima di “austerity”  decidendo,  per prima cosa,  di ridurre drasticamente i compensi suoi e di tutti i dirigenti, eliminando molti benefici di cui essi disponevano e tutte le spese di rappresentanza ritenute superflue. Pose poi mano ad un programma di riduzioni salariali  pacificamente sopportate dagli operai  che  aveva saputo con il suo esempio coinvolgere nell’opera di  salvataggio stimolando il loro spirito di attaccamento all’azienda:  e grazie alle sue capacità organizzative ed al suo genio  tecnico e commerciale, la Chrysler fu salva.
Da noi le cose  sono andate diversamente ed a chi gli faceva capire che, forse, data la crisi, sarebbe stato opportuno che rinunciasse a un po’ dei suoi guadagni stratosferici, Marchionne si è limitato a rispondere  che lui tutti quei quattrini se li merita perché lavora come un cane giorno e notte.
Purtroppo, ha mancato di psicologia perché non si è reso conto di come l’esempio sia un elemento che ieri  ha consentito alla figura di  Cristo di cambiare il mondo,   e poi  a Francesco di esaltare  l’amore fra gli uomini  o a Garibaldi, sempre alla testa dei suoi uomini,  di vincere le sue battaglie.
Sergio Marchionne, è vero,  ha vinto la sua,  ma se avesse dato  un segnale esemplare, si sarebbe risparmiato tante ansie,  la percentuale dei voti a suo favore sarebbe stata ben maggiore del 54% e, soprattutto, il clima in Fiat sarebbe stato, alla fine,  meno polemico e più disteso.     
                                                                                                                         Giovanni  Zannini

POLITICA E ALCOOL

E' noto che si raccomanda agli automobilisti di non superare ai pasti l'assunzione di più di un bicchiere di vino per evitare di provocare  incidenti stradali troppo spesso gravi e mortali mentre si è alla guida di un mezzo motorizzato.
Ma nel suo recente libro di memorie “A Journei”, l’ex primo ministro inglese Tony Blair scrive che,   per darsi coraggio ed uscire “dall’incubo” di dover decidere se  affiancare gli Stati Uniti nella guerra d'aggressione a Saddam Hussein contro il volere della maggioranza degli inglesi “la sera, prima di cena, bevevo un whisky o un gin tonic e, durante il pasto, più di un bicchiere di vino per rilassarmi”.    
Troppo, evidentemente, per tutti ed ancor più per un uomo politico sul quale pesano gravi responsabilità, prima fra tutte quella di collaborare per il mantenimento della pace nel mondo.
E’ dunque  colpa dell’alcool troppo abbondantemente ed imprudentemente assunto  se l’ex Primo Ministro inglese non si è accorto delle menzogne inventate da George Bush e dai suoi complici per giustificare  l’intervento militare che ha provocato una guerra con  danni incalcolabili di vite umane, la distruzione di enormi risorse economiche ed alimentato l’odio delle popolazioni mediorientali per il mondo occidentale?.     
Ancor più grave sarebbe il fatto che egli abbia difeso la sua decisione “per il timore che Saddam Hussein  potesse produrre armi di distruzione di massa” riconoscendo con ciò di essere caduto -  pur potendo disporre di un raffinato “Intelligence Service” in grado d’ informarlo su come effettivamente stessero le cose, o addirittura,  nonostante ciò  -  nel trabocchetto tesogli dal tradizionale alleato d’oltre mare che abusò clamorosamente della fiducia in lui riposta.
Quanto sopra sta a dimostrare, ove ce ne fosse bisogno, quale sia la pericolosità dell’abuso di alcool che può addirittura provocare danni in ambito internazionale, ben più gravi di quelli, già drammaticamente pesanti, delle stragi del sabato sera.
Vi è da rammaricarsi che nel 2003 Tony Blair non abbia avuto occasione di transitare, dopo cena,  per le strade italiane perché, in tal caso, la nostra Polizia Stradale avrebbe anche potuto metterlo  per un pò al fresco, per fargli smaltire la sbornia  ed impedirgli di combinare altri guai.
                                                                                           Giovanni Zannini   


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Racconto
UN OSSERVATORIO STRATEGICO

L’”Ufficio S.S.T.A. – Studi Strategici Tattici Ambientali”  del Quartier Generale di R. (non posso dire di più per non rischiare di finire davanti a qualche Tribunale Militare) aveva sede al 2° piano di un vecchio palazzo sito in una via stretta e poco illuminata.
Di giorno, sentinella di guardia,   portone d’ingresso e finestre aperte, andirivieni di militari e di  civili : di sera,  ad una certa ora, portone sbarrato e finestre chiuse, non c’era un’anima.
Invece, non si vedeva,  ma ce n’erano sempre due, quelle delle sentinelle di guardia al “tesoro” chiuso in una stanza del piano occupato dall’”Ufficio S.S.T.A”.
In  cosa consistesse questo “tesoro”, era un mistero, lo sapeva solo il Colonnello che ne era il responsabile e nessun altro:   piani di difesa – e magari anche d’attacco -,  armi segrete, documenti compromettenti, “dossier” scottanti, segreti di Stato, notizie sugli attentati, informazioni riservate riguardanti importanti personaggi? Non si è mai saputo: di certo c’era solo che  le due sentinelle  avevano l’ordine  di percorrere avanti e indietro il lungo corridoio sul quale affacciava la stanza del “tesoro” e di fermare chiunque vi si avvicinasse o, peggio, tentasse di entrarvi. Gli ordini erano severissimi: se necessario, aprire il fuoco.
Era un servizio piuttosto pesante e noioso, soprattutto d’estate, con il  gran caldo, un servizio che i soldati, a turno, facevano malvolentieri maledicendo il “tesoro” e tutto quello che ci poteva esser dentro,  ma un’estate (non posso rivelare l’anno per i motivi indicati più sopra) avvenne una cosa stranissima: i soldati facevano a botte per fare il servizio di guardia al “tesoro”. La cosa non sfuggì ad un giovane ufficiale di picchetto insospettito dal  comportamento anomalo della truppa: e, timoroso che ci fosse sotto qualcosa di losco e di pericoloso, decise di vederci chiaro.
Una sera d’estate – erano circa le 11 di sera – salito al 2° piano del Quartier Generale,  aprì con ogni cautela la porta  che  immetteva nel lungo corridoio malamente illuminato ove  avrebbero dovuto esserci le due sentinelle di guardia al “tesoro”.
Nulla, silenzio, di tomba. Proseguì a passi felpati, impugnando la pistola d’ordinanza, sicuro di trovarsi di fronte a qualcosa di grosso, e di essere protagonista di un fatto straordinario e di un avvenimento di cui si sarebbe forse interessata la storia.
Arrivato dinanzi all’ufficio del Colonnello Comandante, i suoi sospetti ingigantirono: la porta era aperta, spalancata!
Col cuore in gola, ma pronto a tutto, senza far il minimo rumore, entrò.
Le  sentinelle erano comodamente adagiate sulle due poltrone  -  sulle quali il Colonnello faceva  solitamente  accomodare le persone di riguardo – che avevano collocato  di fronte alla finestra aperta che dava sulla stretta strada, ed i due giovani vi  si erano comodamente assisi, guardando al di là della finestra, con l’aria soddisfatta di chi osserva, in prima fila, uno spettacolo  molto interessante.
Così interessante che non  si accorsero  dell’arrivo dell’ufficiale che, giunto alle loro spalle, volle, a sua volta, dare un’occhiata.
Nel palazzo di fronte, attraverso la finestra pure aperta di una camera da letto ben illuminata, posta alla stessa altezza dell’ufficio del Colonnello, due giovani, una bella biondina lei, un bel maschietto lui – due freschi, insaziabili   sposini, il candido mazzolino di fiori della sposa pendeva nel vano  della finestra -,  si esibivano in schermaglie amorose degne del più rinomato locale a luci rosse della città.
Allora l’ufficiale di picchetto capì: i due sposini, convinti dalla mancanza di qualsiasi segno di vita nel palazzo di fronte, certi che,  di notte,  i Quartier Generali  sono deserti,  complice l’afa estiva lasciavano  la finestra spalancata, il che consentiva di mettere  in bella vista le loro appassionate, ripetute e puntuali notturne  “performances” amorose.  
A quel punto l’ufficiale di picchetto, per nulla distolto da quella visione, emise un tonante “e allora….!!!” che fece zompare dalle loro comode poltrone le due sentinelle che tentarono di abbrancare i  fucili che avevano  abbandonato sullo scrittorio del Colonnello, con l’intento di uccidere l’intruso il quale, fattosi riconoscere,  li sbattè sull’attenti pallidi e rintronati in attesa della bufera.

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Il giorno dopo il fattaccio,  senza perder tempo, le due sentinelle,   a seguito del dettagliato rapporto dell’ufficiale di picchetto che raccontò per filo e per segno al Colonnello tutto quanto era accaduto, furono condannate a  60 giorni di cpr (camera di punizione di rigore) per “violata consegna”.
Il Colonnello, da parte sua, volle rendersi personalmente conto della situazione e, recatosi una notte nel suo ufficio, potè constatare  che, in effetti, esso costituiva un ottimo osservatorio dal punto di vista  ludico, ambientale e strategico.

                                                                            Giovanni Zannini 




Racconto

L A   F O R Z A   D E L L A    L E G G E

Nella piazza alcuni  motociclisti effettuavano assordanti caroselli,  una prostituta adescava i passanti, alcuni ladri avevano sfondato una vetrina e quattro manigoldi, sequestrato un uomo, lo stavano trascinando via.
Sull’aiuola erbosa  due giovani semi nudi amoreggiavano scopertamente mentre, poco distante, due ceffi si battevano in  duello .
Finalmente, comparve il Vigile, il rappresentante della Legge, che avrebbe ricostituito l’ordine, punito i colpevoli, ridato fiducia ai cittadini.
Egli  vide tutto: sdegnato, estrasse con mossa rapidissima il blocchetto delle contravvenzioni e, compilatone  un foglietto, corse ad inserirlo sotto il tergicristallo di una Fiat 500 ferma in sosta vietata  in un angolo morto della piazza.
                                                                                                     Giovanni  Zannini

lunedì 25 giugno 2012


GLI EBREI IN UGANDA: UN'OCCASIONE MANCATA?

Nell'agosto 1903 Theodor Herzl (1860-1904), fondatore del sionismo, propose al 6° Congresso Sionista in corso a Basilea nell'agosto  1903 il suo “Progetto Uganda” che prevedeva l'insediamento in Africa del futuro stato ove  finalmente riunificare gli ebrei sparsi nel mondo.
Il “Progetto” venne approvato con 295 voti a favore, 178 contrari  e 98 astenuti: ma la morte, l'anno successivo,  di Herzl consentì il prevalere di quanti si erano opposti al suo progetto che venne abbandonato dal 7° Congresso Sionista tenutosi  ancora a Basilea nel luglio-agosto 1905. Esso - come scrive Eli Barnavi nella sua “Storia d'Israele” - rifiutò la “chimera africana” e riaffermò che “il sionismo  non ha senso senza Sion”.       
Herzl, che  si era assunto la missione di dare una patria agli ebrei,  e ricercava il luogo  in cui poterla insediare,  aveva anzitutto condotto trattative per l'acquisto della Palestina con il sultano Abdul Hamid che ne era all'epoca proprietario per  realizzare il sogno di far sorgere il nuovo stato nella biblica “terra promessa”.
Fallite le trattative per le pretese eccessive del sultano, egli declinò, per la mancanza delle necessarie risorse idriche, l'offerta dei governi inglese ed egiziano di installarsi nel Sinai:  e l'assenza, all'epoca, delle moderne tecniche per l'utilizzo delle acque marine - che hanno poi consentito di trasformare la Palestina in una terra fertile e verdeggiante -  fa rimpiangere che non si sia potuta realizzare tale soluzione in un territorio prossimo a Gerusalemme e ricco esso stesso di memorie vetero-testamentarie (basti pensare al monte Sinai, il mitico Gebel Musa).
Altre ipotesi al difuori della Palestina , fra le quali l'insediamento in Argentina e pure negli Stati Uniti in un territorio circostante il Mississipi furono prese in considerazione fino a che, per risolvere il problema, la Gran Bretagna propose a Herzl  l'Uganda, all'epoca sotto suo protettorato.   
In un territorio poco densamente popolato si produce caffè, cotone e canna da zucchero, grandi foreste sono ricche di foreste  legname pregiato,  mentre  miniere forniscono oro, stagno, rame ed altri minerali. Oltre a ciò, è dotato di una ricca rete idrografica ideale per l'irrigazione che avrebbe consentito  all'intelligenza, alla laboriosità ed all'intraprendenza dei coloni ebrei supportati da notevoli disponibilità economiche, di trasformare le savane, le steppe e le foreste ugandesi in un Eden così come hanno poi saputo fare nei  deserti della Palestina.
Alla luce di quanto sopra, del sangue sin qui sparso  in medio oriente e di quanto ancora potrebbe accadere ove i difficili  negoziati in corso dovessero ancora una volta malauguratamente fallire,  vi è forse da rammaricarsi che  il “Progetto Uganda” non sia andato a buon fine.
                                                                                                     Giovanni Zannini


martedì 12 giugno 2012


Taccagna l’URSS con i compagni spagnoli nella guerra civile
ARMI SI, MA PAGAMENTO SULL’UNGHIA, E ANTICIPATO

La guerra civile spagnola ebbe inizio il 17/18 luglio 1936 con il “pronunciamiento” - la rivolta dei militari in Marocco Spagnolo  dei quali assunse il comando il generale Francisco Franco Bahamonde - contro il governo legittimo del ”Fronte Popolare” di sinistra uscito vittorioso dalle elezioni del 16 febbraio 1936.
E, come tutte le guerre, vide un enorme dispendio, oltre che di vite umane, anche di armi e di materiale bellico.
Dato il sottosviluppo industriale spagnolo degli anni 30 e, quindi, l’impossibilità di produrre armamenti (con l’eccezione di alcune fabbriche nei Paesi Baschi ed in Catalogna), le forniture militari dall’estero erano un necessità e per poter prevalere gli uni sugli altri i due fronti contrapposti  si dovettero rivolgere  a nazioni simpatizzanti per le due ideologie in contrasto: i nazionalisti di Franco all’Italia fascista ed alla Germania nazista; il governo spagnolo nazionalista,  di sinistra, all’Unione Sovietica.
Con ciò il conflitto assunse una dimensione internazionale  nonostante l’esistenza di un “Comitato del non intervento” (cui parteciparono 24 nazioni fra cui principali Inghilterra, Francia, Germania, Italia e Unione Sovietica) che, sorto per “sterilizzare” la guerra civile spagnola vietando ogni afflusso di armi nella penisola, si manifestò organismo equivoco da nessuno rispettato e men che meno da Italia, Germania ed URSS,tanto da esser definito  dal Pandit Nehru “la suprema farsa del nostro tempo”.
Ma gli aiuti forniti da Italia e Germania ai nazionalisti del ribelle generale Franco, e dall’URSS al legittimo governo repubblicano, non furono gratuiti gesti di solidarietà fra gente che la pensava allo stesso modo, sibbene vere forniture commerciali che esigevano il pagamento di un prezzo.
L’Italia, oltre a circa 50.000 volontari che erano, in realtà, soldati del regio esercito e camicie nere delle divisioni        “Littorio”, “23 Marzo” e “Fiamme Nere” con molti reduci dalla guerra d’Abissinia, fornì da 7 a 800 aerei (fra i piloti, Bruno Mussolini), carri armati leggeri (inferiori dunque a quelli russi), artiglieria mobile, autoblindo, autocarri ed anche 90 unità navali fra cui sommergibili e cacciatorpediniere.
Da “La guerra civile di Spagna” di Harry Browne si apprende che gli aiuti italiani furono di tre volte superiori a quelli forniti dalla Germania, che il pagamento avvenne a rate mensili e che dopo molto tempo, alla fine del 1967 l’Italia addivenne ad una transazione con i camerati franchisti  accontentandosi di incassare un terzo del credito maturato, mentre i tedeschi trattarono con i nazionalisti con modalità di tipo più affaristico.
La Germania aveva fornito 12000 uomini molto ben mimetizzati cui era severamente proibito indossare le uniformi germaniche, un migliaio di aerei (gli “Junker 52” da trasporto - cui si deve, con il primo ponte aereo della storia,  il trasferimento dell’Armata d’Africa di Franco dal Marocco al sud della Spagna - bombardieri “Heinkel 111” e “Junker 52”, ed  i velocissimi “Messerschmitt 109” da caccia in grado di competere con  i “Chatos” ed i “Rata” russi. Notevole il contributo alla vittoria franchista dato dalla tedesca “Legione Condor”, unità mista aerea e carrista che contava 6000 uomini, responsabile del bombardamento su Guernica, ed i cui carri armati riuscirono a contrastare validamente  quelli russi.
Così, alla fine, scrive Browne “i nazionalisti combatterono la guerra soprattutto a credito“ dei tedeschi ed ancor più degli italiani, al contrario di quanto accadde  ai repubblicani con i loro compagni sovietici.
La Russia, oltre a provvedere al reclutamento dei volontari internazionali attraverso  il “Cominform” e ad inviare 500 “consiglieri militari”, aveva costituito alla fine di agosto 1936, su ordine di Stalin, un apparato incaricato di far pervenire ai repubblicani spagnoli aerei, carri armati, autoblindo, artiglierie ed altre attrezzature militari cosicché la maggior parte degli equipaggiamenti dell’esercito repubblicano era russa.
Ma per il pagamento di queste forniture i sovietici, mettendo da parte ogni solidarietà in nome del comune ideale, si dimostrarono freddi, intransigenti e malfidenti, in stile con la peggiore mentalità commerciale capitalistica.
I primi aiuti militari dell’URSS (carri armati, autoblindo ed artiglieria) arrivarono ai repubblicani spagnoli il 15 ottobre 1936 nel porto di Cartagena (base militare della Marina repubblicana) a bordo della nave “Konsomol” solo dopo che un decreto del ministro delle finanze Juan Negrin, firmato dal Presidente spagnolo Manuel Azana e mai sottoposto all’approvazione delle “Cortes” (il parlamento spagnolo) aveva autorizzato il trasferimento dell’oro della Banca di Spagna in Russia a garanzia del pagamento delle future forniture militari.
E in un inserto-storia n.8/1989 della “Domenica del Corriere” dal titolo “La guerra di Spagna” a firma Ricciotti Lazzero si legge che pochi giorni dopo  il generale russo Alexander Orlov, a capo di una missione di agenti segreti  ed esperti militari, provvide a far caricare il tesoro su di una nave sovietica (la stessa “Konsomol”?) diretta nel porto di Odessa donde il prezioso carico fu trasbordato su di un treno che lo portò a Mosca. Un messaggio cifrato dello stesso Stalin, aveva infatti ordinato a Orlov di disporre il trasferimento di tutte le riserve auree spagnole in URSS e, oltre a ciò,  senza rilasciare alcuna ricevuta.
Si trattava di 7800 cassette di legno tutte eguali contenenti 510.079 chili d’oro in lingotti e monete del valore di 1 miliardo e 582 milioni di pesetas dell’epoca costituenti il 78% del tesoro della Banca di Spagna.
In tal modo i sovietici si erano fatti pagare pronta cassa, in via anticipata ed anche, a quanto si dice, guadagnandoci sopra: fu infatti calcolato un divario contabile a favore della Russia fra il prezzo  degli  armamenti da essa forniti ed il valore dell’oro dato in pagamento.
Oltre a ciò, i russi, assieme a materiale bellico nuovo e moderno, rifilarono ai loro compagni spagnoli anche pezzi di artiglieria  obsoleti ed armi portatili antiquate.
Scrive Adriano Bolzoni nell’articolo “1939: Morire a Madrid – Al resto pensò Stalin”, che, all’arrivo a Mosca del treno carico dell’oro spagnolo “”..Stalin offrì un sontuoso ricevimento e che tra le risate di tutti, Nikolai Yezhov – detto “Il nano sanguinario” - capo della polizia segreta e della NKVD disse, brindando:”Non rivedranno mai più il loro oro così come non vedono i propri orecchi.” “”          Giovanni Zannini                                                  



LA STRAGE DI THIENE

L'inchiesta, non ancora pubblicata, dello storico  Lino Scalco che ha nuovamente portato alla luce la strage di  Codevigo (rievocata sul “Mattino” dello scorso 25 novembre) ove,  nel periodo dal 29 aprile alla fine di maggio 1945  furono trucidati dai partigiani comunisti 136 fascisti o presunti tali (tale cifra è la più attendibile di fronte ad altri che parlano di 600 e perfino di 900 vittime), riporta alla memoria quanto avvenne a Thiene nello stesso periodo,  ove viene a galla, con sorpresa e rammarico, il nome di  un noto personaggio ritenuto dai più insospettabile, coinvolto invece nelle tristi vicende della Repubblica Sociale Italiana.     
Ne parla  Danilo Restiglian nel suo “Thiene nel periodo della seconda guerra mondiale” (Ed. Grafiche Leoni di Fara Vicentino - 2006) ove si sofferma sugli  avvenimenti avvenuti  a Thiene dopo il 25 aprile 1945, frutto di una vendetta perpetrata da partigiani comunisti che con il loro comportamento infangarono in questo caso il nome nobile e glorioso della Resistenza.
Verso la fine del 1944 l’avanzata degli alleati che si avvicinavano pericolosamente all’Emilia-Romagna spinse molti fascisti di quella regione ad abbandonarla ed a cercare scampo verso il nord.
Fu così che a Thiene si verificò un imprevisto concentramento di militari della Repubblica Sociale Italiana:  un reparto della “X Mas”, la III compagnia dei “Volontari di Francia “ (un singolare corpo costituito da figli di emigranti in Francia che, per un malinteso senso di patriottismo, erano accorsi in Italia assieme a militari del disciolto Regio Esercito che al momento dell’armistizio si trovavano all’estero e che desideravano continuare a lottare a fianco dell’alleato tedesco), la “XXII Brigata Nera Eugenio Facchini” proveniente da Bologna e la “XXV Brigata Nera Italo Capanni” proveniente da Forlì.
Tutti, addetti soprattutto alla repressione della lotta partigiana.
Comandante della “Capanni” era il dr. Giulio Bedeschi  che nel dopoguerra pubblicò con grande successo “Ventimila gavette di ghiaccio”, il racconto della drammatica ritirata in Russia della divisione alpina “Julia” alla quale apparteneva come ufficiale medico.
Rientrato in Italia, dopo l’armistizio dell’8 settembre 1943 aveva  aderito alla Repubblica Sociale Italiana coprendo posti di responsabilità  a Forlì: direttore  del settimanale fascista “Il Popolo di Romagna”, quindi Segretario Federale del partito e, infine, comandante della “Capanni” definita dallo storico della Resistenza vicentina Benito Gramola nel suo “La 25° brigata nera  A.Capanni e il suo comandante Giulio Bedeschi – Cierre Edizioni”  la peggiore delle 40 brigate nere italiane. 
Dal libro di Restiglian nulla risulta circa l’attività svolta da questa brigata in Provincia di Forlì, ma di sicuro non se ne aveva un buon ricordo a giudicare dall’odio accumulato da chi dopo la liberazione le diede  la caccia con tanta ferocia.
Per quanto riguarda Thiene, l’autore ricorda gli edifici in  cui i brigatisti si insediarono, e, fra questi, “ la scuola di avviamento al lavoro dove venivano effettuati gli interrogatori (e, purtroppo, anche torture a partigiani o presunti tali)”.
Non si sa come sia scampato alla strage di molti suoi uomini perché, scrive sempre Reschiglian, “nessuna sua biografia (almeno fino al 2006 – n.d.r.) accenna al periodo 1943-45 ed agli anni successivi. Nel 1966 pubblicò “Il peso dello zaino” a cui seguirono  “La rivolta di Abele” e “La mia erba sul Don”. Morì a Verona nel 1990”.
Dopo il 25 aprile 1945 la caccia al fascista ha inizio ed  una “Squadra della morte” composta da  partigiani comunisti di Forlì vanno in trasferta a Thiene decisi a farla  pagar cara a quelli della “Capanni”: una vera e propria spedizione punitiva.
Giunti a Thiene,  si  presentano  alle carceri improvvisate ove sono detenuti i brigatisti, e ne pretendono la consegna, ma il prof. Arnaldo Giovanardi, responsabile della loro custodia,  subodorando  violenze nei loro confronti, si oppone.
Allora, il 17 maggio,  i forlivesi tornano alla carica esibendo documenti della polizia Ausiliaria Italiana che affiancava all’epoca la Polizia Militare Alleata  ed a quel punto Giovanardi non può evitare la consegna di 14 brigatisti  indicati in un regolare elenco firmato dal CLN di Forlì.
I partigiani forlivesi caricano i prigionieri su di un camion affermando di volerli condurre a Forlì per essere giudicati,  ma, appena usciti da Thiene, il veicolo prende la strada della montagna con l’intento di  raggiungere  a Lusiana una voragine detta il “Buso della Spaluga” scelto per l’esecuzione: ma a causa di un guasto il mezzo si ferma nei pressi della frazione Covolo ed i prigionieri vengono fatti scendere e fucilati  sul posto.
Due giorni dopo, il 19 maggio, vengono prelevati dalle carceri altri 11 brigatisti di Forlì che, caricati su di un autocarro,  vengono avviati verso il Monte Cimone e, giunti in località Costalunga di Arsiero, uccisi a colpi di mitra.
Per il giorno successivo era stata  programmata l’ulteriore eliminazione di alcuni fascisti di Thiene assieme ad altri brigatisti di Forlì che avrebbero dovuto essere fucilati e gettati anch’essi nel “Buso della Spaluga” fuori Lusiana, ritenuto evidentemente dai carnefici forlivesi  il luogo ideale per uccidere i prigionieri e  far sparire le loro tracce (come nelle tristemente note “foibe” istriane): ma il deciso, coraggioso intervento del dr. Giovan Battista Galvan, farmacista di Lugo di Vicenza valse ad evitare quest’altra  barbarie.
Ma il “Buso della Spaluga” conserva forse i resti di  vittime delle vendette post 25 aprile 1945 che, chiosando “Il sangue dei vinti” di Giampaolo Pansa, potrebbero definirsi   “le ossa dei vinti”?
La speleologo Fabrizio Bassani del “Gruppo Grotte Giara Modon” di Valstagna, interpellato, riferisce che il gruppo di Valstagna  e molti altri gruppi veneti hanno più volte disceso la voragine  del “Buso”  sul cui fondo sono presenti diecine di metricubi di detriti  - per lo più immondizie - per cui non è possibile accertare, a breve scadenza,  la presenza di resti umani. 
A seguito poi dell’eccidio di Schio ove furono trucidati  in carcere 50 prigionieri politici, tutti i fascisti detenuti nelle varie prigioni mandamentali, e, quindi, anche quelli di Thiene,  furono messi al sicuro nella caserma “Chinotto” di Vicenza e le stragi finirono.
Resta da chiarire una differenza fra le esecuzioni di Thiene e quelle di Codevigo che però nulla toglie alla loro efferatezza.
Le  prime furono opera di una squadra di partigiani indipendente ed autonoma in trasferta a Thiene, mentre le seconde  furono eseguite da partigiani inquadrati nelle forze militari alleate o operanti al loro fianco.
Come ricorda Lino Scalco nella sua inchiesta, infatti, il 29 aprile 1945 giunsero a Codevigo  gli inglesi dell’ottava armata britannica assieme al Gruppo di combattimento  “Cremona” del Regio Esercito e la 28° brigata Garibaldina “Mario Gordini” al comando di Arrigo Boldrini (nome di battaglia “Bulow”).
Sia i garibaldini della “Gordini” che molti effettivi del Gruppo “Cremona” erano originari del ravennate ove avevano imperversato  fascisti poi rifugiatisi a nord, molti a Codevigo e nei paraggi , incalzati dall’avanzata alleata.
E la vendetta, come a Thiene, esplose lasciando una triste scia di sangue che si esaurì alla fine di maggio 1945 allorchè  gli uomini della 28° brigata Garibaldina giunta con i liberatori, ma portatori di morte, lasciarono Codevigo.
                                                                                 Giovanni Zannini

domenica 10 giugno 2012


QUANDO IL VECCHIO TESTAMENTO FA RIDERE
Non  vorrei che, dato il titolo, qualcuno mi prenda per  ateo, anticlericale, materialista e così via, mentre io sono, e mi onoro di esserlo, cattolico, apostolico e pure romano. Solo che il “Vecchio Testamento” (che è la prima  parte della Bibbia, la seconda è il Vangelo)  è un libro antichissimo che racconta  la storia dell’alleanza stretta da Dio con il popolo eletto per mezzo dei Patriarchi e di Mosè, e che annuncia e prepara le venuta del Redentore. La sua lettura è interessantissima dal punto di vista  religioso e letterario, ma essendo   un libro di storia, esso registra non solo fatti ed episodi esemplari , ma pure faccende che esemplari non lo sono proprio come  le corna, il concubinaggio, i tradimenti e le infedeltà, o le violenze, i massacri e  le guerre continue  ivi contenute,  fatti tutti riferiti ad usi e costumi  (che Gesù Cristo nel Vangelo si preoccupò poi di riformare) di tribù antichissime di livello culturale molto basso  e semi barbaro, per non dire barbaro del tutto. Donde il pericolo (ed è questo il motivo per cui la Chiesa cattolica  proibì fino a non molti anni fa la lettura del Vecchio Testamento) che, essendo esso definito  il “Libro sacro” per eccellenza,  qualche lettore  poco colto e preparato consideri  “sacre” anche le molte porcherie che ci sono dentro: insomma,  che taluni episodi siano raccontati in questo libro sacro non vuol dire che tutto quello che vi è contenuto sia da approvare e da raccomandare, anzi!
E dal momento che il Vecchio Testamento  è un libro che documenta accuratamente tutto quanto accaduto in secoli di storia,  andiamo a vedere alcuni fatti ed episodi  ivi riportati  che sono francamente buffi , a cominciare dal libro della Genesi, al capitolo  9 dove si parla di Noè, quello della famosa Arca.
Allorchè, terminato il diluvio, ne discese,  si diede a coltivare la terra e piantò anche una vigna che produsse molta uva dalla quale ottenne dell’ottimo vino, tanto  buono che, per averne tracannato più del necessario, una volta “s’inebriò e giacque scoperto nella sua tenda”. Il figlio minore Cam che si era preoccupato di andare a vedere come stava il padre,  entrato nella tenda se lo trovò di fronte addormentato, ebbro,  tutto scomposto, che russava,  e con le “vergogne” in bella vista.  Allora  preoccupato, ne informò  i fratelli Sem e Jafet   i quali, camminando all’indietro per non vedere, a loro volta, le “vergogne” del  genitore, lo coprirono mettendo così fine allo scandalo.  Ma quando, passata la sbornia, Noè apprese che Cam aveva visto le sue ”vergogne”, si arrabbiò moltissimo e maledì  lui e tutti i suoi discendenti (e questo, si legge nella nota di una vecchie edizione del Vecchio testamento, è il motivo per cui “la stirpe di Cam” (ossia, i negri), ha sempre tenuto fra i  popoli l’ultimo luogo”).
Francamente, non capisco di che colpa si fosse macchiato il povero Cam, mentre  era invece Noè che doveva starci  attento a non sbronzarsi : il che, tra parentesi, in contrasto con la teoria dominante che l’alcool   fa male, non gli precluse una lunga   vecchiaia dato che visse per ben 950 anni.
Ma andiamo avanti con la Genesi ove al capitolo 12 troviamo Abramo che dovendo emigrare in Egitto perché dalle sue parti si moriva di fame, raccomanda  alla  moglie Sara, “bella e desiderabile”,  di non parlare con gli egiziani del loro coniugio perché in tal caso essi gli avrebbero fatto la pelle  per renderla libera e impalmabile. Come previsto, siccome la Sara era proprio un gran bel pezzo di figliola, la fama della sua bellezza giunse all’orecchio del Faraone il quale se ne innamorò,e, accertato che era  libera perché, come da lei affermato, Abramo era  solo suo fratello, se la sposò. Quindi,  per riguardo a lei, trattò bene  Abramo,  divenuto suo cognato,  il quale “ebbe pecore e buoi e asini e servi e serve  e cammelli” e, aggiungo io, diede origine al fenomeno detto “Parentopoli” che prospera tuttora.
Ma il Signore  si arrabbiò molto con il Faraone perché andava a letto con la moglie di Abramo  e  gli mandò un mucchio di guai. Francamente non si capisce perché tanta ira dal momento  che il Faraone, pur con tutti i suoi torti,  in questo caso era in buona fede, tanto è vero che, a sua volta, se la prese con Abramo e, dopo avergli rinfacciato di aver mentito sul reale stato civile della donna,  lo scacciò dall’Egitto  riconsegnandogli  la Sara che, dopo aver assaporato gli agi del letto del Faraone,  riprese tranquillamente a giacere  in quello  più modesto e meno comodo sotto la tenda di Abramo.
Nel  “Deuteronomio” , al capitolo 25, sotto il titolo “Leggi di onestà e di giustizia”,  si fa  poi il caso di una moglie che, per venire in aiuto del  marito che si  sta menando con un altro, nel trambusto della colluttazione dà una energica strizzata alle “vergogne”  (a riecco le “Vergogne”, attributi  peraltro molto utili e divertenti delle quali io non mi vergogno affatto) dell’avversario che le erano venute a tiro, mettendolo in fuga. A questo punto ti aspetteresti un elogio per la donna che ha dimostrato tanto coraggio ed il suo  grande amore per il marito in pericolo: invece no, perché  in tal caso, allorchè una donna avesse toccato  le “vergogne”  di un uomo che non fosse suo marito, la legge di allora imponeva a quest’ultimo  di tagliare la mano della sua sposa “ senza aver di lei compassione alcuna”.
Evidentemente era meglio che, in tali circostanze, le mogli lasciassero tranquillamente ammazzare i mariti piuttosto che contagiare l loro mani  con  contatti impuri,  anche se involontari e giustificati dalla legittima difesa del coniuge che stava per rimetterci la pelle.
Ma torniamo al libro della “Genesi” dove, al capitolo 29,  assistiamo ad un gran pasticcio.
Un certo  Labano, un signorotto di Haran,  accoglie affettuosamente il nipote Giacobbe  al quale, dopo un mese di diligente lavoro al suo servizio, chiede cosa desideri  in compenso.   Occorre sapere che Labano aveva due figlie: la maggiore, che si  chiamava Lia, era piuttosto racchia e aveva perfino “gli occhi cisposi”, mentre la minore, Rachele, era un fior di ragazza da perderci la testa: e Giacobbe, in risposta alla domanda dello zio, gli dice che sarebbe soddisfatto se, dopo aver lavorato per altri sette anni alle sue dipendenze,   gli avesse dato  in  sposa la bella  figlia Rachele. Labano accetta e Giacobbe, dopo aver sgobbato dalla mattina alle sera per lunghi sette anni che “per il grande amore che le portava gli parvero pochi giorni”, chiede ed ottiene dallo zio di poter finalmente, come promesso,  impalmare l’ agognata Rachele. Si celebra con grande fasto  il matrimonio ed alla fine lo sposo, nel buio della camera nuziale, incontra finalmente la sposa   che,  avvolta, come allora usava, in un velo, è in trepidante attesa. Tutto si svolge regolarmente ma, al risveglio, il povero Giacobbe ha l’amara sorpresa di trovarsi accanto gli occhi cisposi  della Lia al posto di quelli  splendenti della Rachele.  
Ci resta male, e lo dice, risentito, al suocero, il quale si giustifica dicendo che ha dovuto ricorrere al sotterfugio perché “da noi  non si usa far maritare, avanti delle maggiori, le minori”, per cui, essendo stato, il matrimonio con la Lia  consumato, non c’era più niente da fare . Al più, gli dice,  “finisci la settimana di questo  sposalizio, poi ti darò anche l’altra per il servizio che mi presterai per altri sette anni”. Giacobbe,  ancora una volta accettò e,  passata la settimana  dedicata, non si sa con quanta soddisfazione, alla Lia,   ”giunto finalmente al possesso della bramata, amò più Rachele che Lia (e ci credo - n.d.a), e servì a Labano per altri sette anni”.
Per  chi voglia poi sapere come andò a finire, dirò  che a far figli ci riuscì meglio la moglie racchia di  quella  bella , la quale, per poter, in qualche modo,  dare un figlio a Giacobbe, dovette ricorrere, e con successo,  alla disponibilità di una sua ancella  che autorizzò a giacere con lui, dando origine alla modalità procreativa oggi definita “dell’utero in affitto” cui taluni ricorrono, ma con  la piccola differenza che, allora,   le ancelle il loro utero lo mettevano a disposizione gratuitamente,  mentre oggi tale prestazione, a quanto dicono,  costa molti ma molti quattrini.
E qui mi fermo, anche se  altre occasioni per ridere , leggendo il Vecchio Testamento, non mancano, e, diciamolo,  vengono a proposito perché uno, dopo aver letto pagine e pagine dal contenuto impegnativo, ha pur il diritto di farsi quattro risate.
                                                                                                                    Giovanni  Zannini


GIORNALISTI CONDOTTIERI GARIBALDINI

Al giorno d'oggi i giornalisti possono  seguire come inviati le operazioni militari al seguito delle truppe combattenti sia pure con molte limitazioni rispetto a quei corrispondenti di guerra che nel passato spesso riuscivano anche ad andare in prima linea.
Nel nostro Risorgimento, soprattutto nell'ambiente garibaldino - particolarmente vivace -  vi furono invece almeno due casi nei quali  giornalisti dotati di grande coraggio oltre che di spirito d'avventura, seppero impugnare, oltre alla penna, anche la spada, con risultati assai brillanti anche dal punto di vista militare.

Uno di questi fu Nandor Eber (1825-1885) di origine ungherese naturalizzato inglese, patriota che si era battuto per la libertà dell’Ungheria dall’Austria e che  si era rifugiato con altri compatrioti in Italia combattendo per la sua libertà dando vita (assieme al col. Istvan Turr) alla valorosa “Legione ungherese” che si battè agli ordini di Garibaldi nel Risorgimento italiano. Nel 1860 lo troviamo accreditato come corrispondente inglese del “Times” a Palermo, ed in tale veste è in grado di fornire a Garibaldi sbarcato  con i suoi Mille in Sicilia e che si accinge ad attaccare,  l’esatta dislocazione delle truppe borboniche davanti a  Palermo, spiegando  la via migliore per entrare in città. Queste preziose informazioni consentono la sua conquista ed in premio della sua preziosa collaborazione Garibaldi lo nomina colonnello brigadiere affidandogli, in sostituzione del col.Istvan Turr che si era ammalato,  il comando della 15° divisione della quale fa parte la “Legione Ungherese”. Attraversando il centro dell’isola, passando per Caltanisetta e Castrogiovanni, la divisione di Eber raggiungerà il 15 luglio 1860 Catania già abbandonata dai Borboni che l’avevano saccheggiata.
Resta da dire che, passato lo stretto, e risalita verso il nord, la legione al comando di Eber e di Turr (nel frattempo risanato) partecipa in maniera determinante alla battaglia campale del Volturno e Garibaldi dirà:”La legione ungherese che ho l’onore di comandare  ha dato prova di dedizione ed eroismo  nella scia della gloria del suo popolo”.

Altro protagonista di tale singolare filone giornalistico-militare risorgimentale, fu
 Antonio Gallenga, personaggio certamente esuberante -   n. Parma nel 1810, figlio di un ufficiale piemontese dell'esercito napoleonico, m. 1895 - che  una vita colta e peripatetica, movimentata e piena di avventure condusse in giro per il mondo vivendo esperienze di ogni genere, anche culturali,  dal momento che negli Stati Uniti insegnò italiano  a New York ed a Boston, ebbe la cattedra di italiano al Queen’s College di Londra e della Nuova Scozia, insegnò a Firenze ed a Eton, tenne corsi su Dante a Manchester, conferenze e scrisse un libro.
Come giornalista lavorò per il “Times” che alla fine lo utilizzò come inviato all’estero.
Intraprendente in campo sentimentale seppe mettere a profitto il cuore con gli interessi e un paio di buoni  matrimoni gli assicurarono ottime rendite inducendolo a prendere la cittadinanza britannica vivendo fra gli agi.
Politicamente inquieto, in gioventù, antimonarchico,  aveva progettato di assassinare il re Carlo Alberto al grido di “Lunga vita all’Italia, e muori!”: però il regicidio era fallito... perché non era riuscito a procurarsi l’arma per metterlo in atto.
Ma il comportamento di Vittorio Emanuele II a favore dell’unità d’Italia gli fece cambiare opinione,  ne divenne entusiasta sostenitore e partecipò alla spedizione in Sicilia.
Era giunto con Garibaldi a Messina a bordo del piroscafo “Washington” mandato dal “Times” per sostituire Eber che, forse, troppo impegnato dal comando della sua 15° Divisione in Sicilia, aveva un pò trascurato la penna.
 E siccome anche Antonio Gallenga di guerra, di armi e di soldati se ne intendeva per aver menato le mani nel 1848 a Milano ed a Mantova, e per aver raccontato (sempre per il “Times”) la campagna d’Italia del 1859, Garibaldi  nominò anche lui colonnello e  gli affidò, assieme ad un altro colonnello inglese, Jhon Whitehead,  il comando di una colonna di volontari inglesi ( la “Legione inglese”)  con l’incarico di precederlo, dopo il passaggio dello stretto di Messina,  nella marcia di risalita della penisola.
Occorre premettere che, stando a quanto riferisce lo stesso Gallenga, “per Garibaldi era la norma  impartire ordini di marcia e poi partire lui stesso in testa con quelli del suo seguito, dando per scontato che il suo esercito sarebbe arrivato subito dopo, ma ponendosi di rado il problema di accertare se lo facesse o no”. Pare strano, ma così scrive il collega dell’autorevole “Times”.
L’avanzata di Garibaldi da Reggio a Napoli avvenne dunque con la seguente modalità: avanti a tutti la “Legione inglese” che precedeva anche di 150 chilometri il Generale accompagnato da  un modesto seguito, staccato, a sua volta,   dal grosso dei suoi uomini che lo seguiva a distanza.
Il col. Peard, un pezzo d’uomo grande e grosso, con una gran barba, spesso con il  “poncho” e con   in capo  un  cappello piumato  (indossato  anche dai suoi uomini che taluni  chiamarono perciò i “bersaglieri inglesi”),  assomigliava molto a Garibaldi  ed è infatti  ricordato come “l’inglese di Garibaldi”.
Accadeva così che, scambiandolo per Garibaldi, i borbonici, terrorizzati dalla sua fama,  se la davano a  gambe: ed in tal modo il col.Peard ottenne ad Auletta  la resa di ben 10.000 borbonici comandati dal  generale Calderelli.
Ed a  Gallenga va il merito di aver convinto, grazie alle sue conoscenze in campo avversario, il  governo napoletano  a lasciare Salerno senza combattere e ad arroccarsi a Capua al riparo del Garigliano e del Volturno.
Se, dunque, Garibaldi potè giungere fino là con sorprendente rapidità,  lo si deve  anche alla “Legione inglese”  che, condotta dal gigantesco colonnello Peard e dal suo collega       
Gallenga, contribuì poi anche alla vittoria garibaldina nella battaglia del Volturno che segnò la fine del Regno delle due Sicilie.
Resta da dire sulle virtù giornalistiche dei due.
Pare che Nandor Eber come corrispondente di guerra, alla quale partecipava in prima persona,  non fosse ovviamente molto imparziale anche perché si dice che se si fosse dimostrato neutrale molti lettori del “Times”, grandi ammiratori di Garibaldi, se ne sarebbero dispiaciuti. Quindi…
Per quanto riguarda Antonio Gallenga, la sua specializzazione, prima di divenire inviato all’estero, doveva essere quella di  commentatore politico dal momento che se ne ricordano i virulenti editoriali sul “Times” contro Mazzini cui rimproverava l’avversione alla monarchia.
Parliamo, infine, di compensi.
Non risulta quanto fosse pagato Eber, ma per quanto riguarda Gallenga si sa che per raccontare la seconda guerra d’indipendenza italiana del 1859 il “Times” gli versò ben 80 sterline al mese, che per l’epoca era  una cifra enorme, alla quale, ovviamente, si saranno aggiunte quelle per aver seguito la spedizione dei Mille.
Se poi pensiamo che, oltre a ciò, avrà certamente percepito il soldo relativo al suo grado militare, ci rendiamo conto di come abbia potuto, anche con il concorso della rendita di 1000 sterline annue derivategli dalla morte della moglie Juliet Schunck (ricca ereditiera di famiglia ebraica) acquistare il castello di Llandogo nel Galles ove si riposò fino all’età di 85 anni dalle fatiche accumulate durante la sua lunga, movimentata vita.                             Giovanni Zannini