giovedì 23 dicembre 2010

IL DODECANNESO: "LA PREDA SFUMATA"


Doverosamente, in occasione dell’8 settembre di ogni anno, viene rievocata la sorte dei militari italiani  dislocati a Cefalonia e nelle circostanti isole greche del mar Jonio  che, rimasti senza ordini, tentarono di opporsi ai tedeschi e per questo subirono un tremendo  massacro.
Episodio, questo, rievocato da un monumento forse unico in Italia che sorge a Padova nel piazzale a fianco della chiesa della SS.Trinità voluto dal defunto parroco don.Giulio Bovo,  già Cappellano Militare della Divisione “Acqui”, che visse quella tremenda esperienza”.
Meno note e rievocate sono invece  le drammatiche vicende di  altri  militari italiani all’estero rimasti senza ordini dopo l’armistizio, come nel Dodecanneso, gruppo di isole – Rodi la maggiore -nel mare Egeo che l’Italia aveva occupato nel 1912 e che era divenuta nel 1930 colonia italiana. 
Nella sua poderosa opera “La seconda guerra mondiale” ( Vol.IX  - Cap.XII intitolato “La preda sfumata”) Churchill (al quale fu attribuito, ricordiamolo, nel 1953 il “Premio Nobel” per la Letteratura),  si occupa di questo argomento  ed illustra i diversi punti di vista degli inglesi e degli americani  sull’opportunità o meno di occupare il Dodecanneso prima che lo facessero i tedeschi:  ed ammette di aver provato,  a causa delle divergenze avute a tal proposito con il gen.Eisenhower, “ uno dei più acerbi dolori della guerra”.
Gli inglesi, infatti, sostenevano l’opportunità di conquistare quelle isole, considerate facile preda, perché il possesso di Rodi dotato di un grande aeroporto avrebbe consentito agli inglesi di proteggere più comodamente con l’aviazione  le truppe impegnate in Egitto e Cirenaica e le  forze navali operanti nelle acque dell’Egeo.
 Oltre a ciò, il successo dell’operazione avrebbe potuto influire positivamente sulla titubante confinante Turchia ed indurla a rompere gli indugi dichiarando guerra alla Germania, con il che sarebbe stato possibile agli anglo-americani inviar aiuti all’alleata Russia – che li reclamava energicamente –attraverso i Dardanelli  anziché navigare sulla rotta lunga, pericolosa e costosa, del mare Artico.
 Eisenhower, da parte sua, impegnato in Italia e nella  complessa preparazione  di quell’enorme impresa che fu l’operazione “Overlord” (lo sbarco alleato in Normandia  del 1944), ritenne invece di non poter  trascurare neppure in minima parte  e per breve tempo  quei due impegni primari a favore di un’impresa –l’”Accolade”, appunto, come la definiva Churchill, forse con riferimento all’”investitura” dei cavalieri di Rodi – da lui ritenuta secondaria: e negò ogni aiuto.
Hitler, al contrario, ritenne fondamentale il possesso di quelle isole  perché temeva i riflessi psicologici negativi che lo loro perdita avrebbe potuto avere sui propri alleati del fronte sud-orientale (Romania, Bulgaria, Ungheria) che si sarebbero visti minacciati da sud, oltre, a sua volta, per influire  sulla incerta e neutrale Turchia  sempre in dubbio se schierarsi da una parte o dall’altra in attesa dell’occasione buona per farlo con quella che apparisse la più forte.
Allora Churchill, convinto della necessità di confermare la presenza inglese nel Mediterraneo orientale , dopo aver ribadito agli americani che la temporanea,  breve distrazione dal progetto “Overlord”  di una piccola forza da sbarco nell’Egeo “per rinsanguare le forze britanniche”  non avrebbe compromesso né la  campagna d’Italia, né lo sbarco in Normandia previsto del resto fra 6 mesi, rotti gli indugi, decise di fare da solo.
Ed il 15 settembre 1943, avvalendosi del  poco naviglio da guerra disponibile e di ogni pur minima risorsa nautica  ( perfino  lance di salvataggio e canotti)  gli inglesi riuscirono a sbarcare  nelle isole di Castelrosso, Lero, Samo, Coo – dotata, quest’ultima, di campo d’aviazione – e su altre isole minori.
“Le guarnigioni italiane – scrive Churchill – quando c’erano si dimostrarono abbastanza amichevoli, ma le loro vantate difese costiere e contraeree si dimostrarono piuttosto male in arnese, e il trasporto delle nostre armi e dei veicoli più pesanti era praticamente impossibile con il naviglio a nostra disposizione”.
Fallì, invece, dopo un disperato tentativo, la conquista di Rodi (l’isola strategicamente più importante dopo Creta già in mano nemica)  ove i tedeschi, sopraffatti gli italiani, si erano insediati, e donde, tenendo sotto costante controllo aereo l’intero arcipelago, scatenarono la controffensiva.
I 1200 inglesi che presidiavano Coo – e che non ebbero, in questo caso, la nostra collaborazione –sgomberarono nottetempo l’isola dopo aver distrutto cannoni e difese portando seco “tutti gli ufficiali italiani e quanti altri italiani possibile”.
Lero  (come racconta il sopravvissuto Renato Niccoli nel suo libro “La verità sulla storia  di un’isola – Lero”) fu evacuata dopo la dura resistenza  di quasi due mesi dei militari italiani, soprattutto marinai, che combatterono fianco a fianco con i 3000 inglesi che vi erano sbarcati, contro la superiorità aero-navale dei tedeschi.  Grazie alla valida collaborazione della marina greca, furono portati in salvo inglesi, greci ed anche italiani, per evitare, scrive Churchill, e ciò gli fa onore, che gli ufficiali italiani venissero fucilati, come accadde  a Cefalonia.
Contemporaneamente, furono sgomberate le piccole guarnigioni di Samo e di altre isole minori cosicchè l’intero arcipelago rimase in mano ai tedeschi anche se piccoli gruppi di partigiani greci ed italiani continuarono a combatterli.
Con questo successo i tedeschi ottennero i risultati che si erano prefissi e che Churchill aveva previsto e temuto.
Scrive il Primo Ministro inglese, nel capitolo più sopra citato: “Mi addolorava che fossero state così tenacemente avversate e respinte le piccole richieste da me fatte che,  senza arrecare alcun pregiudizio alla preparazione dell’”Overlord”  avrebbero  potuto aggiungere a tutti i frutti della campagna d’Italia anche il controllo dell’Egeo e, con ogni probabilità, l’entrata in guerra della Turchia”: ma, conclude,  “quando tanti e gravi problemi incombevano, non potevo rischiare il minimo screzio nei miei rapporti personali con il Presidente degli Stati Uniti”, e si rassegnò a veder “sfumare  una preda” che riteneva sicura.
Ma, sottolinea, “a denti stretti”.
Noi italiani non possiamo  che condividere il rammarico di Churchill.
Se, infatti, gli alleati, subito dopo la firma dell’armistizio con l’Italia fossero sbarcati con azione decisa e tempestiva  nel Dodecanneso  ed a Cefalonia,  molte stragi di italiani sarebbero state evitate.   
                                                                                Giovanni Zannini

La sconfitta alleata di Dieppe - L'operazione "Jubilee"

Nel giugno  1942 Churchill con un rappresentante di Roosevelt si recò precipitosamente a Mosca per incontrare Stalin che, furioso, esigeva l’immediata apertura di un secondo fronte ad ovest per alleggerire la pressione tedesca su Mosca.
Forse timoroso che i rovesci subiti inducessero i russi ad una pace separata con i tedeschi, Churchill, pur confermando che uno sbarco in Francia sarebbe stato possibile solo fra un paio d’anni, promise a Stalin che sarebbero state prese iniziative per impegnare maggiormente le forze tedesche ad ovest.
Tornato a Londra, il primo ministro pretese dai militari un’azione di forza contro i tedeschi in territorio francese e lo sbarco a Dieppe del 19 agosto 1942 voluto da uno stratega “amateur” (dilettante – evidente l’allusione a Churchill che collaborò attivamente alla preparazione dell’impresa vista con molte riserve dagli esperti militari) clamorosamente fallito fu  il prezzo pagato dagli alleati per onorare le promesse del premier inglese a Stalin.
Questo, dunque, il movente del fallito “raid” su Dieppe, una sconfitta che gli alleati preferiscono obliare, e solo pochi visitatori si recano nel piccolo, polveroso e poco pubblicizzato  museo della guerra di Dieppe.      
Per una migliore comprensione dell’episodio che venne esaltato dai tedeschi come prova dell’impossibilità di violare il “Vallo atlantico” occorre premettere che quel “raid” non aveva lo scopo di occupare stabilmente il territorio attaccato, bensì quello di danneggiare quanto più possibile  il potenziale militare nemico ivi esistente e quindi rientrare alle basi di partenza.
Questo intento fu chiaramente manifestato agli abitanti di Dieppe invitati dagli alleati a restare passivi per  evitare possibili rappresaglie  assicurando, nel contempo, che il momento della completa liberazione non era lontano.
I “dieppois” obbedirono ed i tedeschi, ritenendo, a torto,  tale atteggiamento ostile agli invasori e favorevole a loro, li vollero premiare liberando i soldati francesi di Dieppe che erano stati fatti prigionieri dall’inizio della guerra.
L’operazione - denominata in codice “Jubilée” e che avrebbe dovuto risolversi in una dozzina di ore – prevedeva la distruzione dell’artiglieria posta a protezione della città,  dell’aeroporto, delle installazioni radar ed elettriche, delle attrezzature portuali e dei depositi di munizioni e di carburante; la ricerca di documenti; la cattura di prigionieri; infine, il confronto aereo con la Luftvaffe per saggiarne le potenzialità.
Era previsto che lo sbarco sarebbe avvenuto su di un tratto di spiaggia di una ventina di chilometri con al centro Dieppe, in molti punti delimitata da alte falesie irte di cannoni tedeschi.
In un primo tempo “commandos” inglesi e unità canadesi avrebbero dovuto distruggere le difese tedesche a sud (Varangeville, Pourville) ed a nord (Puys, Belleville, Berneval) della città, dopo di che sarebbe scattato  l’attacco frontale contro il centro cittadino.  
Così, una flotta composta da 250 natanti fra mezzi da sbarco e navi da battaglia recante a bordo 6000 uomini in maggioranza canadesi, con una copertura aerea costituita soprattutto da caccia, salpa,  nella notte del 18 agosto 1942, dai porti inglesi di Newhaven, Shorham, Portsmouth, Southampton e Gosport ed alle 3 del giorno successivo si presenta dinanzi alle coste francesi.
Ma le cose non vanno secondo i piani prestabiliti.
A sud di Dieppe, a Varangeville, il “commando n.4” britannico, raggiunto l’obbiettivo (distruzione di una batteria costiera) si reimbarca; ma un migliaio di canadesi sbarcato a Pourville, dopo qualche iniziale successo viene sopraffatto dai tedeschi e riesce a fatica a reimbarcarsi  perdendo quasi metà degli effettivi.
A nord, a Puys, il fallimento è totale: i canadesi vengono falciati appena presa terra, 128 muoiono e 250 sono catturati.
Anche al “commando n.3” inglese va male: un reparto sbarcato a Belleville  distrugge  una batteria costiera tedesca ma poi, a corto di munizioni è costretta a reimbarcarsi; l’altro sbarcato a Berneval  dopo un duro combattimento si arrende.
A questo punto, pur dopo questi insuccessi, l’Alto Comando delle Operazioni Combinate, forse anche a causa di difettose comunicazioni con i reparti impegnati, ordina egualmente di sferrare l’attacco frontale.
Ma l’esito è disastroso: i genieri incaricati di praticare varchi nella difesa tedesca per aprire la strada ai carri armati “Churchill”, impiegati per la prima volta, sono annientati e, di conseguenza, i mezzi corazzati, non appena toccata terra,  distrutti, mentre i difensori dai bunker ed anche dai tetti degli alberghi prospicienti il luogo dello sbarco, fanno strage degli assalitori.
Solo una ventina di canadesi raggiunte le prime case dell’abitato, il Casinò ed il teatro,  riesce a penetrare nelle vie circostanti prima di essere uccisi o fatti prigionieri nonostante il sopraggiungere di rinforzi che a quel momento si manifestano inutili. 
Molte le cause della sconfitta: la rinuncia a preliminari massicci bombardamenti aerei e navali per scompaginare le difese avversarie; il mancato impiego di paracadutisti; l’insufficiente numero di uomini impiegato nell’impresa; i materiali inadatti ; l’eccessiva rigidità nel voler applicare ad ogni costo i piani prestabiliti; la scarsità del munizionamento e le difettose comunicazioni.
Caro il prezzo in vite umane e materiali pagato dagli alleati:  1.197 morti di cui ben 900 canadesi; 1.500 feriti; circa 2000 prigionieri; 34 navi affondate; 108 aerei abbattuti; carri armati,
armi e munizioni abbandonati sulla spiaggia.
Ma i soldati canadesi vittoriosi che l’1 settembre 1944 liberarono  
Dieppe seppero vendicare i camerati caduti nel “raid” del 19 agosto 1942.
E le innumeri bandiere bianche e rosse con la foglia d’acero al centro che sventolano a Dieppe dando al visitatore l’impressione di trovarsi, per chi sa qual prodigio, in Canada anziché in terra di Francia, attestano l’imperitura riconoscenza della città per i canadesi.
Ricordando, non dimentichiamolo, che lo sfortunato “raid” non fu vano perché costituì una preziosa esperienza – anche se pagata a caro prezzo -  per il successo, due anni dopo, con l’operazione “Overlord”, del vittorioso sbarco in Normandia del 6 giugno 1944.

                                           Giovanni Zannini







sabato 13 novembre 2010

DALLA GERMANIA "JUDENFREI" ALL ”OLOCAUSTO”

Che l’”Olocausto” vi sia stato e che rappresenti uno degli episodi più obbrobriosi dell’intera storia mondiale non si discute: unico dubbio  - che però non ne inficia la gravità  perché anche un solo uomo ucciso per motivi razziali  costituisce un vulnus mortale all’umana società - il numero delle vittime che oscilla fra i 4 ed i  6 milioni.
Ciò premesso, si ritiene utile descrivere  il drammatico iter, non sempre ben chiarito,  che ve lo ha condotto.

Una Germania ”judenfrei”

Va anzitutto contestato che fin dall’origine il nazismo avesse programmato di  risolvere il problema ebraico mediante  l’eliminazione fisica di tutti gli ebrei.
La fondamentale opera di Hitler “Mein Kampf” prevedeva l’allontanamento dalla Germania  di tutti gli ebrei considerati pericolosa razza inferiore responsabile  della sconfitta tedesca nella I guerra mondiale e del caos che ne era succeduto, per purificare il sacro suolo della patria dalla loro presenza.
Contemporaneamente, in attesa che tale operazione di “sgombero” (la Germania “judenfrei”, liberata dagli ebrei)  si concludesse, con le leggi di Norimberga del settembre 1935 veniva instaurato  un sistema di “apartheid”  - niente di nuovo, si pensi a quella sudafricana o alla segregazione razziale negli stati USA del sud abolite  solo poche diecine di anni fa – in forza del quale gli ebrei venivano degradati a “soggetti” e privati di molti diritti  (spettanti esclusivamente ai puri tedeschi della mitica razza ariana) allo scopo di impaurirli  e indurli ad emigrare volontariamente verso altri lidi.
In questa fase vi furono gravi violenze nei loro confronti  compiute da privati ed associazioni  composte da frange di estremisti  (nei cui confronti le autorità statali, pur considerandoli fuorilegge, chiudevano spesso un occhio ed anche due) che, caricati dall’ odio hitleriano, lo portarono alle estreme conseguenze.
Fra gli episodi più gravi  si ricorda la cosiddetta “notte dei cristalli” (9/10-11/1938) durante la quale squadracce  naziste colpirono gli ebrei ed i loro beni prendendo a pretesto il deprecabile assassinio  (che secondo i nazisti  giustificò le violenze derivatene)  di Ernst von Rath, consigliere dell’ambasciata tedesca a Parigi, per mano di Herschel Gruespan, un giovane ebreo fuoruscito.
La fase politica dell’emigrazione volontaria, pur favorita dai nazisti, non diede però risultati soddisfacenti.
E’ infatti innegabile  che molti paesi nei quali gli ebrei, braccati, avrebbero desiderato emigrare, non  andarono al di là di alte proteste scandalizzate, negando loro, nella realtà, i loro i visti d’ingresso oltre le quote stabilite, aumentando in qualche caso i costi per il  loro rilascio.
Da qui, i salaci commenti da parte tedesca per una  solidarietà  di facciata che consentì solo ad un  modesto numero di ebrei tedeschi di emigrare all’estero.

Una patria forzata

Per accelerare la pulizia etnica i nazisti pensano allora, dopo l’inizio della 2° guerra mondiale (1/9/1939) e dopo i primi successi ottenuti, ad una seconda fase in cui l’ “Istituto per lo studio dei problemi ebraici” fondato a Francoforte  nel marzo 1941 progetta il trasferimento forzato degli ebrei in alcuni territori conquistati destinati a divenire la loro nuova patria.
Ed ecco allora il progetto dell’”Operazione Madagascar” ( a disposizione dei tedeschi  quale ex colonia della Francia sconfitta del giugno 1940)  in base alla quale secondo i vincitori si sarebbero potuti  trasferire  via mare nell’isola dell’Oceano Indiano ben 4.000.000 di ebrei.
Oltre a ciò, il successo iniziale  anche sul fronte orientale russo aveva aperto la possibilità di trasferire gli ebrei nei vasti territori conquistati, nella Boemia-Moravia, nella regione di Lublino presso la frontiera con l’URSS, e nella Siberia occidentale.  
Ma l’esito negativo della guerra sui vari fronti  dopo i fulminei successi iniziali  e la conseguente prospettiva di avere a disposizione, dopo la prevista vittoria, abbondanza di territori nei quali confinare gli ebrei, determinò il fallimento di questi progetti  ed impose ai tedeschi un  deciso cambiamento di rotta.
“Wansee” s’avvicina.

Il “Protocollo del Wansee”: “endlosung”  
              
Il 20 gennaio 1942 si riunì  a Berlino in  una villa al n.56/58 della Am Grossen Wansee, sulle rive del lago di Wansee,  ridente quartiere omonimo  a sud ovest della capitale, una conferenza alla quale parteciparono, sotto la supervisione di Heidrich, i seguenti 14 alti funzionari  nazisti  metà dei quali appartenenti  alle famigerate SS:
Reinhard Heidrich, SS-Obergruppenfuhrer, Capo Ufficio Centrale per la sicurezza del Reich (RSHA); dott. Alfred Mayer; dott. Georg Leibbrandt; Erich Neumann; dott. Roland Freisler; dott.Josef Buhler; Martin Luther; dott. Gerhard Klopfer-SS; Friedrich Wilhelm Kritzinger; Otto Ofmann-SS; Heinrich Mueller-SS; Adolf Eichmann, SS-Obersturmbannfhurer all’Ufficio Centrale per la sicurezza del Reich (RSHA); dott. Karl Eberhartdt Schongart-SS; dott.Rudolf Lange-SS.
E’ dunque ad essi che va attribuita la responsabilità della tragica “soluzione finale” (in tedesco “endlosung”), che non andrebbe imputata ad un preciso ordine di Hitler (che però lo ratificò), sibbene ad un ordine che Heidrich ha ricevuto da un  “Maresciallo del Reich” del quale non si fa il nome.    
Di sicuro Hitler non era presente alla riunione come chiaramente risulta dal “protocollo” redatto con teutonica precisione, fortunosamente recuperato  dai pubblici ministeri americani in sede istruttoria del processo di Norimberga.
Da esso risulta: A):  “Heidrich ha comunicato di essere stato incaricato dal Maresciallo del Reich d’iniziare i preparativi per risolvere definitivamente la questione ebraica in Europa”; e, B): “il desiderio espresso dal Maresciallo del Reich di ricevere un rapporto relativo alle implicazioni organizzative per l’attuazione della soluzione finale”.    
Inoltre, che “nel gennaio 1939, per ordine del Maresciallo del Reich è stato istituito un Ufficio Centrale del Reich per l’emigrazione degli ebrei i cui compiti principali erano: a) adottare ogni provvedimento teso ad intensificare l’emigrazione degli ebrei; b) orientare i flussi di emigrazione; c) velocizzare le procedure per facilitare l’emigrazione di ogni singolo individuo”; ma che poi “in considerazione dei pericoli rappresentati dall’emigrazione in tempo di guerra, il capo della polizia tedesca ha vietato l’emigrazione degli ebrei”.
Ma chi era mai questo fantomatico “Maresciallo del Reich?”
Era lui, Hermann Goering, il solo che potesse fregiarsi di tale titolo che ne faceva il numero 2 del nazismo.
Nel libro (“Goering” – ed.Mondadori) dello storico inglese David Irving si afferma che egli riconobbe di essere stato il firmatario della “soluzione finale”, anche se  si giustificò affermando che gli avevano fatto firmare quel documento senza lasciargli capire di cosa si trattasse.
Ma in un’altra parte dello stesso  “protocollo” si legge altresì che “viene oggi adottata una soluzione alternativa  all’emigrazione e cioè l’evacuazione verso est che ha ottenuto la preventiva autorizzazione del Fuhrer”.
Parrebbe dunque di capire che il “Maresciallo del Reich”-Goering avesse a sua volta ricevuto l’incarico da Hitler che sarebbe dunque, in tal caso,  il primo e vero ispiratore dell’”Olocausto”.  
Sta di fatto che il  “Protocollo del Wansee” del 20 gennaio 1942 segna il suo tragico inizio.
In sostanza, pensano i nazisti, dal momento che l’emigrazione volontaria non ha dato buoni risultati e che, a seguito del negativo andamento della guerra, sono sfumati i territori nei quali speravamo di trasferirli, non resta che eliminarli con il lavoro forzato  e l’insufficiente alimentazione dopo aver sfruttato fino all’ultimo ogni loro capacità lavorativa.
Il “protocollo” prevedeva infatti che “gli ebrei dovranno essere avviati al lavoro nell’est europeo. Tutti coloro che risultino abili al lavoro, suddivisi per sesso, saranno inviati in gruppi in quei territori per impiegarli nella costruzione di strade. Gran parte di essi morirà per cause naturali e quelli che sopravviveranno, e cioè i più resistenti, dovranno essere gestiti adeguatamente poiché rappresentano il frutto di una selezione naturale. Qualora essi venissero rilasciati potrebbero costituire il germoglio di una futura rinascita ebraica (vedi l’esperienza storica)”.
Oscuro il significato di queste due ultime frasi:  si vuol forse dire che i pochi sopravvissuti, dotati di eccezionali doti di resistenza fisica, purificati e forgiati dalle terribili prove sopportate, avrebbero potuto dare origine ad una nuova razza tedesco-ebraica degna, a quel punto, di essere ammessa nella comunità germanica?
Da quell’infame  documento risulta che sarebbero stati esentati dall’”evacuazione” gli ebrei di età superiore ai 65 anni che dovevano essere trasferiti nel ghetto per anziani di Theresienstadt assieme “ai veterani di guerra con gravi ferite e gli ebrei decorati con croce di ferro di prima classe. Attraverso questa soluzione verranno cancellati in un colpo solo i molti benefici di carattere sociale di cui godono queste persone”.
Ma, ci si chiede, non erano eroi? No, perché ebrei.
Altro motivo per  essere esentati dalla deportazione era quello di farsi sterilizzare, mentre era previsto un elenco  burocraticamente analitico  di casi nei quali l’infetto sangue ebreo  “purificato” da abbondanti immissioni  di puro sangue ariano  non costituiva più un pericolo per la nazione; oltre a ciò,” …..gli ebrei che lavorano nelle industrie considerate vitali per lo sforzo bellico non potranno essere evacuati  qualora non siano disponibili adeguate sostituzioni”.     
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Non si ritiene di trattare oltre l’argomento dei “lager” sul quale è già stato detto e scritto quasi tutto perché, come precisato in premessa, non interessava qui descrivere gli orrori dell’”Olocausto”, sibbene evidenziare il tragico percorso  che ha portato a quel tragico traguardo.

                                                                                     Giovanni  Zannini

venerdì 12 novembre 2010

HITLER E LUCIETTA SCARAFFIA PER IL CELIBATO DEI PRETI

Adolf Hitler  nel suo “Mein Kamph”   ha parole di elogio per la Chiesa Cattolica e loda la sua dottrina a favore del celibato dei preti  il quale, a suo avviso, evita il pericolo del favoritismo verso i parenti  che, evidentemente, anche allora affliggeva la  Germania .
“Il celibato” scrive,  ”….è cagione della forza sempre viva che è in uso in quell’antichissima organizzazione…..A cagione del celibato dei preti bisogna scegliere i preti futuri non dal clero ma dalla grande moltitudine  del popolo…Perché per il fatto che questo immane esercito di ecclesiastici si accresce senza fermarsi sui ceti inferiori,  la Chiesa serba il naturale legame col mondo dei sentimenti del popolo  e si garantisce un insieme di forze che si trova soltanto sotto quell’aspetto nell’estesa moltitudine del popolo. Di qui consegue la meravigliosa giovinezza di quell’immensa istituzione , la sua elasticità spirituale  e la dura forza di volontà”.   E conclude affermando  che, sull’esempio della Chiesa,  anche lo Stato dovrà curare “un continuo rinnovo delle classi intellettuali  per mezzo di sangue nuovo degli strati più bassi…,scegliendo con attenzione dalla massa del suo popolo gli uomini meglio dotati dalla natura e di metterli  al servizio della comunità”.In sostanza  pare  emergere  dalla  prosa non sempre chiara di Hitler, questo pensiero: dato che  la “parentopoli” è un male difficile da sconfiggere, almeno  con il celibato  si elimina la concorrenza delle  mogli,  dei  figli e dei nipoti dei preti,  che sarebbe invece possibile  ove essi si potessero sposare.      
Questo ragionamento, pur provenendo da chi, nel tempo, non Le si è certamente  dimostrato troppo  amico, conferma dunque, per altra via,  la bontà della scelta fatta dalla Chiesa. 
 Ma è una combinazione singolare che la nota giornalista cattolica Lucietta Scaraffia in un breve trafiletto sul Corriere della Sera del lontano martedì  9  dicembre  2008 sotto il titolo “Il celibato dei preti”, per sostenere il celibato dei preti,  usi  - inutile dirlo, inconsapevolmente, perché è assurdo pensare che sia andata a cercare sostegno alla sua tesi proprio nel “Mein Kamph”  -  lo stesso ragionamento fatto da Hitler quasi un secolo fa.
Scrive dunque:  “…Quasi  tutti  i giorni leggiamo articoli di denuncia  contro la parentopoli  dominante in Italia… Davanti alla giusta indignazione di chi vorrebbe selezioni più meritocratiche, viene voglia di ricordare come la Chiesa, intorno all’anno Mille, proprio per prevenire tali derive, abbia imposto il celibato ai preti. Sì, proprio quel celibato tanto deriso  e criticato dai laici , qualche merito ce l’ha pure: a parte qualche caso  di nepotismo  -  e comunque almeno di mogli e figli si faceva a meno  -  la Chiesa è stata per secoli un’istituzione prevalentemente meritocratica. Cari amici laici, capite adesso che guaio sarebbe  se il celibato che a tanti di voi non piace fosse abolito dalla Chiesa?”.
 Pare incredibile, ma è vero:  certi ragionamenti, pur partendo da mentalità opposte, giungono, talvolta,  alle stesse conclusioni.                                                  Giovanni  Zannini         



 Gi

martedì 9 novembre 2010

LETTERA AL SIG.PRESIDENTE DELLA REPUBBLICA


Egregio  Sig.Presidente,
                                                            in conclusione della Sua recente visita in Friuli-Venezia Giulia, Ella ha pronunciato un discorso nel corso del quale ha affermato che “Nessuno può sottrarsi all’impegno di portare il pesante fardello”, e “Avvenire” del 15 scorso titolava: “Richiamo di Napolitano alla solidarietà nazionale: ciascuno di noi si faccia carico del debito pubblico”.
Le premetto, Signor Presidente, che a me i debiti non sono mai piaciuti e che quelle pochissime volte in vita mia in cui ne ho fatti  sono stato contento solo quando sono riuscito ad estinguerli: si figuri che ogni anno, tornato a casa dopo aver pagato le tasse, che sono un debito che io debbo allo stato per i servizi che mi dà, apro una bottiglia di quello buono e brindo soddisfatto pensando “Anche quest’anno ce l’ho fatta”.       
Ecco perché il dovere allo stato, a quanto si dice, 35.000 (e forse più) euro quale quota di debito pubblico (creato da politici incoscienti) a carico di ogni cittadino, mi secca moltissimo, e perciò questo debito me lo vorrei togliere, e non pensarci più.
Se tutti fossero di questo avviso, il debito pubblico scomparirebbe e tutti i miliardi che lo stato spende per pagare gli interessi ai cittadini che comperano i  suoi “titoli” (che è il mezzo con i quali lo stato chiede in prestito quattrini agli italiani pagando loro i relativi interessi) verrebbero dirottati verso opere pubbliche, assistenza ai meno abbienti, più istruzione, più ospedali, migliore organizzazione della giustizia, e così via, e in Italia si camperebbe meglio.
E anche se solo la metà, un terzo o financo un quarto  di italiani fossero disponibili a questa operazione, sarebbe sempre un bel risultato.     
 Ebbene, dopo quasi 40 anni di lavoro qualche risparmio per coprire una parte del mio debito pubblico  ce l’avrei, ma, mi scusi la franchezza, Signor Presidente, siccome non sono né un santo né un eroe,  se io questi soldi li dò allo Stato, lui cosa mi dà in cambio?
Non avrei molte pretese, ma un premio, sia pure modesto, penso mi spetterebbe: perché non dice a Tremonti di studiare una formula  poco onerosa per lo Stato (che so io, un piccolo sconto sull’IRPEV, il tesserino per viaggiare gratis in ferrovia, l’ingresso libero al cinema, al teatro o allo stadio,  il permesso di passare avanti quando ci sono le code, e così via - non sarebbe un gran che, ma  vuol mettere  la soddisfazione?) atta a dimostrare la gratitudine dello Stato verso altri eventuali   “Volontari anti debito” come me?
Un tempo, per dimostrare il proprio amor di patria, occorreva impugnare il fucile e magari lasciarci la pelle, e molti italiani valorosi l’hanno fatto: oggi, per fortuna, ci sono modi meno cruenti per dimostrare il proprio patriottismo, ed i cittadini che possono avrebbero la possibilità di manifestarlo versando alla patria, al posto del proprio sangue, un po’ di quattrini della propria saccoccia allo scopo di eliminare, o, almeno, ridurre, il debito pubblico che opprime l’Italia
 Mi scusi, Signor Presidente, la libertà, ma penso Le farà piacere constatare come  qualcuno che ascolta le Sue sempre saggie parole, e cerca di metterle in pratica, in Italia, c’è.

Suo Cittadino Giovanni Zannini  da Padova in ottobre 2010        







UN APPELLO PER L'AUDITORIUM


Il “Manifesto” indirizzato recentemente  alla cittadinanza  per il rilancio della costruzione di un nuovo Auditorium nella nostra città  da parte di esponenti della vita musicale cittadina  - Claudio Scimone fondatore e direttore dell’orchestra dei “Solisti Veneti”,  Mario Carraro, Presidente dell’Orchestra di Padova e del Veneto e degli “Amici della Musica”, nonché da Giovanni Marchesini e Maria Nevilla Massaro, rispettivamente Presidente e Direttore del Conservatorio “C.Pollini -   è già stato sottoscritto da centinaia di cittadini  ai quali se ne stanno continuamente aggiungendo molti altri
 Esso desidera fare il punto sullo stato dell’iniziativa, ed indica i motivi  per i quali essa costituisce per Padova  un’opera di grande interesse non solo culturale, ma anche sociale ed economica.
Anzitutto,  il documento ricorda le lungaggini che hanno afflitto e stanno affliggendo la realizzazione dell’opera che era stata messa in programma ben  50 anni fa dall’allora  Sindaco di Padova Cesare Crescente, ed afferma che essa minaccia di essere definitivamente abbandonata ove
il progetto  già approvato da una commissione internazionale non venga realizzato,  tenuto conto delle infinite problematiche che si dovrebbero di nuovo affrontare, dalla nuova progettazione alla localizzazione dell’opera, già oggetto di ampio, acceso dibattito.
Il documento evidenzia anzitutto l’importanza della nuova opera per promuovere e dare ulteriore  impulso alla cultura musicale nella nostra città “contribuendo a togliere i giovanissimi dalla strada e dalla droga per destinarli ad un’attività…..che può servire a raccogliere energie giovanili e farne un centro vivo di attività sane fisicamente e spiritualmente”.
Proprio in vista di ciò, afferma Claudio Scimone, è necessaria una grande struttura che consenta una migliore graduazione dei prezzi (dalle poltrone di prima fila al cosiddetto“loggione”) onde consentire  gli  ingressi anche alle tasche notoriamente  esigue  dei più giovani.       
Viene evidenziata poi l’importanza del nuovo Auditorium anche per i benefici aspetti  economici derivanti alla città   dal turismo musicale nonché dal fatto che la musica costituisce  un mezzo indiretto  utilizzato talora dalla  diplomazia, ma anche da alcuni industriali, per entrare in contatto con ambienti diplomatici e produttivi  di altri paesi.
A  chi teme poi l’insostenibilità dei costi di gestione, il documento risponde  che il problema non si pone ove la nuova grande e moderna struttura venga utilizzata non solo per la musica ma anche per altre manifestazioni, dalla moda alla convegnistica, così come avviene, ad esempio, nel Parco della Musica di Roma.  
Ed a proposito delle complicazioni di natura idraulica che, secondo taluni, i lavori per la costruzione dell’Auditorium potrebbero arrecare alla stabilità della  Cappella degli Scrovegni,  Claudio Scimone dice che anche in tale denegata ipotesi le moderne ed avanzate tecniche in materia sono in grado di scongiurare il rischio. Se necessario – afferma poi, con una punta d’ironia -  ci si potrebbe  rivolgere agli olandesi che di acque se ne intendono e che, come hanno saputo difendersi  da  quelle  del mare che incombono su di loro, sarebbero certamente in grado di bloccare anche quelle che volessero attentare al nostro insigne monumento.
La pacifica offensiva in corso per sollecitare la costruzione del nuovo Auditorium è supportata da varie iniziative fra cui  il concerto dell’Orchestra “Pro Auditorium” ( composta dai docenti, dagli allievi, anche dai più piccoli - i Polli(ci)ni -  del Conservatorio cittadino, nonché dall’Orchestra di Padova e del Veneto e dai Solisti Veneti)  diretto da Scimone lo scorso lunedì  nella Sala del Palazzo della Ragione dinanzi ad un pubblico plaudente e numeroso  nonostante il giorno feriale e la pioggia.
La presenza di giovanissimi, affettuosamente affiancati, per far loro vincere l’emozione,  da orchestrali già affermati, ha simbolicamente attestato come l’opera della quale si invoca con impazienza la realizzazione è destinata non solo al loro avvenire, ma anche a far sì che i suoi benefici effetti si estendano ad un numero sempre maggiore di giovani amanti della musica.      
Mentre spiccano le magliette con la vistosa scritta “Vogliamo l’Auditorium” indossate in tale occasione da molti orchestrali, ed anche da quelli  dei “Solisti Veneti”  durante il “Concerto della  Domenica”.                                        Giovanni Zannini
                                                                                                              

I CROCIATI PADOVANI

N
on si tratta qui di padovani  che abbiano partecipato a qualcuna delle numerose crociate che fra l’XI ed il XII secolo convogliarono migliaia di uomini in Terrasanta  per liberare il sepolcro di Cristo dagli infedeli (ma anche per altri scopi meno nobili e più commerciali…), sibbene di un corpo militare così denominato costituitosi  nella nostra città nel 1848, del quale parla Pietro Galletto nel suo ”Alberto Cavalletto – Una vita per la Venezia e per l’Italia”.
In tale anno, infatti, gli austriaci, preoccupati per la rivoluzione scoppiata a Vienna il 13 marzo contro la monarchia assoluta degli Asburgo, si erI  “CROCIATI PADOVANI” DEL 1848ano ritirati dalle città del Lombardo Veneto, e quindi anche dalla nostra, per concentrarsi a Verona in attesa degli sviluppi della  situazione.   
Ed a Padova,  trovatasi  libera dagli odiati oppressori, viene subito  eletto un governo  denominato “Comitato provvisorio dipartimentale”  che aderisce alla rinata Repubblica di S.Marco,  indice una votazione per l’immediata fusione con il Regno di Sardegna che ottiene un consenso plebiscitario  e, fra le prime cose, si preoccupa di dotarsi di una propria forza armata.
Nascono così i “Crociati Padovani” desiderosi di combattere  - scrive Galletto  -  “in nome della libertà sotto l’auspicio della Fede” e per questo portano una croce rossa sul petto e nelle manifestazioni pubbliche sono preceduti dai padri cappuccini  che portano la bandiera tricolore sormontata dalla croce.
Li comanda il colonnello napoleonico  Marcantonio Sanfermo e fra essi numerosi sono gli studenti dell’università : fra gli ufficiali spicca l’ingegnere Alberto Cavalletto,  patriota che verrà poi denominato  il “Garibaldi padovano”, nominato aiutante maggiore  del Sanfermo.
I  1500 Crociati padovani, per fronteggiare il previsto attacco degli austriaci che, racchiusi  nel Quadrilatero a Verona, in attesa di rinforzi manifestavano nel frattempo l’intenzione di effettuare una sortita per riconquistare Vicenza, vi si  recano  per contribuire alla sua difesa.
Quivi si congiungono con i “Crociati” vicentini con i quali fraternizzano  ponendo fine a stolti remoti rancori  municipali del passato , e con quelli trevigiani accorsi anch’essi, dando vita alle “legioni mobili  venete”, un piccolo esercito di poco più di 3000 uomini affidato  al comando del Marcantonio Sanfermo nominato, a seguito di ciò, generale.
Purtroppo, un esercito piccolo e male in arnese – una specie di armata Brancaleone di  monicelliana memoria  - così  descritto dal patriota vicentino Francesco Molon:”Eravamo armati come ben ci piaceva. Alcuni portavano picche degne dell’evo medio…, altri arrugginiti archibugi  a pietra focaia, vecchi fondi dell’Arsenale Veneziano; i meglio arredati, fucili da caccia, un piccolo battaglione  era armato di fucili Schneider. Una diecina di giovani eretti su rozze sfiancate figuravano la cavalleria, quattro compassionevoli cannoni da bastimento, già fuori d’uso, tirati con assai lentezza e maestà da bovi, l’artiglieria…Chi possedeva un cavallo nominavasi, ipso jure, ufficiale o capitano; con eguali criteri furono creati i maggiori,  gli aiutanti e il resto. Copia in tutti di entusiasmo  sincero, non di militare dottrina”.
Pur in queste condizioni di netta inferiorità  i  “Crociati”, affiancati validamente dalle truppe pontificie inviate in loro aiuto da Papa Pio IX,  si batterono valorosamente  ottenendo anche qualche successo, ma furono alla fine sconfitti  il  10 giugno 1848 a Monte Berico da  20.000 soldati austriaci ben armati ed ottimamente organizzati che poterono così entrare vittoriosi in città.
I Crociati padovani  rientrati in città  dopo la caduta di Vicenza si apprestano a difendere Padova contro il nemico avanzante,  ma un ordine del Governo della Repubblica Veneta che riteneva  impossibile tale difesa ordina  loro di  rinunciarvi e di ripiegare su Venezia per ivi concentrare tutte le forze disponibili per difendere la libertà della  Repubblica di S.Marco.
Pur dissentendo,   Cavalletto - che avrebbe voluto affrontare il nemico -  ed i suoi uomini  disciplinatamente obbediscono e così  il 14 giugno 1848  gli austriaci,  avidi di vendetta, rientrano senza combattere nella Padova che avevano abbandonata solo quattro mesi prima.
Intanto arde a Venezia la disperata resistenza contro gli austriaci giunti ormai ai bordi della laguna, ed i Crociati padovani, agli ordini del maggiore Alberto Cavalletto   vi  partecipano valorosamente finchè il lungo assedio costringe la Repubblica di S.Marco, il 23 agosto 1849,  alla resa ancora una volta tenacemente avversata dal patriota padovano propugnatore di  una difesa ad oltranza.      
 Gli austriaci  concedono l’amnistia ai soldati che hanno partecipato all’eroica difesa cosicchè il Cavalletto ed i  suoi Crociati alla fine d’agosto del 1849 possono  rientrare a Padova  ove  proseguono nella  clandestinità la lotta contro gli austriaci.       
 Resta da dire degli alleati dei Crociati negli avvenimenti che interessarono il Veneto dal marzo 1848 all’agosto 1849: le truppe pontifice.
 Il Cardinale Giovanni Maria Mastai Ferretti  eletto Papa con il nome di Pio IX nel 1846 aveva subito assunto un atteggiamento politico riformista contrastante con l’assolutismo degli altri governi europei alimentando in tal modo  le speranze dei patrioti  anelanti all’unità d’Italia cosicchè perfino Garibaldi dall’America in cui si trovava non aveva esitato a promettergli che, appena rientrato in Italia,  si sarebbe messo a sua disposizione.
Così, allo scoppio della prima guerra d’indipendenza (23 marzo 1848) il Papa non aveva esitato ad inviare un’armata di 20.000 uomini (gli “Svizzeri”) comandati dal Generale Giovanni Durando in appoggio all’esercito piemontese di Carlo Alberto ed alle città venete insorte contro gli austriaci nella (vana)  attesa dell’arrivo dei liberatori piemontesi: ed a Vicenza i papalini partecipano con i  Crociati alla strenua difesa della città.
Dopo l’ infausta fine della 1° Guerra d’indipendenza gli “Svizzeri” ottengono dagli austriaci l’autorizzazione a rientrare nello Stato Pontificio ove nel frattempo Pio IX che tante speranze aveva alimentato nei patrioti italiani, aveva mutato pensiero (forse anche per il timore di uno scisma in Austria?) e revocato i provvedimenti liberali già concessi, riallineandosi con i regimi assolutisti europei. Ma 6000 di essi, invece di riprendere la strada di Roma, prendono quella di Venezia  e partecipano valorosamente alla sua disperata, infelice resistenza.
Cessa così, a causa del comportamento di Pio IX,   Vicario di Cristo in terra cui la cattolicità deve fra l’altro la  proclamazione del dogma  dell’Immmacolata Concezione di Maria, ma Capo di Stato ondivago,  miope e conservatore  che non ebbe la lungimiranza di cogliere i segni del tempo, l’alleanza fra lo Stato Pontificio ed il Piemonte di Carlo Alberto  che avrebbe potuto accelerare ed accompagnare quel movimento irresistibile che portò all’Unità d’Italia, evitando in tal modo  lo storico dissidio fra Stato e Chiesa che turbò per tanti anni l’animo degli italiani.

                                                                                                         Giovanni  Zannini  

lunedì 8 novembre 2010

In ricordo di un Eroe - DON RUGGERO RUVOLETTO




Perché Eroe  non è solo colui che muore per la  Patria (come nelle guerre di ieri)  o  chi si immola in difesa dei diritti civili di popolazioni oppresse da regimi  dittatoriali e da violenze di ogni genere, o per ristabilire ordine, legalità e pace fra nazioni in conflitto  (come, oggi, le missioni di “Peace Keeping”   dell’ONU), ma anche chi dona la vita, come d.Ruggero Ruvoletto,  mentre sta  combattendo in campi di battaglia non meno insidiosi degli altri, contro miseria, ingiustizia, ignoranza, violenza, perDON RUGGERO RUVOLETTO
portare Cristo ove non è conosciuto o è, addirittura, perseguitato.
Ecco perché, di fronte alla sua bara, dopo aver rivolto  la preghiera di affidamento della Sua anima al Signore, sono risuonati nella mia mente,  solenni, i  versi  dei  “Sepolcri” del Foscolo:” A egregie cose il forte animo accendono l’urne dei morti…..”.
Quali  “cose”, dunque, deve portare a noi Cursillisti l’esempio del sacrificio di d.Ruggero?.
Spingerci ad insistere con rinnovato vigore sulle vie indicate dai nostri padri fondatori,  primo fra tutti l’indimenticato   Eduardo Bonnin,  raddoppiando le nostre preghiere al Signore perché ci aiuti nel nostro cammino.
Studiare e migliorare la nostra preparazione culturale  ed approfondire i principi ispiratori del Movimento  per dare maggiore efficienza alla nostra azione.
Reagire  alla tentazione  del quieto vivere che vorrebbe indurci  a lasciare che il mondo vada come sta andando perché tanto non vi è niente da fare.
Rafforzare i vincoli che ci uniscono agli altri Cursilllisti per muoverci  assieme  ed  esaltare la fratellanza  solidale  derivante  dalla “filosofia” del  “Gruppo”.
Cogliere ogni occasione per far conoscere maggiormente il Movimento e favorire la partecipazione ai nostri “Cursillos”.
Studiare il metodo migliore per recuperare quanti, dopo la meravigliosa esperienza dei tre giorni, si sono allontanati dal Movimento.
Se, dunque, non prenderemo lo spunto dal sacrificio di d.Ruggero per reagire al tran-tran e riprendere con rinnovato vigore   il cammino,  il nostro dolore sarà di facciata e non darà frutti.      
                                                                                                                                  G.

IL NO DI GARIBALDI A LINCOLN


A Garibaldi, si sa, piaceva l’avventura e, quand’era l’ora, le decisioni le sapeva prendere rapido e veloce.
Ma quella volta……...
Nell’America del Nord, all’interno della  “Unione degli Stati Uniti d’America” la discussione sul problema dell’abolizione della schiavitù era iniziata fin dai primi  anni del 1800 e vedeva contrapposti gli stati del Nord favorevoli alla sua abolizione, e quelli del Sud che volevano mantenerla.
Alla fine, dopo la vittoria di Abramo Lincoln nelle elezioni presidenziali la rottura avvenne, e fu devastante:  l’8 febbraio 1861 gli Stati del sud lasciarono l’”Unione” e costituirono la nuova “Confederazione degli Stati Americani”.
La spaccatura vide quindi contrapposti  gli   “Unionisti” ( gli stati rimasti fedeli all’”Unione”) ed  i “Confederati ( quelli che avevano aderito alla nuova “Confederazione”):      ed i cannoni di questi ultimi  che il 12 aprile 1861 spararono nel porto di Charleston contro il forte Summer sede dell’autorità legittima , diedero inizio a quella sanguinosa guerra civile che in 4 anni  coinvolse oltre 2 milioni  di combattenti provocando migliaia di vittime e danni  incalcolabili.
A capo dell’esercito nordista  il  gen.Ulysses  S. Grant, di quello sudista  i generali Robert E Lee e Thomas J. Jackson (il leggendario “Muro di pietra” morto nella sanguinosa battaglia di Chancellorsville nella quale era riuscito a battere l’esercito avversario).
 In Italia,  Garibaldi, in quello stesso periodo (inizi 1861), è tranquillo : il 26 ottobre dell’anno precedente,  a Teano, ha consegnato a Vittorio Emanuele II il sud  Italia da lui liberato; il 7 novembre, a Napoli, ha rimesso il suo potere  dittatoriale  nelle mani del Re ed il 9 successivo si è imbarcato per Caprera per riprendersi dalle fatiche della recente impresa  anche perché l’artrite che lo tormenta da tempo (e che, fortunatamente,  durante la spedizione dei Mille non si era fatta viva forse per il clima caldo della Sicilia e del Mezzogiorno), è tornata a farsi sentire.
Ma non sta in ozio, e si dedica in modo particolare al problema di dare una sistemazione a quei volontari (ancora inquadrati nel cosiddetto “Esercito Meridionale”) che con lui hanno liberato l’Italia del sud e che vorrebbe immessi nell’esercito regolare  incontrando però la resistenza  di quanti temevano che, ove ciò avvenisse, l’immissione di militari improvvisati avrebbe finito (secondo  Alfonso Scirocco nel suo “Garibaldi – Battaglie, Amori, Ideali di un cittadino del mondo”)  per “inquinarne la disciplina e la professionalità”.
E allorchè si parla di scioglimento dell’”Esercito Meridionale”,  Garibaldi si precipita a Roma ed  in Parlamento   pronuncia una violenta filippica contro i promotori di questa  proposta, provocando la  dura reazione del  gen. Cialdini che rischia di degenerare in un duello fortunatamente  evitato dall’intervento di amichevoli pacieri.

L’offerta

In questo clima arriva a Garibaldi, nel  giugno 1861, una lettera del Console statunitense ad Anversa che, come scrive  Scirocco,  “autorizzato dal suo governo”  - e quindi da Lincoln - gli offre “un comando nelle armate nordiste” affermando che “migliaia di cittadini americani si glorierebbero di  mettersi agli ordini del Washington d’Italia”.
La lettera è l’ennesima conferma dell’enorme  popolarità di Garibaldi nel mondo, ed in particolare nel continente americano, ove è vivissimo il ricordo delle battaglie da lui sostenute  per anni in Sudamerica per l’indipendenza del Rio Grande do Sul contro il Brasile e dell’Uruguay contro l’Argentina.
Con ciò, evidentemente,  i Nordisti   sfruttando l’aureola che circondava la fama leggendaria dell’Eroe dei due Mondi,  speravano che, in caso di  accettazione della loro proposta un gran numero di  combattenti sarebbero giunti ad ingrossare le loro fila.
Garibaldi,  però, questa volta, non decide, prende tempo e fa sapere che avrebbe considerato  l’offerta americana solo se il Re non avesse richiesto i suoi servigi: ed è  strano, diciamolo,  che egli vada  a farsi consigliare proprio da  Vittorio Emanuele II che in più occasioni aveva manifestato ben scarsa simpatia (per non dir altro) nei suoi confronti.    
Ed ecco  la lettera di Garibaldi al Re:” Il Presidente degli Stati Uniti mi offre il comando di quell’Esercito; io mi trovo in obbligo d’accettare tale missione per un paese , di cui sono cittadino. Tuttavia, prima di risolvermi, ho creduto  mio dovere d’informare la Maestà Vostra  e sapere se crede che io possa avere l’onore di servirla”.
La risposta del sovrano non stupisce:”Caro Generale, per quello che riguarda d’assumere il comando che gli ha offerto il governo degli Stati Uniti, mi pare che deve seguire gli impulsi della sua coscienza verso l’umanità sofferente.  Caro Generale, qualunque sia la sua determinazione, io sono bene sicuro che non dimenticherà la patria italiana  come io non dimenticherò mai la sua amicizia”.
E’ chiaro che il Re, lasciandogli mano libera, ed anzi facendogli  comprendere che appoggiava l’ accettazione  della proposta americana,  coglie la palla al balzo per liberarsi di un personaggio che, è vero, gli è stato assai utile, ma anche gli aveva dato, con i suoi colpi di testa e la sua imprevedibilità,  molti grattacapi,  ed altri  avrebbe potuto procurargliene  in futuro.
Aprendo una piccola parentesi  grammaticale, sia consentito osservare, sia pure con tutto il rispetto per l’augusto mittente,  che al posto di quel “gli” ci sarebbe dovuto stare un “Le”.
Venendo poi alla lettera di Garibaldi a Vittorio Emanuele,  si osserva che essa conteneva un’imprecisione perché, in realtà i Nordisti  gli avevano  offerto non “il” comando delle loro armate, sibbene “un comando”, ossia di una parte di esse, forse un  esercito di volontari non si sa quanto grande, adatto alla guerra per  bande nella quale  Garibaldi era maestro indiscusso.
E’ quanto avverrà una diecina d’ anni dopo allorchè,   giunto, in nome della libertà dei popoli,  in  Francia per difenderla dall’invasore prussiano,  venne messo a capo di una variopinta ”Armata dei Vosgi” composta da uomini di ogni razza (italiani, spagnoli, polacchi, egiziani, tunisini, greci,  inglesi) e male organizzati  che però, galvanizzata dall’esempio e  dal  fascino indiscusso che emanava dalla persona di Garibaldi, seppe dare severe lezioni   a truppe scelte come quelle prussiane.   
In realtà la proposta americana non lo invoglia perché lo avrebbe distratto da altre imprese che  andava meditando per completare l’unità d’Italia (Roma capitale, la liberazione del Veneto), e pur avendo avuto  le mani libere dal Re, cerca e trova nuovi pretesti.

Un no cortese ma fermo.

Anzitutto, pretende “il” comando di tutte le forze nordiste e non solo di una parte (richiesta chiaramente assurda che avrebbe fatto passare il gen. Grant ai suoi ordini); poi, che Lincoln proclami immediatamente l’abolizione della schiavitù  invece di limitarsi a proibirne l’estensione negli stati in cui non era praticata, affermando che  la questione andava risolta col tempo.
Le due condizioni vengono respinte e la trattativa viene abbandonata.
 Sul rifiuto di Garibaldi influirono certamente le pressioni dei democratici italiani preoccupati che con l’allontanamento del loro esponente più prestigioso si arenassero molte iniziative che si andavano covando.
Resta da chiedersi se,  ove Garibaldi avesse accettato l’offerta di Lincoln,  avrebbe potuto influire sull’esito della guerra civile americana.
 La risposta è ardua ma non è azzardato affermare  che il suo proclamato impegno  per l’abolizione della schiavitù (ricordiamo che uno dei suoi  fedelissimi, una specie di guardia del corpo, era il negro Agujar  da lui liberato con molti altri durante le guerre sudamericane, che si era portato dietro allorchè nel 1848 aveva lasciato l’America per raggiungere l’Italia , e che morì a Roma nel 1849 combattendo per la libertà della Repubblica Romana);   la sua aureola d’ invincibilità; il  fascino che trascinava gli uomini  all’attacco,  la sua tecnica di combattimento anomala ed imprevedibile che scompaginava  eserciti ligi ai manuali di strategia militare e che avrebbe potuto  impiegare  nelle vaste pianure dell’America del Nord così come aveva fatto vittoriosamente nelle sconfinate pampas sudamericane,    ed un coraggio ai limiti della temerarietà,  avrebbero  forse potuto  accelerare la vittoria  della civile America del nord  sui retrivi conservatori  schiavisti del sud.
                                                                                Giovanni Zannini