mercoledì 27 febbraio 2013

LA PRIMA (E ULTIMA) NOTTE DI BEN E CLARICE


                   
Quante volte l’avevano desiderato?
Costretti nella clandestinità della “garconnière” di Palazzo Venezia a fianco della sala del Mappamondo,
gli amanti si dovevano accontentare di rapidi incontri ai quali, pazientemente, Clarice si assoggettava, fra un’udienza e l’altra del duce, dopo che lui avesse firmato la posta in partenza o esaminata quella in arrivo, o terminato lunghi colloqui telefonici con i potenti di mezzo mondo.
Sempre clandestinamente, perfino, riferisce Arrigo Petacco nel suo recente “Eva e Claretta – Le amanti del diavolo” (Arnaldo Mondadori Editore – 2012), in cerca di luoghi ove non dar nell'occhio, durante l'effimera Repubblica di Salò, in cima alla torre del Vittoriale, a Gardone, inebriati dall'aura del Vate.
Ma mai una notte intera di passione, perchè “Mussolini ...aveva abitudini borghesi: tradiva la moglie soltanto di giorno” e la moglie Rachele confermava che “Ogni sera il mio uomo torna sempre nel suo letto”.
E quante volte avranno sognato una vacanza spensierata, al riparo da sguardi indiscreti, in una villa tutta loro sul mare o in una baita delle Dolomiti ove coltivare un amore clandestino, sì, e riprovevole, certo, ma che, riconosciamolo, è stata una passione inestinguibile fino alla morte?
Strano il destino di quell’ uomo potente, di non poter godere quel piacere che arride ad altri assai meno potenti di lui, o, addirittura, poveri e miserabili, ma liberi di manifestare il proprio amore.
E come lui avrà invidiato il duce tedesco che, invece, libero da legami, poteva esibire, nel lusso della sua casa, l’ amata Eva ammirata, rispettata e, dalle altre, invidiata!
Ecco, il giorno è arrivato, soli , in una camera piccola ed intima, con pochi mobili alla buona ed un gran letto invitante, con lenzuola bianche pulite, odorose di lavanda: ma con due uomini col mitra in pugno alla porta, in attesa delle decisioni del destino.
Il sogno si è avverato, ma quanta tristezza , dopo una giornata di fuga fra mille pericoli e paure, fra gente festante, indifferente al loro dramma, ed ancora incredula che l’ odiata preda sia caduta in trappola.
Ma, fra tanto odio, un fatto che fa riemergere la memoria d' un mondo d’altri tempi.
Mussolini chiede ed ottiene dal monarchico partigiano conte Pier Bellini delle Stelle, il capo degli uomini che l’hanno catturato, di essere riunito all’ amante e il vincitore, che avrebbe potuto infierire sull’avversario ormai in suo potere, negandogli anche il conforto di avere accanto la donna amata, vi acconsente.
Un gesto di cavalleria ove i nitriti dei quadrupedi e l’irrompere dei loro zoccoli sono sopravvissuti allo sferragliare dei cingoli dei “panzer” ed al tuono delle bocche da fuoco.
E allora anche gli avversari - il politico, il moralista, lo psicologo, lo scrittore, il polemista - si ritirano dinanzi al dramma umano consumatosi in quella stanza che nessuno al mondo conoscerà mai, e lasciano il passo all’immaginazione ed alla fantasia.
Vi fu, lì, amore, oppure la paura, l’ansia, il terrore del futuro avranno prevalso sulla passione, annientandola?
E che si saranno detti gli amanti: parole di conforto e di speranza, fiducia in possibili eventi imprevisti capaci di ribaltare il drammatico presente, il ricordo di momenti difficili superati, e la speranza che ancora una volta ciò sarebbe avvenuto, oppure la consapevolezza del baratro in cui sono precipitati e la nera incognita del futuro che li attende?
Forse - è imperscrutabile l'animo umano - una preghiera, un pensiero sull’aldilà che potrebbe incombere, e sulla suprema resa dei conti?
La storiografia di quel drammatico episodio, depurata da ipotesi, supposizioni, testimonianze che si accavallano e si contraddicono, parla dell’arrivo della coppia nella modesta casa di Giovanni De Maria - persona di fiducia di Pier Luigi Bellini delle Stelle, “Pedro”, comandante della 52° Brigata Garibaldi che ha catturato Mussolini a Dongo – nelle prime ore, verso le tre, del 28 aprile 1945 dopo una serie convulsa di spostamenti.
Da Dongo, luogo della cattura in preda alla confusione ed al caos, alla caserma della Guardia di Finanza di Germasino considerata più sicura per la sorveglianza dei prigionieri. Da lì, una puntata a Moltrasio nel tentativo di traghettare i due amanti a Blevio, dall’altra parte del lago, nella villa dell’industriale Remo Cademartori - che confermò il piano di salvataggio - per sottrarli alla caccia del col.Valerio e della sua squadra avidi del loro sangue, in attesa di consegnarli alla legittima autorità del CVL – Corpo Volontari della Libertà. Infine, fallito il tentativo, il rientro, a notte fonda, non più a Germasino, ma in un rifugio considerato ancor più sicuro e segreto, nella casa De Maria a Bonzanigo di Mezzegra.
Quindi, la permanenza di Mussolini e della Petacci in quella camera fu pressapoco di una dozzina di ore , dalle tre del 28 aprile alle 16/16,30 dello stesso giorno allorchè, avendo individuato la loro residenza, il col. Valerio irrompe, li preleva e li conduce sul luogo dell’esecuzione, poco lontano, dinanzi al cancello della villa Belmonte.
Ma le cose potrebbero essere andate diversamente ove avesse fondamento l’ipotesi, più truce, avanzata dal giornalista ed ex deputato missino Giorgio Pisanò secondo il quale Mussolini e la Petacci furono uccisi in casa De Maria durante una colluttazione fra l’ex duce e chi voleva recare violenza alla sua amante.
Cosicchè al col. Valerio, sopraggiunto, non restò che far trasportare Mussolini e la Petacci, già uccisi, davanti a villa Belmonte ed inscenare la fucilazione dei due cadaveri.
E’ la teoria della doppia uccisione sulla quale si sono già versati fiumi d’inchiostro, che arricchisce e ancor più intorbida questo drammatico episodio della storia italiana.
Giovanni Zannini

Nota: Il nome dell'amante di Mussolini, detta Claretta, era, in realtà, Clarice, voluto dalla madre signora Giuseppina Persichetti in Petacci, pia terziaria Francescana delle Clarisse .   

lunedì 25 febbraio 2013

25 luglio 1943 MA QUALE COLPO DI STATO

Romano Mussolini rievocando nella trasmissione televisiva “Porta a Porta” di qualche tempo fa la figura del padre Benito, ha affermato che all'interno del Gran Consiglio del Fascismo era sopravvissuto un residuo di democrazia in quanto era previsto il diritto di voto dei consiglieri che potevano quindi dissentire dal Duce.
L’affermazione è solo apparentemente esatta.
Il “Regolamento interno del Gran Consiglio del Fascismo” approvato all’unanimità dallo stesso consesso nella seduta del 9 aprile 1929 , coperto da segreto di stato per tutto il periodo fascista, sin qui inedito ed attualmente in mio possesso, prevedeva in effetti il diritto di voto dei consiglieri regolato dettagliatamente nel paragrafo “Delle adunanze” agli articoli da 11 a 17.
Ma, in realtà, tale apparente cascame di democrazia veniva brutalmente annullato dall’art.2 del Regolamento stesso che prevedeva un vero e proprio diritto di veto del Capo del Governo Presidente del Gran Consiglio il quale “ha facoltà di interrompere in ogni momento la discussione su qualsiasi questione e di sospendere la esecuzione delle deliberazioni del Gran Consiglio”.
Viene da chiedersi perchè Mussolini non si sia avvalso di tale potere nella drammatica seduta del 24 luglio 1943 in cui la maggioranza approvò l’ordine del giorno Grandi a lui sfavorevole.
Forse perché, stressato dall’esercizio di un potere assoluto protrattosi per vent’anni e reso consapevole del suo fallimento dall’invasione della Sicilia da parte degli alleati, non ebbe più la forza di affrontare i nuovi drammatici problemi che sarebbero derivati dal suo “veto” e preferì percorrere la strada in allora costituzionale aperta dal voto del Gran Consiglio per rimettersi in extremis in carreggiata sulla via di quella democrazia a suo tempo combattuta e vilipesa nella speranza di una sua uscita meno traumatica dal pantano in cui era andato a cacciarsi.
Da quanto precede emerge anche discutibile che si possa qualificare colpo di stato quanto avvenne in Italia nel luglio 1943 nel rispetto di una procedura che era stata acutamente prevista, in tempi non sospetti - 1940 – da Paolo Biscaretti di Ruffia, libero docente di diritto costituzionale nell’Università di Roma,
Nel suo “Le attribuzioni del Gran Consiglio del Fascismo” egli scriveva infatti, lucidamente, che il Gran Consiglio, “solito a collaborare in diretto contatto con il Capo del governo, entra in contatto con la Corona soltanto in quegli estremi momenti in cui è in gioco il destino della nazione quando il Sovrano, supremo arbitro della corrispondenza di un determinato indirizzo politico alle necessità più vitali della collettività nazionale, deve addivenire alla nomina di un nuovo Capo del governo”.
E’ quanto precisamente avvenne il 25 luglio: il Re, preso atto del voto del Gran Consiglio – terzo organo costituzionale, con la Corona ed il Capo del Governo , dello stato fascista - convoca Mussolini ed in base all’art 65 dello Statuto Albertino in allora ancora vigente in base al quale “Il Re nomina e revoca i suoi ministri “, gli revoca la nomina a Primo Ministro e nomina, al suo posto, Pietro Badoglio.
Senza che si sia sparato un sol colpo di pistola:
E’ dunque giusto continuare a parlare di “Colpo di stato del 25 luglio 1943?”. Giovanni Zannini


lunedì 4 febbraio 2013

LA "PIETRA DI S.GIUSTINA"


La “restituito” da parte della Chiesa veneziana a quella padovana di un antico simulacro a lei caro potrebbe costituire un avvenimento significativo e suggestivo.
Si tratta della “pietra” sulla quale la tradizione vuole fosse inginocchiata la Santa durante il suo martirio, e sulla quale sarebbero rimasti prodigiosamente impressi i segni delle sue ginocchia.
L’episodio fu rappresentato dal Veronese oltre che in uno splendido grande dipinto custodito agli Uffizi fiorentini, anche in un quadro più piccolo ma altrettanto prezioso conservato nel Museo Civico padovano.
Vi si osserva la Santa morente, inginocchiata, con il petto trafitto dal pugnale e, sullo sfondo, il cocchio – sul quale si intravvede il viso di lei accorrente a portar conforto ai fratelli cristiani arrestati durante le persecuzioni dell’anno 304 - mentre attraversa un ponte.
Proprio quello padovano di Pontecorvo (da “Ponte curvo”, ossia a schiena di mulo)che dal centro città, superando la “Canaletta”, adduce a Piazzale e Porta omonimi, alla cui fine, sulla sinistra a ricordo dell’evento, venne costruita una piccola edicola che esiste tuttora e dove venne murata la pietra del martirio.
Questo cimelio restò in loco fino al 1405 allorchè i veneziani - finalmente impadronitisi di Padova - la portarono come preda di guerra nella loro città depositandola nella veneziana omonima chiesa di S.Giustina.
Ma neppure lì trovò pace perché dopo la soppressione di questa chiesa a seguito degli editti napoleonici, essa venne fortunosamente trasferita nel 1810 nella chiesa di S.Francesco della Vigna ove tuttora si trova, e murata su di una parete della cappella di San Pasquale Baylon, terziario francescano spagnolo del Cinquecento.
Si tratta di un quadrato di pietra grigia di circa 80 centimetri di lato recante al centro due profonde incisioni, quelle che sarebbero state impresse, secondo la tradizione, dalle ginocchia della Santa al momento del suo sacrificio.
La sua autenticità è attestata da una piccola lapide sottostante (una specie di cartiglio, dunque) scritta in latino, datata 20 agosto 1462 che indica, evidentemente, la data in cui la pietra trafugata da Padova venne collocata a Venezia nella chiesa di Santa Giustina, e non quella, molto successiva, in cui avvenne il trasloco a S.Francesco della Vigna.
Eccone la traduzione:”Per notizia a noi pervenuta dagli antenati a seguito di indubbia tradizione, è questa la pietra che qui riponemmo per la devozione dei fedeli, sulla quale la Vergine Giustina impresse il segno della sua genuflessione a seguito della preghiera fatta prima del suo martirio”.
Vien dunque da chiedersi se non sarebbe opportuno ed altamente significativo riportare a Padova questo reperto che giace dimenticato in una chiesa veneziana nella cappella dedicata ad un santo illustre sulla cui santità non vi è dubbio alcuno, ma che con la martire padovana non c’entra, francamente, per nulla.
Costituirebbe la riparazione di un torto fatto da Venezia a Padova in tempi fortunatamente assai lontani allorché perfino immagini sacre e simulacri legati alla tradizione religiosa potevano costituire ambite prede di guerra, ed una dimostrazione di carità e di amore fra chiese sorelle.
Ove ciò avvenisse, la “pietra” tornerebbe ad essere collocata nel “suo” sacello proprio nel punto in cui si trovava, laddove oggi, per iniziativa di Leone Sattin, titolare della contigua officina di ciclo-riparazioni e di alcuni altri benemeriti cittadini, una bella raffigurazione della santa copre un vuoto altrimenti desolante.
Giovanni Zannini