Padova 6.5.2005
“E’ incredibile” mi dice un amico,”come cambiano i tempi. Ti ricordi gli anarchici, quelli che tiravan bombe e sparavano ai re?
Ora ti accompagnano a visitare le ville, i giardini ed i castelli dei miliardari, illustrandoti le origini, gli stili e gli antenati dei proprietari, dimentichi di come quelli, assai sovente con pochi scrupoli, abbiano fatto i quattrini”.
Gli dico che la cosa mi farebbe piacere perché la pace sociale è una bella cosa, ma che non ci credo, ed allora l’altro mi sbatte in faccia un giornale che titola “FAI (ossia la FEDERAZIONE ANARCHICI ITALIANI, mi spiega l’amico)apre le porte a splendide ville ed antichi manieri”.
Incredulo, telefono al direttore del giornale il quale trattandomi come se fossi un deficiente, si stupisce che io non sappia che la sigla FAI riguarda sia la FEDERAZIONE ANARCHICA ITALIANA, sia il benemerito FONDO AMBIENTE ITALIANO organizzatore di varie iniziative ambientalistico-culturali. Attenti, però, a non confonderlo con la FAI-FEDERAZIONE AUTOTRASPORTATORI ITALIANI, e neppure con la FAI – FEDERAZIONE ANTIUSURA ITALIANA che sono tutt’altra cosa.
Un giorno sento alla radio che l’ABI indice una serie di conferenze per approfondire la conoscenza del Vecchio Testamento, argomento che mi ha sempre interessato.
Mi stupisce un po’ che adesso i banchieri sin qui dediti alla speculazione e ad affari non sempre limpidissimi, si mettano a divulgare salmi e libri dei Profeti, ma, pensando che lo facciano per ottenere dal Buon Dio il perdono per i suddetti peccati, mi reco in una banca per avere migliori informazioni.
Anche lì mi trattano come il direttore di quel tal giornale chiarendomi, con supponenza, che per il Vecchio Testamento occorre rivolgersi non alla ABI-ASSOCIAZIONE BANCARIA ITALIANA, sibbene alla ABI-ASSOCIAZIONE BIBLISTI ITALIANI.
Un’altra volta, in campagna elettorale, desideroso di informarmi sul programma della CDL, mi reco all’indirizzo indicato su di un manifesto e resto di sasso di fronte ad una marea di bandiere rosse e ad un gruppo di compagni che canta a squarciagola bandiera rossa.
Ma come, mi dico, Berlusconi che ce l’ha a morte con i comunisti, fa sventolare nelle sue sedi vessilli scarlatti e fa intonare dai suoi fedelissimi canzonacce anticapitalistiche inneggianti alla rivoluzione? E’ proprio vero che in politica non ci si deve stupire di nulla, neppure quando l’Uomo di Arcore si allea con i rossi.
I quali a momenti mi menano pensando che li voglia prendere in giro se pretendo di trovare il suddetto dalle loro parti: “questa è la CDL-CAMERA DEL LAVORO” mi dicono guardandomi con occhio non benevolo, “e se vuoi sentire le baggianate del “cavaliere”, vai alla sede della CDL-CASA DELLE LIBERTA’, perché qui hai sbagliato indirizzo”.
Insomma, non voglio essere noioso raccontando i vari equivoci in cui sono caduto a causa delle maledette “sigle”.
Mi sia però consentito di chiedere umilmente ai giornalisti ed a tutti quelli che le usano, di avere la bontà di dettagliare il loro significato perché non si può pretendere che il normale cittadino le conosca tutte per filo e per segno.
Ad evitare, ad esempio, di confondere, l’ACI-AUTOMOBILE CLUB D’ITALIA, con l’ACI-ASSOCIAZIONE CANONISTICA ITALIANA, la PAC-POLITICA AGRICOLA COMUNE, con PAC-PIANI ACCUMULO CAPITALI o con i PAC-PROLETARI ARMATI per il COMUNISMO, la CIA-CONFEDERAZIONE ITALIANA AGRICOLTURA con la famosa CIA americana, il CIS-CENTRO INVESTIGAZIONI SCIENTIFICHE (dei CC) con il CIS, il bollettino Rai “viaggiare informati”, il GAS per cuocere la pastasciutta con il GAS-GRUPPO ACQUISTI SOLIDALI, il CUS-CONTO UNICO SPETTACOLO con il CUS-CENTRO SPORTIVO UNIVERSITARIO, l’ANCI-ASSOCIAZIONE NAZIONALE COMUNI ITALIANI con l’ANCI-ASSOCIAZIONE NAZIONALE CALZATURIERI ITALIANI, la RSI-REPUBBLICA SOCIALE ITALIANA con la RSI-RESPONSABILITA’ SOCIALE d’IMPRESA, l’inglese RAF-ROYAL AIR FORCE con la RAF-ROTE ARMEE FRAKTION (organizzazione tedesca di estrema sinistra), il COI-CENTRO ORIENTAMENTO PASTORALE, con il COI-COMANDO OPERATIVO INTERFORZE, l’ANGOLO di un triangolo con l’ANGOLO-ASSOCIAZIONE NAZIONALE GUARITI 0 LUNGOVIVENTI, e qui mi fermo anche se l’elenco potrebbe continuare ancora a lungo.
E chi sa che qualche intraprendente industriale (magari quello che già pubblica le “Pagine Gialle) non pensi di pubblicare una “GUIDA ALLE SIGLE” per aiutare l’ignaro cittadino italiano a galleggiare nel mare magno delle SIGLE.
Giovanni Zannini
N.B. Le sigle sopra riportate non sono frutto di fantasia ma tutte vere e realmente esistenti.
Questo Blog raccoglie molti miei scritti alcuni dei quali pubblicati su giornali e riviste. Non sono uno storico ma è mio desiderio informare su fatti ed episodi poco noti che spesso non sono conosciuti dai più. Oltre a ciò il Blog contiene mie considerazioni e commenti su argomenti vari nonché racconti e novelle frutto della mia attività letteraria.
Giovanni Zannini-Pubblicista-via Ferri 6-35126-Padova-Tel.+FAX 049/757890 g.zannini_@libero.it
giovedì 17 novembre 2011
IN PRINCIPIO ERA IL SARCHIAPONE
Sia ben chiaro, non intendo certo mettere in dubbio quanto dice la Bibbia (ci mancherebbe altro), mi permetto solo di suggerire alcune modifiche al testo, senza, con ciò, pensare di stravolgerne la sostanza.
Così, a proposito del “peccato originale” e dei grossi guai che ne sono derivati, nel libro della Genesi si legge che fu il serpente a tentare Eva inducendola a mangiare quella maledetta mela.
E allora il Signore, per punire il serpente tentatore, lo condanna a strisciare sul ventre ed a mangiar polvere per tutti i giorni della sua vita.
Ma come è possibile? Sarebbe come se il Signore avesse condannato un bue a portare le corna, o l’aquila a volare alto, o l’elefante ad usare la proboscide, il gatto a miagolare , il cane ad abbaiare e così via.
E allora, mi chiedo, che razza di animale era il tentatore di Eva prima che il Signore, per punirlo, lo trasformasse in serpente?
Ora io credo che la soluzione di questo conturbante quesito stia in quello sketc di irresistibile comicità recitato anni fa in televisione da Walter Chiari e Carlo Campanini.
Nello scompartimento di un treno ove i due si trovano con altri viaggiatori Campanini si alza di frequente dal suo sedile per raccomandare ad un animale - racchiuso in un sacco e quindi invisibile – che si agita di continuo sul portabagagli, di stare buono.
Chiari, incuriosito, chiede che animale è, ed alla risposta:” Un sarchiapone” rimane interdetto, ma, non volendo dare a vedere la sua ignoranza, azzarda, titubante, alcune osservazioni affinché l’altro si scopra e lui riesca a capire di che si tratta.
Così, invita Campanini a starci attento , con quella bestia, perché, con i denti che ha…..”Ma quali denti, il sarchiapone non ha denti” replica il proprietario dell’animale, scandalizzato dall’ignoranza di Chiari il quale, non domo, insiste:” Certo, è una fortuna possedere un animale che ha una così bella coda…..”Ma quale coda – replica Campanini sempre più scandalizzato – non lo sa lei che il sarchiapone non ha coda?”.
E così via: ogni tentativo di Chiari, sempre più accanito, per cercare di capire di che bestia si tratti, cade nel vuoto perché il sarchiapone non ha zampe, non vola, non abbaia, non ruggisce, non mangia, non beve, è senza occhi, non ha orecchie, non è veloce ma, al contrario, lentissimo, non è oviparo e non è viviparo, non è carnivoro né, tampoco, vegetariano, non salta, non dorme, è senza pelle, non è commestibile, non vola, non salta né, men che meno, è feroce.
Alla fine Chiari, stravolto, con gli occhi fuori dalle orbite, rosso in volto e guatando con odio Campanini, urla:” Ma si può sapere che razza di bestia schifosa e immonda è sto maledetto sarchiapone?”
Domanda che resta senza risposta con grave scorno di Chiari e dei telespettatori perché Campanini, accortosi in ritardo di essere giunto a destinazione, arraffa il sacco con il sarchiapone che continua ad agitarsi, e scende precipitosamente a terra lasciando tutti con un palmo di naso.
Ebbene, io penso di aver fatto una clamorosa scoperta: prima del peccato originale il serpente era un sarchiapone.
Una bestia misteriosa che nessuna saprà mai come fosse, ma probabilmente bella e dotata di fascino – dal momento che Eva non seppe resistergli – che il Signore, per punizione, trasformò in serpente.
Conseguentemente, ritengo che al testo del primo libro della Genesi si dovrebbero apportare alcune modifiche.
Così, quando il Signore chiede ad Eva il motivo della sua disubbidienza, essa dovrebbe rispondere:” Il sarchiapone mi ha sedotto ed io ho mangiato il frutto”; e quando si parla della punizione divina, il testo dovrebbe così recitare:” Il Signore disse al sarchiapone: perché tu hai fatto questo, sei maledetto e striscerai sul tuo ventre e mangerai polvere per tutta la vita”.
Secondo me sarebbe più logico: o no?
Giovanni Zannini
Così, a proposito del “peccato originale” e dei grossi guai che ne sono derivati, nel libro della Genesi si legge che fu il serpente a tentare Eva inducendola a mangiare quella maledetta mela.
E allora il Signore, per punire il serpente tentatore, lo condanna a strisciare sul ventre ed a mangiar polvere per tutti i giorni della sua vita.
Ma come è possibile? Sarebbe come se il Signore avesse condannato un bue a portare le corna, o l’aquila a volare alto, o l’elefante ad usare la proboscide, il gatto a miagolare , il cane ad abbaiare e così via.
E allora, mi chiedo, che razza di animale era il tentatore di Eva prima che il Signore, per punirlo, lo trasformasse in serpente?
Ora io credo che la soluzione di questo conturbante quesito stia in quello sketc di irresistibile comicità recitato anni fa in televisione da Walter Chiari e Carlo Campanini.
Nello scompartimento di un treno ove i due si trovano con altri viaggiatori Campanini si alza di frequente dal suo sedile per raccomandare ad un animale - racchiuso in un sacco e quindi invisibile – che si agita di continuo sul portabagagli, di stare buono.
Chiari, incuriosito, chiede che animale è, ed alla risposta:” Un sarchiapone” rimane interdetto, ma, non volendo dare a vedere la sua ignoranza, azzarda, titubante, alcune osservazioni affinché l’altro si scopra e lui riesca a capire di che si tratta.
Così, invita Campanini a starci attento , con quella bestia, perché, con i denti che ha…..”Ma quali denti, il sarchiapone non ha denti” replica il proprietario dell’animale, scandalizzato dall’ignoranza di Chiari il quale, non domo, insiste:” Certo, è una fortuna possedere un animale che ha una così bella coda…..”Ma quale coda – replica Campanini sempre più scandalizzato – non lo sa lei che il sarchiapone non ha coda?”.
E così via: ogni tentativo di Chiari, sempre più accanito, per cercare di capire di che bestia si tratti, cade nel vuoto perché il sarchiapone non ha zampe, non vola, non abbaia, non ruggisce, non mangia, non beve, è senza occhi, non ha orecchie, non è veloce ma, al contrario, lentissimo, non è oviparo e non è viviparo, non è carnivoro né, tampoco, vegetariano, non salta, non dorme, è senza pelle, non è commestibile, non vola, non salta né, men che meno, è feroce.
Alla fine Chiari, stravolto, con gli occhi fuori dalle orbite, rosso in volto e guatando con odio Campanini, urla:” Ma si può sapere che razza di bestia schifosa e immonda è sto maledetto sarchiapone?”
Domanda che resta senza risposta con grave scorno di Chiari e dei telespettatori perché Campanini, accortosi in ritardo di essere giunto a destinazione, arraffa il sacco con il sarchiapone che continua ad agitarsi, e scende precipitosamente a terra lasciando tutti con un palmo di naso.
Ebbene, io penso di aver fatto una clamorosa scoperta: prima del peccato originale il serpente era un sarchiapone.
Una bestia misteriosa che nessuna saprà mai come fosse, ma probabilmente bella e dotata di fascino – dal momento che Eva non seppe resistergli – che il Signore, per punizione, trasformò in serpente.
Conseguentemente, ritengo che al testo del primo libro della Genesi si dovrebbero apportare alcune modifiche.
Così, quando il Signore chiede ad Eva il motivo della sua disubbidienza, essa dovrebbe rispondere:” Il sarchiapone mi ha sedotto ed io ho mangiato il frutto”; e quando si parla della punizione divina, il testo dovrebbe così recitare:” Il Signore disse al sarchiapone: perché tu hai fatto questo, sei maledetto e striscerai sul tuo ventre e mangerai polvere per tutta la vita”.
Secondo me sarebbe più logico: o no?
Giovanni Zannini
QUANDO I PRETI ELOGIANO MAZZINI
Non so se sia mai accaduto che in una chiesa cattolica, nell’omelia della domenica, sia stato citato un personaggio, come Mazzini, che per la Chiesa aveva di sicuro poca simpatia, anche se il suo giudizio negativo era soprattutto determinato dall’avversione al Papa-Re che non voleva saperne di rinunciare al potere temporale impedendo così a Roma di divenire la capitale dell’Italia unita per la quale egli si è battuto per tutta la vita.
Eppure ciò è avvenuto - ed è interessante notarlo in un periodo in cui il Risorgimento italiano, del quale Mazzini è stato l’”apostolo”, è di grande attualità - in una chiesa della nostra diocesi , sull’altopiano di Asiago, grazie ad un parroco intelligente e colto che ha dato lettura di uno scritto di Mazzini dedicato ai giovani, che tesse un vibrante elogio della famiglia e critica chi vuole attentare ai suoi valori.
Se il sacerdote non l’avesse detto, avresti creduto che stesse leggendo le parole di qualche scrittore illustre, di qualche santo o beato, di qualche vescovo o cardinale se non, addirittura, del Papa. Citiamo solo alcuni passi di questo documento degno d’essere meditato nella sua interezza sia per il contenuto che per la poesia che vi aleggia.
“Le sole gioie pure e non miste di tristezza che sia dato all’uomo di godere sulla terra, sono le gioie della famiglia…Benedite Iddio o voi che avete le gioie e le consolazioni della famiglia…La famiglia è concetto di Dio, non vostro. Potenza umana non può sopprimerla…”.
E sentite cosa manda a dire ai moderni fautori delle famiglie allargate, ai vessilliferi del libero amore, ai profeti del divorzio rapido e veloce, ai “fan” del matrimonio “tocca e fuggi”, ai tifosi della libera convivenza, ai collezionisti di coniugi e di figli altrui: “Santificate la famiglia nell’unità dell’amore…La famiglia ha in sé un elemento di bene raro a trovarsi altrove: la durata. Gli affetti, in essa, vi si stendono intorno lenti, inavvertiti, ma tenaci e durevoli siccome l’edera intorno alla pianta: voi spesso non li discernete perché fanno parte di voi. Ma quando li perdete sentite come se un non so che d’intimo, di necessario al vivere, vi mancasse: la calma dell’onda del lago , la calma del sonno della fiducia, del sonno che il bambino dorme sul seno materno…”.
E poi, l’affondo:”Abbiate dunque, o miei fratelli, sì come santa la famiglia…e respingete ogni assalto che potesse venirle mosso da uomini imbevuti di false e brutali filosofie…”.
Ecco un esempio di come la fede dei cattolici e la ragione dei laici onesti si possono incontrare.
Giovanni Zannini
Eppure ciò è avvenuto - ed è interessante notarlo in un periodo in cui il Risorgimento italiano, del quale Mazzini è stato l’”apostolo”, è di grande attualità - in una chiesa della nostra diocesi , sull’altopiano di Asiago, grazie ad un parroco intelligente e colto che ha dato lettura di uno scritto di Mazzini dedicato ai giovani, che tesse un vibrante elogio della famiglia e critica chi vuole attentare ai suoi valori.
Se il sacerdote non l’avesse detto, avresti creduto che stesse leggendo le parole di qualche scrittore illustre, di qualche santo o beato, di qualche vescovo o cardinale se non, addirittura, del Papa. Citiamo solo alcuni passi di questo documento degno d’essere meditato nella sua interezza sia per il contenuto che per la poesia che vi aleggia.
“Le sole gioie pure e non miste di tristezza che sia dato all’uomo di godere sulla terra, sono le gioie della famiglia…Benedite Iddio o voi che avete le gioie e le consolazioni della famiglia…La famiglia è concetto di Dio, non vostro. Potenza umana non può sopprimerla…”.
E sentite cosa manda a dire ai moderni fautori delle famiglie allargate, ai vessilliferi del libero amore, ai profeti del divorzio rapido e veloce, ai “fan” del matrimonio “tocca e fuggi”, ai tifosi della libera convivenza, ai collezionisti di coniugi e di figli altrui: “Santificate la famiglia nell’unità dell’amore…La famiglia ha in sé un elemento di bene raro a trovarsi altrove: la durata. Gli affetti, in essa, vi si stendono intorno lenti, inavvertiti, ma tenaci e durevoli siccome l’edera intorno alla pianta: voi spesso non li discernete perché fanno parte di voi. Ma quando li perdete sentite come se un non so che d’intimo, di necessario al vivere, vi mancasse: la calma dell’onda del lago , la calma del sonno della fiducia, del sonno che il bambino dorme sul seno materno…”.
E poi, l’affondo:”Abbiate dunque, o miei fratelli, sì come santa la famiglia…e respingete ogni assalto che potesse venirle mosso da uomini imbevuti di false e brutali filosofie…”.
Ecco un esempio di come la fede dei cattolici e la ragione dei laici onesti si possono incontrare.
Giovanni Zannini
RIFORMARE L'INNO NAZIONALE?
I bei versi del nostro inno nazionale rievocanti importanti episodi - di seguito brevemente riassunti - della nostra storia, guardano al passato: ma non sarebbe bene se essi si rivolgessero anche al presente ed al futuro?
Fortunatamente oggi si può amare l’Italia anche senza doversi apprestare a lasciarci la pelle; e poi, a cantarlo tutto, l’”Inno di Mameli”, si corre il rischio di urtare la suscettibilità della vicina amica Austria, della quale l’inno rammemora comportamenti poco cortesi nei nostri confronti che è meglio lasciar perdere.
Ma, a parte ciò, non vi è dubbio che fu certamente un grande quel Publio Cornelio Scipione Maggiore detto “Scipione l’Africano” che inalberando il mitico elmo le aveva date di santa ragione , nel 202 d.c., ad Annibale che aveva invaso l’Italia.
Ed è vero, la battaglia di Legnano che nel 1176 vide la vittoria della Lega Lombarda contro il Barbarossa, è stata una dimostrazione di solidarietà e di virtù militari, e Francesco Ferrucci, che nel 1530, già moribondo, ebbe la forza di gridare a quel tal Maramaldo che lo stava ammazzando,“Vile, tu uccidi un uomo morto”, ha dimostrato un coraggio da leone. Anche i Vespri Siciliani che il 31 marzo 1282 posero fine al dominio angioino a Palermo furono un episodio assai importante, come pure Giovanni Battista Perasso detto “Balilla” che, facendo fischiare nel 1746 il famoso sasso contro gli austriaci ne determinò la cacciata dalla Liguria, dimostrò di avere un caratterino niente male (anche se, purtroppo per lui, il suo nome non suona oggi molto bene in Italia per via dello sfruttamento che se ne fece nel passato).
Ma oggi, oltre ad esaltare ricordi della nostra storia, ritengo sarebbe il caso di inneggiare anche alla pace, al progresso, alla giustizia, al lavoro, alla concordia, alla cultura, all’onestà, e così via, concetti tutti sui quali si basa la nostra costituzione (anche per la quale, guarda caso, si prevedono ritocchi): e sarebbe, questo, un interessante caso di simbiosi fra Costituzione e inno nazionale.
E dunque, senza toccare la musica di Michele Novaro che è tuttora bella, trascinatrice e cantabile, perché non rivedere il testo di Goffredo Mameli (se è suo, perché si mormora che il vero autore sia tal Atanasio Canata dei padri Scolopi, prete intellettuale e patriota al quale il Mameli l’avrebbe sottratto attribuendosene il merito) per ringiovanirlo e renderlo più comprensibile a tutti, anche a quelli che con la storia non hanno molta dimestichezza?
In fondo non saremmo i soli ad occuparci di questo argomento.
Gli spagnoli, ad esempio, stanno peggio di noi perché del loro inno nazionale – la “Marcha Real” – hanno solamente la musica e gli atleti iberici impegnati nelle competizioni internazionali si lagnano di non poter anche loro cantare a pieni polmoni allorquando vien fatto risuonare. Così , il loro forzato mutismo reso evidente dai preliminari di ogni partita o in occasione di altre manifestazioni sportive internazionali, non è da attribuire al fatto che siano tremendamente stonati, ovvero a scarsità di amor patrio, sibbene perché, pur con tutta la loro buona volontà, mancano le parole per poterlo dimostrare.
Per questo, è stato lanciato un concorso per far “parlare” la “Marcha Real”, e già un oscuro disoccupato di 52 anni ha proposto un testo sul quale ferve il dibattito.
Per non parlare dei tedeschi il cui inno nazionale – il “Deutschlandlied” - composto originariamente da tre strofe scritte nel 1841 da A.Heinrich Hoffmann von Fallersleben sulle stupende note di F.Joseph Haydn, si è oggi ridotto, a seguito delle tormentate vicende politiche vissute dalla Germania nel secolo scorso, ad una sola: e per questo alcuni di loro pensano che sia troppo poco e propongono di interpellare poeti, scrittori e letterati per comporne almeno altre due.
Senza dimenticare che se l’”Inno della Federazione Russa” approvato dalla Duma l’8 dicembre 2000 risuona tuttora sulle note create nel 1944 da Aleksandr Aleksandrov, il testo di Sergej Michalkov è poi stato revisionato , dopo la “perestrojka”, dallo stesso disinvolto autore che pur avendo nella precedente edizione inneggiato a Lenin ed al comunismo, ha poi ripiegato su di una più tranquillizzante Russia “…terra natia protetta da Dio”.
Si può dunque concludere che l’idea di “aggiornare” il nostro inno nazionale , non è, forse, del tutto bislacca.
E siccome sono uso criticare quelli che, quando si tratta di risolvere i problemi, dicono che “bisogna fare qualcosa”, ma non dicono mai “cosa”, prendo il coraggio a quattro mani e, pronto a sfidare critiche, ingiurie e sfottò, propongo quello che potrebbe essere il testo del nuovo inno nazionale italiano con la speranza di dare una mano affinchè, dal momento che finora non “s’è desta”, sia la volta buona che l’Italia, finalmente, “si desti”, una volta per tutte.
- - - - - - - - - - - -
Per chi non l’avesse mai letto tutto, riporto il testo dell’“Inno di Mameli” e, di seguito, sulla stessa aria, quello da me proposto.
INNO DI MAMELI
Fratelli d’Italia,
l’Italia s’è desta,
dell’elmo di Scipio
s’è cinta la testa.
Dov ‘è la Vittoria?
Le porga la chioma,
chè schiava di Roma
Iddio la creò.
Stringiamoci a coorte!
Siam pronti alla morte,
siam pronti alla morte,
l’Italia chiamò.
Noi fummo da secoli
calpesti, derisi,
perché non siam popolo,
perché siam divisi.
Raccolgaci un’unica
bandiera, una speme:
di fonderci insieme
già l’ora suonò.
Uniamoci, amiamoci,
l’unione e l’amore
rivelano ai popoli
le vie del Signore.
Giuriamo far libero
Il suolo natio:
uniti con Dio,
chi vincer ci può?
Stringiamoci a coorte!
Siam pronti alla morte,
siam pronti alla morte,
l’Italia chiamò.
Dall’Alpe a Sicilia,
dovunque è Legnano;
ogn’uom di Ferruccio
ha il core e la mano.
I bimbi d’Italia
si chiaman Balilla:
il suon d’ogni squilla
i Vespri suonò.
Son giunchi che piegano
le spade vendute;
già l’aquila d’Austria
le penne ha perdute.
Il sangue d’Italia
e il sangue polacco
bevè col cosacco:
ma il cor le bruciò.
Stringiamoci a coorte!
Siam pronti alla morte,
siam pronti alla morte,
l’Italia chiamò.
Si!
- - - - - - - - - - - -
NUOVO INNO.
Fratelli d’Italia
l’Italia si desti :
pace e lavoro
agli uomini onesti.
E vincan l’amore,
il sapere del saggio,
all’uomo sian guida
virtude e coraggio.
Col sangue e la spada
gli eroi del passato
han fatto d’Italia
un libero stato.
Or giovani forti
richiedono in coro:
non più la pugna,
le lacrime, il duolo!
Al bimbo che nasce
la culla fiorita,
difenda la legge
la donna e la vita.
Giustizia sconfigga
per sempre la fame
e al popolo doni
la casa ed il pane.
Il popol onesto
sconfitta la guerra
col suo sudore
fecondi la terra.
Al franco, al vichingo
ed all’ allemano
l’italico popolo
stringa la mano.
Il bianco col nero
lavori cantando
e insieme sorreggano
il vecchio ch’è stanco.
S’avanzi la scienza,
a tutti il decoro,
col povero il ricco
divida il suo oro.
Noi fummo nei secoli
calpesti, derisi
perché nel passato
siam stati divisi:
mai più saremo
paese conquisto
se avremo la speme
nel popolo e in Cristo.
Or sotto la bella
amata bandiera
giuriam: sia l’Italia
un’unica schiera.
Si!
- - - - - - - - - - -
Giovanni Zannini - Via Ferri 6 – 35126 – Padova – TLFAX 049/757890 – E.Mail: g.zannini_@libero.it
Fortunatamente oggi si può amare l’Italia anche senza doversi apprestare a lasciarci la pelle; e poi, a cantarlo tutto, l’”Inno di Mameli”, si corre il rischio di urtare la suscettibilità della vicina amica Austria, della quale l’inno rammemora comportamenti poco cortesi nei nostri confronti che è meglio lasciar perdere.
Ma, a parte ciò, non vi è dubbio che fu certamente un grande quel Publio Cornelio Scipione Maggiore detto “Scipione l’Africano” che inalberando il mitico elmo le aveva date di santa ragione , nel 202 d.c., ad Annibale che aveva invaso l’Italia.
Ed è vero, la battaglia di Legnano che nel 1176 vide la vittoria della Lega Lombarda contro il Barbarossa, è stata una dimostrazione di solidarietà e di virtù militari, e Francesco Ferrucci, che nel 1530, già moribondo, ebbe la forza di gridare a quel tal Maramaldo che lo stava ammazzando,“Vile, tu uccidi un uomo morto”, ha dimostrato un coraggio da leone. Anche i Vespri Siciliani che il 31 marzo 1282 posero fine al dominio angioino a Palermo furono un episodio assai importante, come pure Giovanni Battista Perasso detto “Balilla” che, facendo fischiare nel 1746 il famoso sasso contro gli austriaci ne determinò la cacciata dalla Liguria, dimostrò di avere un caratterino niente male (anche se, purtroppo per lui, il suo nome non suona oggi molto bene in Italia per via dello sfruttamento che se ne fece nel passato).
Ma oggi, oltre ad esaltare ricordi della nostra storia, ritengo sarebbe il caso di inneggiare anche alla pace, al progresso, alla giustizia, al lavoro, alla concordia, alla cultura, all’onestà, e così via, concetti tutti sui quali si basa la nostra costituzione (anche per la quale, guarda caso, si prevedono ritocchi): e sarebbe, questo, un interessante caso di simbiosi fra Costituzione e inno nazionale.
E dunque, senza toccare la musica di Michele Novaro che è tuttora bella, trascinatrice e cantabile, perché non rivedere il testo di Goffredo Mameli (se è suo, perché si mormora che il vero autore sia tal Atanasio Canata dei padri Scolopi, prete intellettuale e patriota al quale il Mameli l’avrebbe sottratto attribuendosene il merito) per ringiovanirlo e renderlo più comprensibile a tutti, anche a quelli che con la storia non hanno molta dimestichezza?
In fondo non saremmo i soli ad occuparci di questo argomento.
Gli spagnoli, ad esempio, stanno peggio di noi perché del loro inno nazionale – la “Marcha Real” – hanno solamente la musica e gli atleti iberici impegnati nelle competizioni internazionali si lagnano di non poter anche loro cantare a pieni polmoni allorquando vien fatto risuonare. Così , il loro forzato mutismo reso evidente dai preliminari di ogni partita o in occasione di altre manifestazioni sportive internazionali, non è da attribuire al fatto che siano tremendamente stonati, ovvero a scarsità di amor patrio, sibbene perché, pur con tutta la loro buona volontà, mancano le parole per poterlo dimostrare.
Per questo, è stato lanciato un concorso per far “parlare” la “Marcha Real”, e già un oscuro disoccupato di 52 anni ha proposto un testo sul quale ferve il dibattito.
Per non parlare dei tedeschi il cui inno nazionale – il “Deutschlandlied” - composto originariamente da tre strofe scritte nel 1841 da A.Heinrich Hoffmann von Fallersleben sulle stupende note di F.Joseph Haydn, si è oggi ridotto, a seguito delle tormentate vicende politiche vissute dalla Germania nel secolo scorso, ad una sola: e per questo alcuni di loro pensano che sia troppo poco e propongono di interpellare poeti, scrittori e letterati per comporne almeno altre due.
Senza dimenticare che se l’”Inno della Federazione Russa” approvato dalla Duma l’8 dicembre 2000 risuona tuttora sulle note create nel 1944 da Aleksandr Aleksandrov, il testo di Sergej Michalkov è poi stato revisionato , dopo la “perestrojka”, dallo stesso disinvolto autore che pur avendo nella precedente edizione inneggiato a Lenin ed al comunismo, ha poi ripiegato su di una più tranquillizzante Russia “…terra natia protetta da Dio”.
Si può dunque concludere che l’idea di “aggiornare” il nostro inno nazionale , non è, forse, del tutto bislacca.
E siccome sono uso criticare quelli che, quando si tratta di risolvere i problemi, dicono che “bisogna fare qualcosa”, ma non dicono mai “cosa”, prendo il coraggio a quattro mani e, pronto a sfidare critiche, ingiurie e sfottò, propongo quello che potrebbe essere il testo del nuovo inno nazionale italiano con la speranza di dare una mano affinchè, dal momento che finora non “s’è desta”, sia la volta buona che l’Italia, finalmente, “si desti”, una volta per tutte.
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Per chi non l’avesse mai letto tutto, riporto il testo dell’“Inno di Mameli” e, di seguito, sulla stessa aria, quello da me proposto.
INNO DI MAMELI
Fratelli d’Italia,
l’Italia s’è desta,
dell’elmo di Scipio
s’è cinta la testa.
Dov ‘è la Vittoria?
Le porga la chioma,
chè schiava di Roma
Iddio la creò.
Stringiamoci a coorte!
Siam pronti alla morte,
siam pronti alla morte,
l’Italia chiamò.
Noi fummo da secoli
calpesti, derisi,
perché non siam popolo,
perché siam divisi.
Raccolgaci un’unica
bandiera, una speme:
di fonderci insieme
già l’ora suonò.
Uniamoci, amiamoci,
l’unione e l’amore
rivelano ai popoli
le vie del Signore.
Giuriamo far libero
Il suolo natio:
uniti con Dio,
chi vincer ci può?
Stringiamoci a coorte!
Siam pronti alla morte,
siam pronti alla morte,
l’Italia chiamò.
Dall’Alpe a Sicilia,
dovunque è Legnano;
ogn’uom di Ferruccio
ha il core e la mano.
I bimbi d’Italia
si chiaman Balilla:
il suon d’ogni squilla
i Vespri suonò.
Son giunchi che piegano
le spade vendute;
già l’aquila d’Austria
le penne ha perdute.
Il sangue d’Italia
e il sangue polacco
bevè col cosacco:
ma il cor le bruciò.
Stringiamoci a coorte!
Siam pronti alla morte,
siam pronti alla morte,
l’Italia chiamò.
Si!
- - - - - - - - - - - -
NUOVO INNO.
Fratelli d’Italia
l’Italia si desti :
pace e lavoro
agli uomini onesti.
E vincan l’amore,
il sapere del saggio,
all’uomo sian guida
virtude e coraggio.
Col sangue e la spada
gli eroi del passato
han fatto d’Italia
un libero stato.
Or giovani forti
richiedono in coro:
non più la pugna,
le lacrime, il duolo!
Al bimbo che nasce
la culla fiorita,
difenda la legge
la donna e la vita.
Giustizia sconfigga
per sempre la fame
e al popolo doni
la casa ed il pane.
Il popol onesto
sconfitta la guerra
col suo sudore
fecondi la terra.
Al franco, al vichingo
ed all’ allemano
l’italico popolo
stringa la mano.
Il bianco col nero
lavori cantando
e insieme sorreggano
il vecchio ch’è stanco.
S’avanzi la scienza,
a tutti il decoro,
col povero il ricco
divida il suo oro.
Noi fummo nei secoli
calpesti, derisi
perché nel passato
siam stati divisi:
mai più saremo
paese conquisto
se avremo la speme
nel popolo e in Cristo.
Or sotto la bella
amata bandiera
giuriam: sia l’Italia
un’unica schiera.
Si!
- - - - - - - - - - -
Giovanni Zannini - Via Ferri 6 – 35126 – Padova – TLFAX 049/757890 – E.Mail: g.zannini_@libero.it
lunedì 14 novembre 2011
SOMMERGIBILI DA TRASPORTO ITALIANI NELLA 2a GUERRA MONDIALE
Fu soprattutto la necessità di stabilire collegamenti fra i membri dell’inedita alleanza “Roma-Berlino-Tokio”, Italia e Germania, da una parte, e Giappone, dall’altra, a spingere i loro tecnici a studiare i mezzi più adeguati per realizzarli allorchè preziose materie prime necessarie all’industria bellica – quali gomma, nichel, rame, stagno, cobalto, volframio, molibdeno, tungsteno, oppio, mica, lacca, fibre vegetali ed oli – ormai introvabili in Europa, erano invece disponibili in Asia.
Esclusa la via aerea per l’insormontabile difficoltà di sorvolare immensi territori in mano nemica; resa difficilissima la navigazione degli oceani con naviglio di superfice data la supremazia della marina militare anglo-americana, la soluzione venne trovata: trasformare alcuni sommergibili da combattimento in sommergibili da trasporto (o “cargo”), in attesa di costruirne di nuovi destinati esclusivamente a tale scopo.
Ma mentre fu possibile provvedere alle operazioni di trasformazione, i tempi necessari per la programmazione e realizzazione del progetto impedirono di costruirne di nuovi prima dell’armistizio, ad eccezione, come si vedrà, degli italiani “Romolo” e “Remo”.
Evidente il vantaggio di usare questo naviglio navigante normalmente in superfice ma che, in caso di pericolo, per sfuggire alla caccia nemica era in grado di scomparire fra le onde.
Tale impiego era già stato sperimentato dai tedeschi che, nel corso della prima guerra mondiale, avevano utilizzato con successo due sommergibili da trasporto, il “Bremen” ed il “Deutschland”.
Alla fine del 1942 dunque, su sollecitatoria dello stesso Hitler, i tedeschi, dopo aver vinta la resistenza iniziale della Marina italiana che riteneva una “deminutio” la trasformazione di potenti, e spesso gloriose, navi da combattimento in navi da trasporto, ebbero inizio le operazioni sui nostri grossi sommergibili della base italiana di Bordeaux-Betasom, considerati dai tedeschi inadatti a proseguire la guerra sottomarina in Atlantico.
Abbassate le torrette (che, secondo l’Amm.Doenitz, facevano assomigliare i nostri sommergibili a castelli naviganti), i magazzini munizioni utilizzati come serbatoi per la nafta, via i tubi di lancio ed i siluri, via i cannoni (unica arma, una mitragliera antiaerea), il periscopio d’attacco rimosso, una delle latrine smantellate, e gran parte dei “comfort” di bordo eliminati per dar spazio ai viveri (fra essi, importantissimi, quintali di limoni ricchi di vitamine), alle mercanzie, alla posta ed ai rari passeggeri occasionali (agenti segreti, diplomatici e simili).
Furono così trasformati in cargo, tra la fine del 1942 ed i primi mesi del 1943, 8 sommergibili (“Finzi”, “Bagnolini“, “Cagni”, “Cappellini”, “Tazzoli”, “Barbarigo”, “Giuliani” e “Torelli”), gli unici rimasti a Betasom
dei 32 che vi erano giunti tra la fine del 1940 ed i primi mesi del 1941: gli altri, rimpatriati - per scortare i convogli italo-tedeschi sulla martoriata rotta Italia-Africa settentrionale -, affondati o dispersi.
Drammatica la sorte di queste nostre navi.
4, partite per il lungo, faticoso, estenuante viaggio verso il Giappone nella primavera-estate del 1943 furono coinvolte nei drammatici avvenimenti successivi all’armistizio dell’8 settembre 1943 fra l’Italia e gli anglo-americani.
Il “Cagni” in navigazione nel mare di Città del Capo, viene raggiunto nella notte fra l’8 e il 9 settembre 1943 dalla notizia dell’armistizio e si consegna agli alleati nel porto inglese di Durban in Sud-Africa.
Il “Cappellini”, il “Giuliani” ed il “Torelli” riescono a raggiungere Singapore dopo un viaggio avventuroso denso di pericoli e vengono accolti con tutti gli onori dagli alleati giapponesi ammirati per la loro impresa, salvo essere rinchiusi senza tanti complimenti, all’indomani dell’8 settembre 1943, divenuti improvvisamente nemici a seguito dell’armistizio fra l’Italia e gli Anglo-Americani, nei terribili campi di concentramento giapponesi nella giungla di Singapore.
I tre sommergibili, divenuti preda di guerra, furono contesi fra giapponesi e tedeschi che, alla fine, ebbero la meglio , e che tentarono, ma invano, di utilizzarli nel senso opposto dal quale erano arrivati, da oriente verso occidente, dall’Asia all’Europa.
Il “Giuliani”, partito da Singapore il 14 febbraio 1944 venne affondato da un sottomarino britannico nello stretto di Malacca; il “Cappelini” ed il “Torelli” che non erano riusciti a forzare il blocco navale anglo-americano, vennero utilizzati per il trasporto merci nelle acque del Giappone e del Borneo.
Il “Tazzoli” ed il “Barbarigo”, partiti da Betasom per la rotta d’oriente nello stesso periodo degli altri, non giunsero mai a destinazione e scomparvero in mare in circostanze che non si sono mai potute accertare.
Il “Finzi” ed il “Bagnolini” che alla data dell’8 settembre 1943 si trovavano nella base italiana di Betasom, furono catturati alla banchina dai tedeschi , ribattezzati rispettivamente UIT-21 e UIT-22 ed immessi nella categoria dei “Bezeichnung fur ehemals italienischge U-boote”, i sottomarini catturati agli italiani.
Il “Finzi”, in considerazione delle sue precarie condizioni ed in particolare del logorio dei macchinari, non venne utilizzato dalla marina tedesca, ed il 25 luglio 1944 venne fatto saltare in aria nel porto di Le Verdon dagli artificieri della Kriegsmarine.
Il “Bagnolini”, in rotta per l’oriente, fu affondato da un aereo a sud del Capo di Buona Speranza l’11 marzo 1944.
Resta da aggiungere che nell’autunno del 1942 Supermarina commissionò ai cantieri di Taranto, Monfalcone e La Spezia la costruzione di 12 nuove grandi unità sottomarine studiate appositamente per il trasporto. Di queste, però, solo due, il “Romolo” ed il “Remo” furono ultimate e consegnate prima dell’armistizio.
Si trattava di grandi unità decisamente innovative lunghe m.86,50, dislocanti 2.210 tonnellate in emersione e 2.606 in immersione, che disponevano di due grandi stive capaci di 600 tonnellate di carico, armate con tre mitragliere antiaeree da 20 mm. “a scomparsa”, e dotate di 4 piccole gru abbattibili per le operazioni di carico e scarico.
La loro vita fu estremamente breve: il “Remo”, salpato da Taranto nel luglio 1943 fu affondato da un sottomarino inglese, mentre il “Romolo”, partito pure lui poco tempo dopo da Taranto, fu affondato da un aereo pur esso inglese.
Infine, una curiosità: allo scopo di aumentare la capacità di trasporto dei sottomarini-cargo, vennero elaborati progetti per realizzare contenitori da rimorchio subacquei, e due di questi vennero collaudati con successo dai tedeschi nell’estate del 1944, ma le sorti della guerra impedirono la prosecuzione del progetto che venne abbandonato. Giovanni Zannini
Fonte: E.Rossler - “U-Boat” - Fratelli Melita Editori 1993.
Esclusa la via aerea per l’insormontabile difficoltà di sorvolare immensi territori in mano nemica; resa difficilissima la navigazione degli oceani con naviglio di superfice data la supremazia della marina militare anglo-americana, la soluzione venne trovata: trasformare alcuni sommergibili da combattimento in sommergibili da trasporto (o “cargo”), in attesa di costruirne di nuovi destinati esclusivamente a tale scopo.
Ma mentre fu possibile provvedere alle operazioni di trasformazione, i tempi necessari per la programmazione e realizzazione del progetto impedirono di costruirne di nuovi prima dell’armistizio, ad eccezione, come si vedrà, degli italiani “Romolo” e “Remo”.
Evidente il vantaggio di usare questo naviglio navigante normalmente in superfice ma che, in caso di pericolo, per sfuggire alla caccia nemica era in grado di scomparire fra le onde.
Tale impiego era già stato sperimentato dai tedeschi che, nel corso della prima guerra mondiale, avevano utilizzato con successo due sommergibili da trasporto, il “Bremen” ed il “Deutschland”.
Alla fine del 1942 dunque, su sollecitatoria dello stesso Hitler, i tedeschi, dopo aver vinta la resistenza iniziale della Marina italiana che riteneva una “deminutio” la trasformazione di potenti, e spesso gloriose, navi da combattimento in navi da trasporto, ebbero inizio le operazioni sui nostri grossi sommergibili della base italiana di Bordeaux-Betasom, considerati dai tedeschi inadatti a proseguire la guerra sottomarina in Atlantico.
Abbassate le torrette (che, secondo l’Amm.Doenitz, facevano assomigliare i nostri sommergibili a castelli naviganti), i magazzini munizioni utilizzati come serbatoi per la nafta, via i tubi di lancio ed i siluri, via i cannoni (unica arma, una mitragliera antiaerea), il periscopio d’attacco rimosso, una delle latrine smantellate, e gran parte dei “comfort” di bordo eliminati per dar spazio ai viveri (fra essi, importantissimi, quintali di limoni ricchi di vitamine), alle mercanzie, alla posta ed ai rari passeggeri occasionali (agenti segreti, diplomatici e simili).
Furono così trasformati in cargo, tra la fine del 1942 ed i primi mesi del 1943, 8 sommergibili (“Finzi”, “Bagnolini“, “Cagni”, “Cappellini”, “Tazzoli”, “Barbarigo”, “Giuliani” e “Torelli”), gli unici rimasti a Betasom
dei 32 che vi erano giunti tra la fine del 1940 ed i primi mesi del 1941: gli altri, rimpatriati - per scortare i convogli italo-tedeschi sulla martoriata rotta Italia-Africa settentrionale -, affondati o dispersi.
Drammatica la sorte di queste nostre navi.
4, partite per il lungo, faticoso, estenuante viaggio verso il Giappone nella primavera-estate del 1943 furono coinvolte nei drammatici avvenimenti successivi all’armistizio dell’8 settembre 1943 fra l’Italia e gli anglo-americani.
Il “Cagni” in navigazione nel mare di Città del Capo, viene raggiunto nella notte fra l’8 e il 9 settembre 1943 dalla notizia dell’armistizio e si consegna agli alleati nel porto inglese di Durban in Sud-Africa.
Il “Cappellini”, il “Giuliani” ed il “Torelli” riescono a raggiungere Singapore dopo un viaggio avventuroso denso di pericoli e vengono accolti con tutti gli onori dagli alleati giapponesi ammirati per la loro impresa, salvo essere rinchiusi senza tanti complimenti, all’indomani dell’8 settembre 1943, divenuti improvvisamente nemici a seguito dell’armistizio fra l’Italia e gli Anglo-Americani, nei terribili campi di concentramento giapponesi nella giungla di Singapore.
I tre sommergibili, divenuti preda di guerra, furono contesi fra giapponesi e tedeschi che, alla fine, ebbero la meglio , e che tentarono, ma invano, di utilizzarli nel senso opposto dal quale erano arrivati, da oriente verso occidente, dall’Asia all’Europa.
Il “Giuliani”, partito da Singapore il 14 febbraio 1944 venne affondato da un sottomarino britannico nello stretto di Malacca; il “Cappelini” ed il “Torelli” che non erano riusciti a forzare il blocco navale anglo-americano, vennero utilizzati per il trasporto merci nelle acque del Giappone e del Borneo.
Il “Tazzoli” ed il “Barbarigo”, partiti da Betasom per la rotta d’oriente nello stesso periodo degli altri, non giunsero mai a destinazione e scomparvero in mare in circostanze che non si sono mai potute accertare.
Il “Finzi” ed il “Bagnolini” che alla data dell’8 settembre 1943 si trovavano nella base italiana di Betasom, furono catturati alla banchina dai tedeschi , ribattezzati rispettivamente UIT-21 e UIT-22 ed immessi nella categoria dei “Bezeichnung fur ehemals italienischge U-boote”, i sottomarini catturati agli italiani.
Il “Finzi”, in considerazione delle sue precarie condizioni ed in particolare del logorio dei macchinari, non venne utilizzato dalla marina tedesca, ed il 25 luglio 1944 venne fatto saltare in aria nel porto di Le Verdon dagli artificieri della Kriegsmarine.
Il “Bagnolini”, in rotta per l’oriente, fu affondato da un aereo a sud del Capo di Buona Speranza l’11 marzo 1944.
Resta da aggiungere che nell’autunno del 1942 Supermarina commissionò ai cantieri di Taranto, Monfalcone e La Spezia la costruzione di 12 nuove grandi unità sottomarine studiate appositamente per il trasporto. Di queste, però, solo due, il “Romolo” ed il “Remo” furono ultimate e consegnate prima dell’armistizio.
Si trattava di grandi unità decisamente innovative lunghe m.86,50, dislocanti 2.210 tonnellate in emersione e 2.606 in immersione, che disponevano di due grandi stive capaci di 600 tonnellate di carico, armate con tre mitragliere antiaeree da 20 mm. “a scomparsa”, e dotate di 4 piccole gru abbattibili per le operazioni di carico e scarico.
La loro vita fu estremamente breve: il “Remo”, salpato da Taranto nel luglio 1943 fu affondato da un sottomarino inglese, mentre il “Romolo”, partito pure lui poco tempo dopo da Taranto, fu affondato da un aereo pur esso inglese.
Infine, una curiosità: allo scopo di aumentare la capacità di trasporto dei sottomarini-cargo, vennero elaborati progetti per realizzare contenitori da rimorchio subacquei, e due di questi vennero collaudati con successo dai tedeschi nell’estate del 1944, ma le sorti della guerra impedirono la prosecuzione del progetto che venne abbandonato. Giovanni Zannini
Fonte: E.Rossler - “U-Boat” - Fratelli Melita Editori 1993.
Sommergibili italiani in Atlantico nella 2a guerra mondiale - LUPI TEDESCHI E GARIBALDINI ITALIANI
Il 10 giugno 1939 si tenne a Friedrichshafen sul lago di Costanza in Germania una riunione fra gli stati maggiori delle marine italiana e tedesca ed in tale occasione il Grand’Amm.Erik Raeder comandante in capo della flotta tedesca chiese se la Marina Italiana sarebbe stata disponibile a partecipare alla prevista guerra sottomarina in Atlantico.
L’Amm.Domenico Cavagnari, Capo di Stato Maggiore della nostra marina, dichiarò che l’Italia allo scoppio della guerra avrebbe inviato propri sommergibili in Atlantico per combattere fianco a fianco con quelli tedeschi.
Scoppiata la guerra, i tedeschi pretesero il rispetto di quell’impegno che gli italiani onorarono inviando tra la fine del 1940 ed i primi mesi del 1941 32 sommergibili che, superato il doppio ostacolo delle terribili correnti che rendevano improba la navigazione nello stretto di Gibilterra (superata brillantemente senza alcun incidente) e dell’occhiuta, ma inefficace sorveglianza della marina inglese, raggiunsero la base denominata “Betasom” sede del Comando delle forze italiane subacquee in Atlantico sorta in Francia a Bordeaux.
Eccone l’elenco, e tra parentesi l’anno di costruzione.
“Archimede” (1939); “Argo” (1936); ”Bagnolini” (1939); “Baracca” (1940); “Barbarigo” (1938); “Bianchi” (1939); ”Brin” (1938); “Cagni” (1940”; “Calvi” (1935); “Cappellini” (1939); “Dandolo” (1937); “Da Vinci” (1939); ”Emo” (1938);”Faà di Bruno” ( 1939); ”Ferraris”(1934); “Finzi” (1935); ”Giuliani” (1939); “Glauco”(1935); ”Guglielmotti” (1938); “Malaspina” (1940”; “Marcello” (1937); “Marconi” (1939); “Mocenigo” (1937); “Morosini” (1938); “Nani” (1938); “Otaria”(1935); “Perla” (1936); “ Tarantini” (1940); “ “Tazzoli” (1936); “Torelli” (1940); “Velella “ (1936); “Veniero” (1938).
Di questi, i seguenti 16 furono affondati o dispersi: “Calvi”, “Tarantini”, “Glauco”, “Marcello”, “Nani”, “Barbarigo”, “Faà di Bruno”, “Morosini”, “Tazzoli”, “Malaspina”, “Baracca”, “Bianchi”, “Marconi”, “Da Vinci”, “Archimede”, “Ferraris”.
Altri 10 rientrarono in Mediterraneo verso la fine del 1941 per scortare i convogli dall’Italia all’Africa settentrionale e viceversa: “Argo”, “Velella”, “Otaria”, “Dandolo”, “Veniero”, “Mocenigo””Emo”, “Brin”,”Guglielmotti”, “Perla”.
Gli altri, il “Cagni”, il “Torelli”, il “Giuliani”, il “Cappellini”, il “Finzi” ed il “Bagnolini”, rimasti a Betasom e trasformati in sommergibili da trasporto per i collegamenti con l’alleato Giappone, vennero in maniera diversa coinvolti nell’armistizio fra Italia ed alleati dell’8 settembre 1943.
Il “Cagni”, partito per il Giappone, appresa la notizia in navigazione il 20 settembre 1943, si consegnava agli inglesi nel porto britannico di Durban (Sud-Africa).
Il “Torelli”, il Giuliani” ed il “Cappellini”, che avevano raggiunto la base giapponese di Singapore accolti con tutti gli onori, vennero dopo l’8 settembre sequestrati dai giapponesi ed i loro equipaggi rinchiusi in terribili campi di prigionia.
Il “Finzi” ed il “Bagnolini”, che erano rimasti a Betasom, dopo armistizio furono catturati alla banchina dai tedeschi.
Il primo contatto fra sommergibilisti italiani e tedeschi non fu certamente incoraggiante.
Giulio Raiola, nel suo “Timoni a salire” – Ed.Mursia 1978 – scrive che Mario Leoni, comandante del “Malaspina” giunto per primo a Betasom, sceso dal battello si trova di fronte “un personaggio alto, secco, grandi orecchie, naso aguzzo, labbra sottili, un uomo all’apparenza secco e distaccato” che dopo aver attentamente osservato le strutture del sommergibile italiano, senza preamboli, ed indicando la torretta , gli chiede:”Lei va per mare con quell’affare? Pare un castello. Si può buttar giù?”. Ed alla risposta dell’ufficiale italiano che non lo crede possibile, sentenzia:”Così finirete in malora anche voi come tanti altri vostri colleghi”.
Quell’uomo era l’Amm.Karl Doenitz, comandante della flotta sottomarina germanica, e le sue parole
riflettevano il parere dei tedeschi sulle caratteristiche costruttive dei nostri sommergibili rispetto ai loro.
I sommergibili italiani, costruiti in un arco di tempo brevissimo prima dell’inizio della guerra e che costituirono una delle più numerose - se non la più numerosa – flotta di sommergibili (113) all’inizio del conflitto, erano stati costruiti per un tipo di guerra sottomarina considerato dai tedeschi ormai superato.
Si trattava in prevalenza di una specie di “incrociatori sottomarini” di grosso tonnellaggio dotati di grande autonomia ma piuttosto lenti, poco maneggevoli, armati di potente artiglieria , vere navi subacquee destinate alla “guerra di corsa” in mari lontani, a ricercare e colpire naviglio nemico isolato con iniziative individuali. Insomma, una filosofia di guerra sottomarina d’ispirazione garibaldina – Garibaldi, l’eroe venuto dal mare – riflettente anche qui l’ individualismo italiano desideroso di agire senza limitazioni alla propria libertà d’azione e che avrebbe ottenuto risultati ancora migliori ove il comando tedesco dai quali dipendevano operativamente i nostri sottomarini nella base di Betasom li avesse impiegati in maniera diversa.
Scrive infatti a questo proposito Giulio Raiola nell’opera succitata che, a suo avvviso, i successi dei grandi sottomarini italiani sarebbero stati assai maggiori ove fossero stati lasciati liberi di operare nel modo loro più congeniale in acque ove, all’inizio della guerra, il naviglio nemico non godeva ancora di adeguata protezione, e non, come avvenne, nella lotta ai convogli Anglo-americani nel nord-Atlantico tra il parallelo 58° 20’ N ed il 51° 00’ N e tra i meridiani 20° W e 27° W, più vicino alle coste scozzesi, ad occidente della zona operativa tedesca.
La tattica di combattimento degli U-boot fino a che gli avversari non adottarono adeguate contromisure, era invece quella del “branco di lupi” (già collaudata nella prima guerra mondiale) che prevedeva l’attacco di sottomarini agili e veloci in grado di individuare i convogli avversari, di seguirli pazientemente attendendo il momento più favorevole per l’attacco, e quindi scatenare bordate di siluri che raramente mancavano il bersaglio.
Gli innegabili successi ottenuti dai nostri sommergibili in Atlantico – 101 navi affondate per complessive 569.000 tonnellate - vennero però considerati inadeguati in confronto a quelli tedeschi e verso la fine del 1942 non più in grado di affrontare missioni offensive.
Per questo, a partire da tale periodo e nei primi mesi del 1943, i comandi italiano e tedesco si accordarono per trasformarli, data la loro maggiore capienza, in unità da trasporto sulle lunghe distanze, in inediti “sommergibili-cargo” destinati a stabilire i collegamenti, divenuti impossibili per via aerea o con naviglio di superfice, con il lontano alleato Giappone.
Argomento, questo, certamente degno di ulteriore approfondimento.
Giovanni Zannini
L’Amm.Domenico Cavagnari, Capo di Stato Maggiore della nostra marina, dichiarò che l’Italia allo scoppio della guerra avrebbe inviato propri sommergibili in Atlantico per combattere fianco a fianco con quelli tedeschi.
Scoppiata la guerra, i tedeschi pretesero il rispetto di quell’impegno che gli italiani onorarono inviando tra la fine del 1940 ed i primi mesi del 1941 32 sommergibili che, superato il doppio ostacolo delle terribili correnti che rendevano improba la navigazione nello stretto di Gibilterra (superata brillantemente senza alcun incidente) e dell’occhiuta, ma inefficace sorveglianza della marina inglese, raggiunsero la base denominata “Betasom” sede del Comando delle forze italiane subacquee in Atlantico sorta in Francia a Bordeaux.
Eccone l’elenco, e tra parentesi l’anno di costruzione.
“Archimede” (1939); “Argo” (1936); ”Bagnolini” (1939); “Baracca” (1940); “Barbarigo” (1938); “Bianchi” (1939); ”Brin” (1938); “Cagni” (1940”; “Calvi” (1935); “Cappellini” (1939); “Dandolo” (1937); “Da Vinci” (1939); ”Emo” (1938);”Faà di Bruno” ( 1939); ”Ferraris”(1934); “Finzi” (1935); ”Giuliani” (1939); “Glauco”(1935); ”Guglielmotti” (1938); “Malaspina” (1940”; “Marcello” (1937); “Marconi” (1939); “Mocenigo” (1937); “Morosini” (1938); “Nani” (1938); “Otaria”(1935); “Perla” (1936); “ Tarantini” (1940); “ “Tazzoli” (1936); “Torelli” (1940); “Velella “ (1936); “Veniero” (1938).
Di questi, i seguenti 16 furono affondati o dispersi: “Calvi”, “Tarantini”, “Glauco”, “Marcello”, “Nani”, “Barbarigo”, “Faà di Bruno”, “Morosini”, “Tazzoli”, “Malaspina”, “Baracca”, “Bianchi”, “Marconi”, “Da Vinci”, “Archimede”, “Ferraris”.
Altri 10 rientrarono in Mediterraneo verso la fine del 1941 per scortare i convogli dall’Italia all’Africa settentrionale e viceversa: “Argo”, “Velella”, “Otaria”, “Dandolo”, “Veniero”, “Mocenigo””Emo”, “Brin”,”Guglielmotti”, “Perla”.
Gli altri, il “Cagni”, il “Torelli”, il “Giuliani”, il “Cappellini”, il “Finzi” ed il “Bagnolini”, rimasti a Betasom e trasformati in sommergibili da trasporto per i collegamenti con l’alleato Giappone, vennero in maniera diversa coinvolti nell’armistizio fra Italia ed alleati dell’8 settembre 1943.
Il “Cagni”, partito per il Giappone, appresa la notizia in navigazione il 20 settembre 1943, si consegnava agli inglesi nel porto britannico di Durban (Sud-Africa).
Il “Torelli”, il Giuliani” ed il “Cappellini”, che avevano raggiunto la base giapponese di Singapore accolti con tutti gli onori, vennero dopo l’8 settembre sequestrati dai giapponesi ed i loro equipaggi rinchiusi in terribili campi di prigionia.
Il “Finzi” ed il “Bagnolini”, che erano rimasti a Betasom, dopo armistizio furono catturati alla banchina dai tedeschi.
Il primo contatto fra sommergibilisti italiani e tedeschi non fu certamente incoraggiante.
Giulio Raiola, nel suo “Timoni a salire” – Ed.Mursia 1978 – scrive che Mario Leoni, comandante del “Malaspina” giunto per primo a Betasom, sceso dal battello si trova di fronte “un personaggio alto, secco, grandi orecchie, naso aguzzo, labbra sottili, un uomo all’apparenza secco e distaccato” che dopo aver attentamente osservato le strutture del sommergibile italiano, senza preamboli, ed indicando la torretta , gli chiede:”Lei va per mare con quell’affare? Pare un castello. Si può buttar giù?”. Ed alla risposta dell’ufficiale italiano che non lo crede possibile, sentenzia:”Così finirete in malora anche voi come tanti altri vostri colleghi”.
Quell’uomo era l’Amm.Karl Doenitz, comandante della flotta sottomarina germanica, e le sue parole
riflettevano il parere dei tedeschi sulle caratteristiche costruttive dei nostri sommergibili rispetto ai loro.
I sommergibili italiani, costruiti in un arco di tempo brevissimo prima dell’inizio della guerra e che costituirono una delle più numerose - se non la più numerosa – flotta di sommergibili (113) all’inizio del conflitto, erano stati costruiti per un tipo di guerra sottomarina considerato dai tedeschi ormai superato.
Si trattava in prevalenza di una specie di “incrociatori sottomarini” di grosso tonnellaggio dotati di grande autonomia ma piuttosto lenti, poco maneggevoli, armati di potente artiglieria , vere navi subacquee destinate alla “guerra di corsa” in mari lontani, a ricercare e colpire naviglio nemico isolato con iniziative individuali. Insomma, una filosofia di guerra sottomarina d’ispirazione garibaldina – Garibaldi, l’eroe venuto dal mare – riflettente anche qui l’ individualismo italiano desideroso di agire senza limitazioni alla propria libertà d’azione e che avrebbe ottenuto risultati ancora migliori ove il comando tedesco dai quali dipendevano operativamente i nostri sottomarini nella base di Betasom li avesse impiegati in maniera diversa.
Scrive infatti a questo proposito Giulio Raiola nell’opera succitata che, a suo avvviso, i successi dei grandi sottomarini italiani sarebbero stati assai maggiori ove fossero stati lasciati liberi di operare nel modo loro più congeniale in acque ove, all’inizio della guerra, il naviglio nemico non godeva ancora di adeguata protezione, e non, come avvenne, nella lotta ai convogli Anglo-americani nel nord-Atlantico tra il parallelo 58° 20’ N ed il 51° 00’ N e tra i meridiani 20° W e 27° W, più vicino alle coste scozzesi, ad occidente della zona operativa tedesca.
La tattica di combattimento degli U-boot fino a che gli avversari non adottarono adeguate contromisure, era invece quella del “branco di lupi” (già collaudata nella prima guerra mondiale) che prevedeva l’attacco di sottomarini agili e veloci in grado di individuare i convogli avversari, di seguirli pazientemente attendendo il momento più favorevole per l’attacco, e quindi scatenare bordate di siluri che raramente mancavano il bersaglio.
Gli innegabili successi ottenuti dai nostri sommergibili in Atlantico – 101 navi affondate per complessive 569.000 tonnellate - vennero però considerati inadeguati in confronto a quelli tedeschi e verso la fine del 1942 non più in grado di affrontare missioni offensive.
Per questo, a partire da tale periodo e nei primi mesi del 1943, i comandi italiano e tedesco si accordarono per trasformarli, data la loro maggiore capienza, in unità da trasporto sulle lunghe distanze, in inediti “sommergibili-cargo” destinati a stabilire i collegamenti, divenuti impossibili per via aerea o con naviglio di superfice, con il lontano alleato Giappone.
Argomento, questo, certamente degno di ulteriore approfondimento.
Giovanni Zannini
L'APPRENDISTATO MILITARE DI GARIBALDI IN SUD-AMERICA
Padova 22-6-2005
Garibaldi non sarebbe divenuto l’eroe del Risorgimento italiano al quale si deve in gran parte l’unità d’Italia se nell’America del Sud, nelle guerre indipendentiste e di secessione ivi in corso nella prima metà dell’800 non avesse partecipato ad una serie di lotte violente, in mare e per terra, condotte spesso con ferocia fra gente che impugnava le armi per il nobile ideale della libertà dei popoli, ma più frequentemente per portare avanti, con il frutto di saccheggi e di violenze, una vita magra e da disperati.
Fra i tanti episodi che costellano la sua vita in Sudamerica altamente drammatico è quello avvenuto mentre si batteva per l’indipendenza dell’Uruguay contro l’Argentina.
Nel 1841, dopo aver combattuto per il Rio Grande do Sul, la provincia del Brasile che, proclamatasi repubblica, lottava contro il potere centrale, Garibaldi si era ritirato a Montevideo ove vivacchiava, con la moglie Anita ed il primo figlio, Menotti, come sensale (ma non aveva la stoffa del commerciante, e gli affari erano magri), e come insegnante di matematica e lingue.
E lì, grazie alla fama di combattente di mare e di terra coraggioso e di grande valore acquisita nella guerra fra Brasile e Rio Grande do Sul, che la stampa, non solo nazionale ma anche internazionale, aveva enfatizzato, viene coinvolto nella “guerra grande”, l’altro conflitto indipendentista che insanguinò il Sudamerica dal 1838 al 1851.
La provincia argentina dell’Uruguay si era proclamata repubblica indipendente sotto la presidenza del generale Fructuoso Rivera ed era entrata in conflitto con la madrepatria argentina guidata dal tirannico dittatore Juan Manuel De Rosas alleato con il fuoruscito Manuel Oribe (o Ourives), un uruguaiano che alla fine di una cruenta guerra civile con Rivera si era rifugiato in Argentina divenendone collaborazionista.
Così Rivera nel 1842 arruola il Nizzardo nella marina militare uruguaiana con il grado di colonnello e per prima cosa gli affida il difficile incarico di organizzare una spedizione in aiuto della provincia argentina del Corrientes a sua volta insorta contro il potere centrale, allo scopo di costituire una forte alleanza fra province indipendentiste.
L’impresa si prospetta subito disperata, ma Garibaldi non esita.
Essa prevedeva di raggiungere il Corrientes risalendo per 1000 chilometri il fiume Paranà - tutto in territorio argentino - avendo per conseguenza il nemico costantemente in agguato sulle due opposte rive.
A ciò si aggiunga la difficoltà della navigazione su fondali infidi ove gli incagli erano frequenti e che imponeva spesso il ricorso al “tonneggio” (la manovra di traino delle navi da terra) e, infine, la disparità delle forze fra le poche navi agli ordini di Garibaldi e l’imponente flotta argentina che si sarebbe posta all’inseguimento.
Come previsto, a caccia delle tre navi ribelli - una corvetta, un brigantino ed un trasporto goletta - si pone l’ammiraglio irlandese William Brown che comanda la flotta argentina e che ha fama di essere, come dicono le cronache dell’epoca, “la prima celebrità marittima dell’America meridionale”.
Per un po’ Garibaldi, favorito dalla sorpresa e da qualche errore del nemico, pur impegnato in una spietata “guerriglia fluviale” in acqua ed a terra, riesce a tenere a distanza le navi inseguitrici fino a che, giunto in località “Costa Brava”, poco oltre la metà del percorso, le sue tre navi si arenano per il fondale insufficiente, ed è costretto ad affrontare l’impari lotta con le navi argentine sopraggiungenti che, munite di potente artiglieria riescono a centrare le navi ribelli i cui cannoni dalla limitata gettata, non riescono invece a raggiungere le navi avversarie.
Allora Garibaldi, resosi conto che la lotta è impari, decide di sbarcare gli equipaggi per proseguire a piedi il cammino verso Corrientes, ma non prima di aver incendiato la sue navi ad evitare che cadano nelle mani del nemico: e qui si verifica l’episodio che resterà angosciosamente impresso per tutta la vita nell’animo di Garibaldi.
Per accelerare e rendere più completa la distruzione delle tre navi, egli ordina di innaffiarle con l’acquavite contenuta in molti barili nelle stive.
E qui accade l’imprevisto: i marinai – ma non solo, anche qualche ufficiale, commenta amareggiato Garibaldi – di fronte a tutto quel ben di Dio, pensano anzitutto a tracannarne quanto più possibile cosicché, alla fine, completamente ebbri, si trovano avvolti dalle fiamme che si levano alte finendo carbonizzati o orribilmente ustionati.
Garibaldi, con l’aiuto di quelli meno brilli degli altri, non esita ad affrontare l’incendio nonostante il rischio incombente dello scoppio delle munizioni.
Ne estrae quanti più gli è possibile, trascinandoli a spalla fuori delle stive: ed ha appena il tempo di allontanarsi che lo scoppio delle santabarbara completa la carneficina facendo saltare in aria con il legno delle navi i marinai inebetiti dall’alcool, che neppure si accorgono che stanno andando al Creatore.
Facendosi largo, faticosamente, a piedi, fra il nemico che cerca di interrompere la sua marcia, Garibaldi raggiunge finalmente Corrientes ove, invece di gratitudine, raccoglie qualche dispiacere e riceve l’ordine di rientrare per altra via in Uruguay per raggiungere il grosso dell’esercito del presidente Rivera che ahimè, nel frattempo, il 6 dicembre 1842 era stato duramente sconfitto nella battaglia dell’”Arrojo Grande”, nella provincia dell’Entre Rios, dal suo grande rivale, il traditore Oribe.
A Garibaldi non resta che ripiegare con i pochi marinai superstiti, assieme ai resti di quello che era stato l’esercito uruguaiano, verso la capitale Montevideo che resisterà dal 1843 al 1851 all’assedio di Oribe.
Il Nizzardo (che nel frattempo aveva aumentato la famiglia con l’arrivo di Rosita, morta purtroppo all’età di due anni, Teresita e Ricciotti) fu l’anima di questa difesa attaccando sul mare antistante Montevideo le navi argentine, e per terra, alla testa della “Legione Italiana”, con sortite (fra cui, l’8 febbraio 1846, la vittoriosa battaglia presso il fiume S.Antonio) miranti ad indebolire gli assedianti.
Ma intanto la storia corre e nel 1848, alla notizia tanto attesa dello scoppio della guerra fra il Piemonte e l’Austria, il 15 aprile Garibaldi salpato da Montevideo con una sessantina di patrioti suoi amici con il brigantino “Speranza”, sbarca il 23 giugno 1848 a Nizza raggiungendo quindi il re Carlo Alberto nel suo quartier generale a Roverbella per mettersi ai suoi ordini.
Da lì Garibaldi inizia la marcia travolgente che porterà all’unità d’Italia, con quelle battaglie che non sarebbero state vittoriose se egli non avesse vissuto in Sud America il suo “apprendistato militare”, una dura “scuola di guerra” che tra molti successi, ma anche fra non poche sconfitte - che una facile agiografia tende spesso ad ignorare - ne fece uno dei più grandi condottieri di tutti tempi di truppe volontarie irregolari spesso raccogliticce ed indisciplinate, che grazie all’esperienza sudamericana seppe trasformare in combattenti valorosi e spesso invincibili.
Giovanni Zannini
Garibaldi non sarebbe divenuto l’eroe del Risorgimento italiano al quale si deve in gran parte l’unità d’Italia se nell’America del Sud, nelle guerre indipendentiste e di secessione ivi in corso nella prima metà dell’800 non avesse partecipato ad una serie di lotte violente, in mare e per terra, condotte spesso con ferocia fra gente che impugnava le armi per il nobile ideale della libertà dei popoli, ma più frequentemente per portare avanti, con il frutto di saccheggi e di violenze, una vita magra e da disperati.
Fra i tanti episodi che costellano la sua vita in Sudamerica altamente drammatico è quello avvenuto mentre si batteva per l’indipendenza dell’Uruguay contro l’Argentina.
Nel 1841, dopo aver combattuto per il Rio Grande do Sul, la provincia del Brasile che, proclamatasi repubblica, lottava contro il potere centrale, Garibaldi si era ritirato a Montevideo ove vivacchiava, con la moglie Anita ed il primo figlio, Menotti, come sensale (ma non aveva la stoffa del commerciante, e gli affari erano magri), e come insegnante di matematica e lingue.
E lì, grazie alla fama di combattente di mare e di terra coraggioso e di grande valore acquisita nella guerra fra Brasile e Rio Grande do Sul, che la stampa, non solo nazionale ma anche internazionale, aveva enfatizzato, viene coinvolto nella “guerra grande”, l’altro conflitto indipendentista che insanguinò il Sudamerica dal 1838 al 1851.
La provincia argentina dell’Uruguay si era proclamata repubblica indipendente sotto la presidenza del generale Fructuoso Rivera ed era entrata in conflitto con la madrepatria argentina guidata dal tirannico dittatore Juan Manuel De Rosas alleato con il fuoruscito Manuel Oribe (o Ourives), un uruguaiano che alla fine di una cruenta guerra civile con Rivera si era rifugiato in Argentina divenendone collaborazionista.
Così Rivera nel 1842 arruola il Nizzardo nella marina militare uruguaiana con il grado di colonnello e per prima cosa gli affida il difficile incarico di organizzare una spedizione in aiuto della provincia argentina del Corrientes a sua volta insorta contro il potere centrale, allo scopo di costituire una forte alleanza fra province indipendentiste.
L’impresa si prospetta subito disperata, ma Garibaldi non esita.
Essa prevedeva di raggiungere il Corrientes risalendo per 1000 chilometri il fiume Paranà - tutto in territorio argentino - avendo per conseguenza il nemico costantemente in agguato sulle due opposte rive.
A ciò si aggiunga la difficoltà della navigazione su fondali infidi ove gli incagli erano frequenti e che imponeva spesso il ricorso al “tonneggio” (la manovra di traino delle navi da terra) e, infine, la disparità delle forze fra le poche navi agli ordini di Garibaldi e l’imponente flotta argentina che si sarebbe posta all’inseguimento.
Come previsto, a caccia delle tre navi ribelli - una corvetta, un brigantino ed un trasporto goletta - si pone l’ammiraglio irlandese William Brown che comanda la flotta argentina e che ha fama di essere, come dicono le cronache dell’epoca, “la prima celebrità marittima dell’America meridionale”.
Per un po’ Garibaldi, favorito dalla sorpresa e da qualche errore del nemico, pur impegnato in una spietata “guerriglia fluviale” in acqua ed a terra, riesce a tenere a distanza le navi inseguitrici fino a che, giunto in località “Costa Brava”, poco oltre la metà del percorso, le sue tre navi si arenano per il fondale insufficiente, ed è costretto ad affrontare l’impari lotta con le navi argentine sopraggiungenti che, munite di potente artiglieria riescono a centrare le navi ribelli i cui cannoni dalla limitata gettata, non riescono invece a raggiungere le navi avversarie.
Allora Garibaldi, resosi conto che la lotta è impari, decide di sbarcare gli equipaggi per proseguire a piedi il cammino verso Corrientes, ma non prima di aver incendiato la sue navi ad evitare che cadano nelle mani del nemico: e qui si verifica l’episodio che resterà angosciosamente impresso per tutta la vita nell’animo di Garibaldi.
Per accelerare e rendere più completa la distruzione delle tre navi, egli ordina di innaffiarle con l’acquavite contenuta in molti barili nelle stive.
E qui accade l’imprevisto: i marinai – ma non solo, anche qualche ufficiale, commenta amareggiato Garibaldi – di fronte a tutto quel ben di Dio, pensano anzitutto a tracannarne quanto più possibile cosicché, alla fine, completamente ebbri, si trovano avvolti dalle fiamme che si levano alte finendo carbonizzati o orribilmente ustionati.
Garibaldi, con l’aiuto di quelli meno brilli degli altri, non esita ad affrontare l’incendio nonostante il rischio incombente dello scoppio delle munizioni.
Ne estrae quanti più gli è possibile, trascinandoli a spalla fuori delle stive: ed ha appena il tempo di allontanarsi che lo scoppio delle santabarbara completa la carneficina facendo saltare in aria con il legno delle navi i marinai inebetiti dall’alcool, che neppure si accorgono che stanno andando al Creatore.
Facendosi largo, faticosamente, a piedi, fra il nemico che cerca di interrompere la sua marcia, Garibaldi raggiunge finalmente Corrientes ove, invece di gratitudine, raccoglie qualche dispiacere e riceve l’ordine di rientrare per altra via in Uruguay per raggiungere il grosso dell’esercito del presidente Rivera che ahimè, nel frattempo, il 6 dicembre 1842 era stato duramente sconfitto nella battaglia dell’”Arrojo Grande”, nella provincia dell’Entre Rios, dal suo grande rivale, il traditore Oribe.
A Garibaldi non resta che ripiegare con i pochi marinai superstiti, assieme ai resti di quello che era stato l’esercito uruguaiano, verso la capitale Montevideo che resisterà dal 1843 al 1851 all’assedio di Oribe.
Il Nizzardo (che nel frattempo aveva aumentato la famiglia con l’arrivo di Rosita, morta purtroppo all’età di due anni, Teresita e Ricciotti) fu l’anima di questa difesa attaccando sul mare antistante Montevideo le navi argentine, e per terra, alla testa della “Legione Italiana”, con sortite (fra cui, l’8 febbraio 1846, la vittoriosa battaglia presso il fiume S.Antonio) miranti ad indebolire gli assedianti.
Ma intanto la storia corre e nel 1848, alla notizia tanto attesa dello scoppio della guerra fra il Piemonte e l’Austria, il 15 aprile Garibaldi salpato da Montevideo con una sessantina di patrioti suoi amici con il brigantino “Speranza”, sbarca il 23 giugno 1848 a Nizza raggiungendo quindi il re Carlo Alberto nel suo quartier generale a Roverbella per mettersi ai suoi ordini.
Da lì Garibaldi inizia la marcia travolgente che porterà all’unità d’Italia, con quelle battaglie che non sarebbero state vittoriose se egli non avesse vissuto in Sud America il suo “apprendistato militare”, una dura “scuola di guerra” che tra molti successi, ma anche fra non poche sconfitte - che una facile agiografia tende spesso ad ignorare - ne fece uno dei più grandi condottieri di tutti tempi di truppe volontarie irregolari spesso raccogliticce ed indisciplinate, che grazie all’esperienza sudamericana seppe trasformare in combattenti valorosi e spesso invincibili.
Giovanni Zannini
LA RESISTENZA DELLA "DIVISIONE ITALIANA PARTIGIANA GARIBALDI" IN MONTENEGRO
Pubblicato su "Camicia Rossa" - Organo Ufficiale dell'ANVRG (Ass.ne Naz.le Veterani Reduci Garibaldini)
La televisione ha recentemente rievocato l’episodio di Cefalonia
come esempio di resistenza dei militari italiani all’estero contro i tedeschi dopo l’8 settembre 1943.
Ma altri ve ne sono, non altrettanto noti, come la resistenza opposta per ben tre mesi dalla guarnigione italiana dell’isola di Lero, sempre nel Dodecanneso, contro soverchianti forze tedesche, o la guerra condotta contro di esse nella ex Jugoslavia dalle Divisioni Italiane Partigiane “Italia” e “Garibaldi”.
Per quanto riguarda specificamente quest’ultima, essa era derivata dalla fusione delle divisioni italiane di fanteria da montagna “Venezia” ed alpina “Taurinense” che si trovavano in Montenegro alla data dell’armistizio e che, prive di ordini superiori dalla madrepatria decisero di combattere a fianco dei partigiani di Tito contro i tedeschi che avevano invaso la Jugoslavia.
Dopo aver agito separatamente dopo l’8 settembre per tre mesi esse, con il benestare del Comando Supremo del Regno d’Italia del Sud riparato a Brindisi, il 2 dicembre 1943 unirono i loro organici dando vita alla “Divisione Italiana Partigiana Garibaldi”.
Inserita operativamente, anche con l’avallo degli anglo-americani che paracadutarono loro missioni, nel II Corpus dell’E.P.L.J. - l’Esercito Popolare di Liberazione della Jugoslavia - continuò a dipendere dal Comando Supremo Italiano combattendo per 18 duri mesi fino alla data del rimpatrio avvenuta nei primi giorni del marzo 1945.
La collaborazione iniziale con i partigiani di Tito che videro i nemici italiani trasformarsi improvvisamente in loro alleati non fu ovviamente facile: ma poi i nostri riuscirono a convincere i titini che l’invasione delle loro terre era stata frutto di una decisione di Mussolini e del fascismo cui il popolo italiano, mai consultato, era rimasto estraneo.
La vera e propria odissea di questi nostri valorosi soldati che, respinte le ripetute lusinghe tedesche di resa, costituirono la più grande unità dell’esercito italiano partecipante all’estero alla resistenza contro il nazi-fascismo, emerge dalla documentazione esistente presso il museo del Reggimento “Garibaldi” a Sacile, pubblicata dal trimestrale “Camicia Rossa” organo dell’Associazione Nazionale Veterani e Reduci Garibaldini (ANVRG) alla quale aderiscono anche i sopravvissuti della “Garibaldi” fra i quali l’ottantenne Col.Lando Mannucci” attuale presidente dell’ANVRG.
Emuli, questi “nuovi garibaldini”, delle gesta dei loro antenati che nell’800 combatterono e spesso morirono in difesa della libertà della Spagna, della Grecia, della Polonia, dell’Ungheria, della stessa Serbia e, ripetutamente, della Francia, nel 1870/71 e poi nella prima guerra mondiale, nelle Argonne.
Comandati dal Gen.Oxilia prima, dal Gen.Vivalda poi, infine dal Gen. Ravnich, mantennero le stellette, i regolamenti e gli altri segni distintivi dell’esercito italiano battendosi a fianco dei titini contro il comune nemico nazifascista, ma con esclusione di ogni impegno ideologico o di partito.
Immersi nella bolgia balcanica, in un paese dalla lingua ed abitudini sconosciute, in condizioni disastrose per armamento e sussistenza, in un ambiente naturale difficilissimo ed insidioso, in pieno inverno e dunque in condizioni climatiche estreme, decimati dalle malattie (soprattutto tifo petecchiale) essi seppero dare un valido contributo alla guerra di liberazione della Jugoslavia.
Dovettero infatti combattere, adottando tecniche di guerriglia per essi inusuali, non solo contro i tedeschi che con l’aviazione non davano tregua, ma anche contro i loro alleati e satelliti, gli ”ustascia” di Ante Pavelic (capo del governo fantoccio instaurato in Croazia dall’Italia fascista), e ad una parte di musulmani, bulgari e albanesi a loro fedeli, nonchè contro le bande dei feroci “cetnici”, equivoci sostenitori della dinastia dei Karageorgevich regnante in Jugoslavia prima dell’occupazione tedesca.
Ostili sia ai tedeschi che avevano deposto il loro re, sia a Tito in quanto comunista, dopo ripetuti ondeggiamenti essi finirono per combattere, agli ordini del gen.Mihajlovic, a fianco del tedesco invasore contro l’esercito di liberazione di Tito e, quindi, anche contro la “Garibaldi”, sua alleata.
Lo Stato Maggiore dell’Esercito Italiano al seguito del re a Brindisi, anch’esso in evidenti, comprensibili difficoltà, seguì le sorti di questa superstite divisione italiana, facendo il possibile in suo aiuto: ed in riconoscimento del valore dimostrato conferì alla “Garibaldi” 2166 decorazioni al V.M. fra le quali 5 medaglie d’oro a reparti e 8 alla persona.
Valorosi piloti (fra i quali ricordiamo Lorenzo di Cagno) dell’”88° Raggruppamento bombardamento e trasporti” comandato dall’allora capitano Umberto Scapellato e dei caccia di scorta, aventi base in Puglia, a Galatina, si prodigarono - rischiando la vita ed in alcuni casi perdendola – con i loro “Cant Z 1007/bis” nel lancio di viveri, vestiario, medicamenti, denaro, sfidando la superiorità dell’aviazione tedesca, riuscendo anche ad atterrare con gli S 81 in un piccolo campo di fortuna allestito a Berane dagli uomini della “Garibaldi” per prelevare feriti e malati da riportare in Italia, ed accompagnare uomini del governo italiano del sud incaricati di tenere i collegamenti.
Fra questi, dal 10 al 21 ottobre 1944, il sottosegretario alla guerra Palermo che conferì con le autorità titine e visitò i reparti della divisione.
Gli aiuti, volonterosi – perfino via mare, con il veliero “Oceania” - ma sporadici, non furono purtroppo in grado di alleviare le condizioni in cui i nostri soldati furono costretti a combattere subendo perdite rilevantissime.
Ai primi di marzo 1945, liberato il Montenegro e con i tedeschi in fuga, gli uomini della Garibaldi vennero concentrati a Ragusa (poi Dubrovnik) per essere trasferiti via mare in Italia.
Su di un organico iniziale di circa 20.000 uomini, ne arrivarono 3800: gli altri, morti (3556), dispersi, fatti prigionieri o rimpatriati in precedenza per ferite o malattie.
L’8 marzo s’ imbarcò un primo scaglione diretto a Brindisi, e l’11 un secondo: a render loro omaggio, ed a salutarli, autorità civili e militari jugoslave e Missioni Alleate presenti a Ragusa.
Il Governo Jugoslavo decorò le tre brigate della “Garibaldi” con l’”Ordine per i meriti verso il popolo con la stella d’oro” e con l’“Ordine della fratellanza ed unità con corona d’oro”.
All’arrivo a Brindisi la divisione, inquadrata ed in armi, venne passata in rassegna dalle superiori autorità militari italiane ed alleate, quindi il sottosegretario alla guerra Palermo, il Gen. Oxilia (che fu uno dei suoi comandanti), il Vescovo di Taranto, il Sindaco di Brindisi ed il Colonnello inglese comandante delle forze militari alleate della città espressero la loro ammirazione per il valoroso comportamento e porsero il “bentornati in Italia”.
Poi, dopo aver sfilato per le vie di Brindisi fra l’entusiasmo della popolazione locale la divisione venne concentrata a Taranto.
A seguito di consultazione democratica, la maggioranza dei superstiti della “Garibaldi” decisero di continuare a combattere in Italia per la definitiva sua liberazione e, dopo un’opportuna riorganizzazione, vennero inquadrati nel nuovo “Reggimento Garibaldi” con gli organici di “reggimento di fanteria di gruppo di combattimento” che solo per il sopraggiungere della fine della guerra non raggiunse la zona del fronte che gli era stata assegnata.
Il 21 settembre 1983 a pochi chilometri dalla città di Pljevlja, nel luogo ove 40 anni prima era stata costituita la “Divisione Garibaldi”, il Presidente della Repubblica Italiana Sandro Pertini e di quella Jugoslava Mika Spiljak hanno inaugurato, alla presenza di molti reduci garibaldini italiani, un monumento a forma di triangolo che punta verso il cielo, per celebrare l’incontro, suggellato dal sangue, fra il libero popolo dell’Italia ed il libero popolo del Montenegro.
Giovanni Zannini
La televisione ha recentemente rievocato l’episodio di Cefalonia
come esempio di resistenza dei militari italiani all’estero contro i tedeschi dopo l’8 settembre 1943.
Ma altri ve ne sono, non altrettanto noti, come la resistenza opposta per ben tre mesi dalla guarnigione italiana dell’isola di Lero, sempre nel Dodecanneso, contro soverchianti forze tedesche, o la guerra condotta contro di esse nella ex Jugoslavia dalle Divisioni Italiane Partigiane “Italia” e “Garibaldi”.
Per quanto riguarda specificamente quest’ultima, essa era derivata dalla fusione delle divisioni italiane di fanteria da montagna “Venezia” ed alpina “Taurinense” che si trovavano in Montenegro alla data dell’armistizio e che, prive di ordini superiori dalla madrepatria decisero di combattere a fianco dei partigiani di Tito contro i tedeschi che avevano invaso la Jugoslavia.
Dopo aver agito separatamente dopo l’8 settembre per tre mesi esse, con il benestare del Comando Supremo del Regno d’Italia del Sud riparato a Brindisi, il 2 dicembre 1943 unirono i loro organici dando vita alla “Divisione Italiana Partigiana Garibaldi”.
Inserita operativamente, anche con l’avallo degli anglo-americani che paracadutarono loro missioni, nel II Corpus dell’E.P.L.J. - l’Esercito Popolare di Liberazione della Jugoslavia - continuò a dipendere dal Comando Supremo Italiano combattendo per 18 duri mesi fino alla data del rimpatrio avvenuta nei primi giorni del marzo 1945.
La collaborazione iniziale con i partigiani di Tito che videro i nemici italiani trasformarsi improvvisamente in loro alleati non fu ovviamente facile: ma poi i nostri riuscirono a convincere i titini che l’invasione delle loro terre era stata frutto di una decisione di Mussolini e del fascismo cui il popolo italiano, mai consultato, era rimasto estraneo.
La vera e propria odissea di questi nostri valorosi soldati che, respinte le ripetute lusinghe tedesche di resa, costituirono la più grande unità dell’esercito italiano partecipante all’estero alla resistenza contro il nazi-fascismo, emerge dalla documentazione esistente presso il museo del Reggimento “Garibaldi” a Sacile, pubblicata dal trimestrale “Camicia Rossa” organo dell’Associazione Nazionale Veterani e Reduci Garibaldini (ANVRG) alla quale aderiscono anche i sopravvissuti della “Garibaldi” fra i quali l’ottantenne Col.Lando Mannucci” attuale presidente dell’ANVRG.
Emuli, questi “nuovi garibaldini”, delle gesta dei loro antenati che nell’800 combatterono e spesso morirono in difesa della libertà della Spagna, della Grecia, della Polonia, dell’Ungheria, della stessa Serbia e, ripetutamente, della Francia, nel 1870/71 e poi nella prima guerra mondiale, nelle Argonne.
Comandati dal Gen.Oxilia prima, dal Gen.Vivalda poi, infine dal Gen. Ravnich, mantennero le stellette, i regolamenti e gli altri segni distintivi dell’esercito italiano battendosi a fianco dei titini contro il comune nemico nazifascista, ma con esclusione di ogni impegno ideologico o di partito.
Immersi nella bolgia balcanica, in un paese dalla lingua ed abitudini sconosciute, in condizioni disastrose per armamento e sussistenza, in un ambiente naturale difficilissimo ed insidioso, in pieno inverno e dunque in condizioni climatiche estreme, decimati dalle malattie (soprattutto tifo petecchiale) essi seppero dare un valido contributo alla guerra di liberazione della Jugoslavia.
Dovettero infatti combattere, adottando tecniche di guerriglia per essi inusuali, non solo contro i tedeschi che con l’aviazione non davano tregua, ma anche contro i loro alleati e satelliti, gli ”ustascia” di Ante Pavelic (capo del governo fantoccio instaurato in Croazia dall’Italia fascista), e ad una parte di musulmani, bulgari e albanesi a loro fedeli, nonchè contro le bande dei feroci “cetnici”, equivoci sostenitori della dinastia dei Karageorgevich regnante in Jugoslavia prima dell’occupazione tedesca.
Ostili sia ai tedeschi che avevano deposto il loro re, sia a Tito in quanto comunista, dopo ripetuti ondeggiamenti essi finirono per combattere, agli ordini del gen.Mihajlovic, a fianco del tedesco invasore contro l’esercito di liberazione di Tito e, quindi, anche contro la “Garibaldi”, sua alleata.
Lo Stato Maggiore dell’Esercito Italiano al seguito del re a Brindisi, anch’esso in evidenti, comprensibili difficoltà, seguì le sorti di questa superstite divisione italiana, facendo il possibile in suo aiuto: ed in riconoscimento del valore dimostrato conferì alla “Garibaldi” 2166 decorazioni al V.M. fra le quali 5 medaglie d’oro a reparti e 8 alla persona.
Valorosi piloti (fra i quali ricordiamo Lorenzo di Cagno) dell’”88° Raggruppamento bombardamento e trasporti” comandato dall’allora capitano Umberto Scapellato e dei caccia di scorta, aventi base in Puglia, a Galatina, si prodigarono - rischiando la vita ed in alcuni casi perdendola – con i loro “Cant Z 1007/bis” nel lancio di viveri, vestiario, medicamenti, denaro, sfidando la superiorità dell’aviazione tedesca, riuscendo anche ad atterrare con gli S 81 in un piccolo campo di fortuna allestito a Berane dagli uomini della “Garibaldi” per prelevare feriti e malati da riportare in Italia, ed accompagnare uomini del governo italiano del sud incaricati di tenere i collegamenti.
Fra questi, dal 10 al 21 ottobre 1944, il sottosegretario alla guerra Palermo che conferì con le autorità titine e visitò i reparti della divisione.
Gli aiuti, volonterosi – perfino via mare, con il veliero “Oceania” - ma sporadici, non furono purtroppo in grado di alleviare le condizioni in cui i nostri soldati furono costretti a combattere subendo perdite rilevantissime.
Ai primi di marzo 1945, liberato il Montenegro e con i tedeschi in fuga, gli uomini della Garibaldi vennero concentrati a Ragusa (poi Dubrovnik) per essere trasferiti via mare in Italia.
Su di un organico iniziale di circa 20.000 uomini, ne arrivarono 3800: gli altri, morti (3556), dispersi, fatti prigionieri o rimpatriati in precedenza per ferite o malattie.
L’8 marzo s’ imbarcò un primo scaglione diretto a Brindisi, e l’11 un secondo: a render loro omaggio, ed a salutarli, autorità civili e militari jugoslave e Missioni Alleate presenti a Ragusa.
Il Governo Jugoslavo decorò le tre brigate della “Garibaldi” con l’”Ordine per i meriti verso il popolo con la stella d’oro” e con l’“Ordine della fratellanza ed unità con corona d’oro”.
All’arrivo a Brindisi la divisione, inquadrata ed in armi, venne passata in rassegna dalle superiori autorità militari italiane ed alleate, quindi il sottosegretario alla guerra Palermo, il Gen. Oxilia (che fu uno dei suoi comandanti), il Vescovo di Taranto, il Sindaco di Brindisi ed il Colonnello inglese comandante delle forze militari alleate della città espressero la loro ammirazione per il valoroso comportamento e porsero il “bentornati in Italia”.
Poi, dopo aver sfilato per le vie di Brindisi fra l’entusiasmo della popolazione locale la divisione venne concentrata a Taranto.
A seguito di consultazione democratica, la maggioranza dei superstiti della “Garibaldi” decisero di continuare a combattere in Italia per la definitiva sua liberazione e, dopo un’opportuna riorganizzazione, vennero inquadrati nel nuovo “Reggimento Garibaldi” con gli organici di “reggimento di fanteria di gruppo di combattimento” che solo per il sopraggiungere della fine della guerra non raggiunse la zona del fronte che gli era stata assegnata.
Il 21 settembre 1983 a pochi chilometri dalla città di Pljevlja, nel luogo ove 40 anni prima era stata costituita la “Divisione Garibaldi”, il Presidente della Repubblica Italiana Sandro Pertini e di quella Jugoslava Mika Spiljak hanno inaugurato, alla presenza di molti reduci garibaldini italiani, un monumento a forma di triangolo che punta verso il cielo, per celebrare l’incontro, suggellato dal sangue, fra il libero popolo dell’Italia ed il libero popolo del Montenegro.
Giovanni Zannini
SOMMERGIBILISTI ITALIANI PRIGIONIERI DI GUERRA IN GIAPPONE
Pubblicato su "INFORMAZIONI DELLA DIFESA" - Periodico dello Stato Maggiore della Difesa n.2/2011
La “mappa” della prigionia italiana nella 2° guerra mondiale è, purtroppo, assai variegata e tocca molte nazioni fra cui principalmente la Germania, la Russia, gli Stati Uniti, l’India, il Canada, l’Australia ed il Kenia.
Pochi, però, ricordano che vi furono anche militari italiani prigionieri dei giapponesi, racchiusi in campi di concentramento in condizioni penosissime.
Il Guardiamarina Fabio Fabbrani, avvocato veneziano, ufficiale sommergibilista della Marina Militare Italiana, deceduto pochi anni fa, fu testimone di quella drammatica esperienza documentata dalle carte gelosamente custodite dal figlio Avv. Michele.
Imbarcato sul sottomarino “Giuliani” come ufficiale di rotta era giunto in estremo oriente nell’ambito del programma studiato da italiani, tedeschi e giapponesi per consentire - nell’ambito della triplice alleanza Roma-Berlino-Tokio – i collegamenti fra Europa e Giappone per via subacquea data la pratica difficoltà di effettuarli con naviglio di superfice o per via aerea.
A tal fine furono utilizzati alcuni sommergibili da combattimento italiani - fra cui il “Giuliani” - di stanza nella base “Betasom” di Bordeaux, giudicati dai tedeschi poco idonei alla guerra sottomarina in Atlantico e che vennero, per questo, trasformati in originali mezzi subacquei da trasporto, circostanza, questa, poco nota ai più.
Il “Giuliani”, giunto da Bordeaux nella base giapponese di Danang presso Singapore nei primi giorni di settembre 1943 fu accolto con grandi manifestazioni d’amicizia da parte degli alleati nipponici ammirati per l’impresa portata a termine in due mesi dopo una difficilissima navigazione di oltre 13.000 miglia attraverso due Oceani, l’Atlantico e l’Indiano, sfuggendo ad un nemico forte ed agguerrito.
Il banchetto (nella foto Fabbrani è il terzo da destra, di profilo) in loro onore nella sede del circolo ufficiali giapponese pavesato col tricolore (con stemma sabaudo), la bandiera del Sol Levante e quella nazista con svastica, alla presenza di alti gradi della marina militare nipponica, e allietato da un’orchestrina, fu sontuoso con numerosi e brillanti reciproci brindisi inneggianti alla vittoria dell’alleanza fra Roma, Berlino e Tokio.
Ma dopo pochi giorni, all’indomani dell’armistizio firmato l’8 settembre 1943 fra l’Italia e gli Alleati, l’intero equipaggio del “Giuliani” , tacciato di tradimento, venne rinchiuso senza alcun riguardo e sottoposto ad un duro trattamento in un campo di prigionia ove già si trovava, con il suo comandante Walter Auconi, l’equipaggio del “Cappellini” (pur esso trasformato in “cargo”) arrivato a Singapore nel mese di luglio.
Analoga sorte toccò al comandante ed all’equipaggio di un altro sommergibile da trasporto italiano, il “Torelli”, che aveva raggiunto Singapore poco prima del fatidico armistizio.
Il Guardiamarina Fabbrani, a seguito della lunga prigionia e degli stenti conseguenti fu ridotto in fin di vita e solo le cure prestategli in un ospedale militare americano dopo la sconfitta giapponese gli consentirono di recuperare la salute e di rientrare a Venezia ove esercitò brillantemente per molti anni la professione forense.
Ma vediano come il Comandante Auconi rievoca, nel bel libro di Giulio Raiola “Timoni a salire” (Ed.Mursia 1978) la sua prigionia:”…Cercavo di tener su il morale dei ragazzi, facevo far ginnastica, esercitazioni professionali ecc..Ci organizzammo per procurarci dei viveri perché i giapponesi si erano semplicemente dimenticati di portarci da mangiare: la prima settimana, niente; la seconda un sacchetto di riso, e con l’appetito che c’era… Credevamo che il re fosse ancora pienamente in sella, che avesse in pugno una qualche soluzione, qualcuno diceva che era andato in Sardegna e che da lì ancora si combattesse contro i tedeschi…Ogni mattina facevamo l’alzabandiera, la preghiera del marinaio ed il regolare “Viva il re” prima di rompere i ranghi…”.
Come si vede, i prigionieri non erano al corrente degli avvenimenti succedutisi in Italia dopo l’8 settembre con la nascita della RSI, e non risulta, almeno in questo caso, che i giapponesi facessero pressioni per farli aderire: si trattava, probabilmente, di una questione che non li interessava perché riguardante soprattutto i rapporti italo-tedeschi. Gli italiani erano traditori, e basta.
Auconi ricorda altresì un episodio che, pur nella drammaticità della situazione, ha aspetti decisamente umoristici allorchè, poco dopo il suo arrivo nel campo, viene convocato dal generale comandante.
Questi, indossando il tradizionale chimono, lo riceve molto cerimoniosamente con ripetuti inchini e, certo d’interpretare lo stato di grande abbattimento dell’ufficiale italiano di fronte alla sconfitta, gli illustra il comportamento dei militari giapponesi allorchè ritengano di essere disonorati: harakiri!
E si esibisce in una dotta illustrazione, accompagnata da urli e strepiti rituali, simulando, sciabola da samurai alla mano, i tre tipi di harakiri praticati in Giappone.
Il primo, il più comune, è realizzato da coloro che ritengono di aver perso l’onore: un bel taglio sul basso ventre, lungo e profondo, ed ecco fatto; il secondo, vanto di pochi grandi samurai, prevede che, dopo essersi infilata la sciabola nell’addome, l’uomo la estragga e la infili di nuovo nello squarcio; mentre il terzo, difficilissimo, e fatto fino ad allora solamente da tre grandi valorosi soldati, la suddetta manovra di immersione della sciabola nel ventre, e successiva estrazione, viene effettuata ripetutamente, a ripetizione, cosicchè alla fine dello sbudellamento i visceri sono tutti in bella vista sul pavimento.
Terminata la lezione, l’ufficiale italiano viene congedato ed a sera gli viene recapitata una bellissima sciabola del “Savoia Cavalleria” – capitata chi sa come da quelle parti - , chiaro invito del generale comandante all’ufficiale italiano ad usarla secondo le regole illustrate durante l’interessante dimostrazione del mattino.
Ma Auconi, convinto che non fosse il harakiri il metodo migliore per lasciarci la pelle, e desideroso di tenersela addosso ancora un po’, finse di non capire, ringraziò per l’omaggio ed appese la gloriosa sciabola alla parete della sua baracca accanto alla bandiera del “Cappellini” ed al ritratto del re.
Singolare la fine della prigionia di Auconi e del suo equipaggio imbarcato a forza sulla nave tedesca “Burgenland” camuffata da nave americana con il nome di “Floridian” per essere trasferiti in Europa.
La nave - che doveva ripercorrere la rotta praticata da Auconi all’andata – partita da Singapore il 17 novembre 1943 riuscì, grazie al suo camuffamento, a superare indenne l’Oceano Indiano pullulante di naviglio alleato, a raggiungere il Capo di Buona Speranza, aggirarlo, ed immettersi nell’Oceano Atlantico navigando verso nord per raggiungere la base di Bordeaux. Ma giunta, a Natale, poco lungi dall’isola di Ascensione, venne riconosciuta da un incrociatore nemico ed affondata.
Comincia qui la nuova odissea dei sopravvissuti al naufragio, 24 marinai tedeschi (compreso il comandante della “Burgenland”) e 8 italiani, ex carcerieri ed ex prigionieri accomunati da un comune destino.
A bordo di una scialuppa di salvataggio agli ordini di Auconi che, come ufficiale più anziano, ne ha assunto il comando, i naufraghi, dopo aver percorso a vela ed a remi in 9 giorni le 700 miglia dal punto dell’affondamento, raggiungono in Brasile la base americana di Pernambuco ove vengono internati.
Questa la sorte dei marinai italiani del “Cappellini”, del “Torelli” e del “Giuliani”, i tre sommergibili-cargo che erano riusciti nella memorabile impresa di collegare Bordeaux con Singapore.
Trecento uomini all’incirca che nei campi di prigionia dell’estremo oriente, ignari della sconfitta, avevano continuato a cantare la “Canzone dei sommergibilisti” destinati a “colpir e seppellir ogni nemico che s’incontra sul cammino” e che invece, nonostante il loro eroismo, erano stati mandati ad arenarsi nel mare verde della lontana giungla di Singapore. Giovanni Zannini
La “mappa” della prigionia italiana nella 2° guerra mondiale è, purtroppo, assai variegata e tocca molte nazioni fra cui principalmente la Germania, la Russia, gli Stati Uniti, l’India, il Canada, l’Australia ed il Kenia.
Pochi, però, ricordano che vi furono anche militari italiani prigionieri dei giapponesi, racchiusi in campi di concentramento in condizioni penosissime.
Il Guardiamarina Fabio Fabbrani, avvocato veneziano, ufficiale sommergibilista della Marina Militare Italiana, deceduto pochi anni fa, fu testimone di quella drammatica esperienza documentata dalle carte gelosamente custodite dal figlio Avv. Michele.
Imbarcato sul sottomarino “Giuliani” come ufficiale di rotta era giunto in estremo oriente nell’ambito del programma studiato da italiani, tedeschi e giapponesi per consentire - nell’ambito della triplice alleanza Roma-Berlino-Tokio – i collegamenti fra Europa e Giappone per via subacquea data la pratica difficoltà di effettuarli con naviglio di superfice o per via aerea.
A tal fine furono utilizzati alcuni sommergibili da combattimento italiani - fra cui il “Giuliani” - di stanza nella base “Betasom” di Bordeaux, giudicati dai tedeschi poco idonei alla guerra sottomarina in Atlantico e che vennero, per questo, trasformati in originali mezzi subacquei da trasporto, circostanza, questa, poco nota ai più.
Il “Giuliani”, giunto da Bordeaux nella base giapponese di Danang presso Singapore nei primi giorni di settembre 1943 fu accolto con grandi manifestazioni d’amicizia da parte degli alleati nipponici ammirati per l’impresa portata a termine in due mesi dopo una difficilissima navigazione di oltre 13.000 miglia attraverso due Oceani, l’Atlantico e l’Indiano, sfuggendo ad un nemico forte ed agguerrito.
Il banchetto (nella foto Fabbrani è il terzo da destra, di profilo) in loro onore nella sede del circolo ufficiali giapponese pavesato col tricolore (con stemma sabaudo), la bandiera del Sol Levante e quella nazista con svastica, alla presenza di alti gradi della marina militare nipponica, e allietato da un’orchestrina, fu sontuoso con numerosi e brillanti reciproci brindisi inneggianti alla vittoria dell’alleanza fra Roma, Berlino e Tokio.
Ma dopo pochi giorni, all’indomani dell’armistizio firmato l’8 settembre 1943 fra l’Italia e gli Alleati, l’intero equipaggio del “Giuliani” , tacciato di tradimento, venne rinchiuso senza alcun riguardo e sottoposto ad un duro trattamento in un campo di prigionia ove già si trovava, con il suo comandante Walter Auconi, l’equipaggio del “Cappellini” (pur esso trasformato in “cargo”) arrivato a Singapore nel mese di luglio.
Analoga sorte toccò al comandante ed all’equipaggio di un altro sommergibile da trasporto italiano, il “Torelli”, che aveva raggiunto Singapore poco prima del fatidico armistizio.
Il Guardiamarina Fabbrani, a seguito della lunga prigionia e degli stenti conseguenti fu ridotto in fin di vita e solo le cure prestategli in un ospedale militare americano dopo la sconfitta giapponese gli consentirono di recuperare la salute e di rientrare a Venezia ove esercitò brillantemente per molti anni la professione forense.
Ma vediano come il Comandante Auconi rievoca, nel bel libro di Giulio Raiola “Timoni a salire” (Ed.Mursia 1978) la sua prigionia:”…Cercavo di tener su il morale dei ragazzi, facevo far ginnastica, esercitazioni professionali ecc..Ci organizzammo per procurarci dei viveri perché i giapponesi si erano semplicemente dimenticati di portarci da mangiare: la prima settimana, niente; la seconda un sacchetto di riso, e con l’appetito che c’era… Credevamo che il re fosse ancora pienamente in sella, che avesse in pugno una qualche soluzione, qualcuno diceva che era andato in Sardegna e che da lì ancora si combattesse contro i tedeschi…Ogni mattina facevamo l’alzabandiera, la preghiera del marinaio ed il regolare “Viva il re” prima di rompere i ranghi…”.
Come si vede, i prigionieri non erano al corrente degli avvenimenti succedutisi in Italia dopo l’8 settembre con la nascita della RSI, e non risulta, almeno in questo caso, che i giapponesi facessero pressioni per farli aderire: si trattava, probabilmente, di una questione che non li interessava perché riguardante soprattutto i rapporti italo-tedeschi. Gli italiani erano traditori, e basta.
Auconi ricorda altresì un episodio che, pur nella drammaticità della situazione, ha aspetti decisamente umoristici allorchè, poco dopo il suo arrivo nel campo, viene convocato dal generale comandante.
Questi, indossando il tradizionale chimono, lo riceve molto cerimoniosamente con ripetuti inchini e, certo d’interpretare lo stato di grande abbattimento dell’ufficiale italiano di fronte alla sconfitta, gli illustra il comportamento dei militari giapponesi allorchè ritengano di essere disonorati: harakiri!
E si esibisce in una dotta illustrazione, accompagnata da urli e strepiti rituali, simulando, sciabola da samurai alla mano, i tre tipi di harakiri praticati in Giappone.
Il primo, il più comune, è realizzato da coloro che ritengono di aver perso l’onore: un bel taglio sul basso ventre, lungo e profondo, ed ecco fatto; il secondo, vanto di pochi grandi samurai, prevede che, dopo essersi infilata la sciabola nell’addome, l’uomo la estragga e la infili di nuovo nello squarcio; mentre il terzo, difficilissimo, e fatto fino ad allora solamente da tre grandi valorosi soldati, la suddetta manovra di immersione della sciabola nel ventre, e successiva estrazione, viene effettuata ripetutamente, a ripetizione, cosicchè alla fine dello sbudellamento i visceri sono tutti in bella vista sul pavimento.
Terminata la lezione, l’ufficiale italiano viene congedato ed a sera gli viene recapitata una bellissima sciabola del “Savoia Cavalleria” – capitata chi sa come da quelle parti - , chiaro invito del generale comandante all’ufficiale italiano ad usarla secondo le regole illustrate durante l’interessante dimostrazione del mattino.
Ma Auconi, convinto che non fosse il harakiri il metodo migliore per lasciarci la pelle, e desideroso di tenersela addosso ancora un po’, finse di non capire, ringraziò per l’omaggio ed appese la gloriosa sciabola alla parete della sua baracca accanto alla bandiera del “Cappellini” ed al ritratto del re.
Singolare la fine della prigionia di Auconi e del suo equipaggio imbarcato a forza sulla nave tedesca “Burgenland” camuffata da nave americana con il nome di “Floridian” per essere trasferiti in Europa.
La nave - che doveva ripercorrere la rotta praticata da Auconi all’andata – partita da Singapore il 17 novembre 1943 riuscì, grazie al suo camuffamento, a superare indenne l’Oceano Indiano pullulante di naviglio alleato, a raggiungere il Capo di Buona Speranza, aggirarlo, ed immettersi nell’Oceano Atlantico navigando verso nord per raggiungere la base di Bordeaux. Ma giunta, a Natale, poco lungi dall’isola di Ascensione, venne riconosciuta da un incrociatore nemico ed affondata.
Comincia qui la nuova odissea dei sopravvissuti al naufragio, 24 marinai tedeschi (compreso il comandante della “Burgenland”) e 8 italiani, ex carcerieri ed ex prigionieri accomunati da un comune destino.
A bordo di una scialuppa di salvataggio agli ordini di Auconi che, come ufficiale più anziano, ne ha assunto il comando, i naufraghi, dopo aver percorso a vela ed a remi in 9 giorni le 700 miglia dal punto dell’affondamento, raggiungono in Brasile la base americana di Pernambuco ove vengono internati.
Questa la sorte dei marinai italiani del “Cappellini”, del “Torelli” e del “Giuliani”, i tre sommergibili-cargo che erano riusciti nella memorabile impresa di collegare Bordeaux con Singapore.
Trecento uomini all’incirca che nei campi di prigionia dell’estremo oriente, ignari della sconfitta, avevano continuato a cantare la “Canzone dei sommergibilisti” destinati a “colpir e seppellir ogni nemico che s’incontra sul cammino” e che invece, nonostante il loro eroismo, erano stati mandati ad arenarsi nel mare verde della lontana giungla di Singapore. Giovanni Zannini
Era nato a Borso del Grappa -LA GUERRA DEL GRANATIERE VOLANTE
“Grande guerra, l'Italia prese il volo” così intitola “Avvenire” dello scorso 30 ottobre la recensione che Roberto Beretta dedica al bel saggio “Dal fango al vento” dello storico Fabio Caffarena che ricostruisce l’epopea degli aviatori italiani durante la prima guerra mondiale.
Fra questi vi fu anche un veneto nato nel territorio della nostra Diocesi, a Borso del Grappa, il 5 novembre 1887 e che ha poi risieduto per molti anni a Padova.
Quando il 24 maggio 1915 l’Italia entrò in guerra, Arturo Z. si trovava in Russia dal 13 settembre 1913 lavorando quale capo tecnico alle dipendenze della “Societè Cotonnière de Dedovo” (società franco-russa) alla costruzione, nelle vicinanze di Mosca, di un grande complesso industriale tessile: sintomo, questo, di una politica di modernizzazione dell’economia russa già in atto da parte dello Zar Nicola e che avrebbe potuto svilupparsi, secondo alcuni, anche se la rivoluzione non fosse avvenuta
Buon tecnico di tessitura, si vantava di aver messo in moto il primo telaio della nuova fabbrica e di aver trasformato i suoi dipendenti da contadini in abili operai: quelli stessi che, in corteo, accompagnarono il loro “maestro” alla stazione ove era in partenza per tornare in Italia a compiere il suo dovere di soldato, consegnandogli una commovente lettera, che lui tenne, preziosa, per tutta la vita, e che i suoi eredi gelosamente custodiscono.
Giunto in Italia, viene arruolato nel 1° Reggimento Granatieri di Sardegna e il 22 febbraio 1916 avviato in zona di guerra con il grado di aspirante ufficiale successivamente promosso sottotenente e poi tenente.
Combatte sull’Altopiano di Asiago agli ordini del mitico Gen.Pennella, e partecipa alla presa del S.Michele.
Nel giugno 1917, nell’offensiva sull’Hermada, comandante del 4° plotone della 16° compagnia, a seguito della morte del suo comandante e degli altri tre comandanti di plotone, assume il comando dell’intera compagnia fino a che, ferito al ginocchio da una granata, è costretto a lasciare il fronte e viene ricoverato all’Ospedale Militare di Milano.
Inizia la lunga serie di cure, e la convalescenza è lunga perché la ferita tarda a guarire, e Arturo morde il freno, vuole tornare al fronte con i suoi granatieri. Guarito, non viene però ritenuto idoneo alla dura vita del fante, e dopo accurati esami attitudinali viene destinato al nuovo Corpo Areonautico Militare dell’Esercito (la “Regia Aeronautica” come corpo autonomo nascerà solo il 28 .marzo 1923) che accoglie ufficiali provenienti da tutte le armi. Bersaglieri, cavalleggeri, artiglieri, alpini, genieri, marinai e così via, mantengono la loro divisa, unico segno distintivo, una piccola aquila sul braccio destro, e lui continua a fregiarsi fieramente dei “sacri alamari”, le bianche mostrine che cingono il collo del granatiere, ultimo residuo della divisa di quel corpo di soldati scelti creato da Vittorio Emanuele II di Savoia nel 1852.
Il 7 marzo 1918 viene inviato al Battaglione Scuola Aviatori presso il campo scuola di Busto Arsizio per iniziare il corso di pilotaggio, poi a Venaria Reale, quindi a Furbara per le prove di acrobazia e tiro: ed il 30 agosto gli viene rilasciato il brevetto di pilota.
Così, in soli sei mesi, dopo rischi e pericoli affrontati con coraggio e nervi saldi, il granatiere diventa aviatore.
Nel suo libro, Caffarena afferma che per gli allievi il rischio di lasciarci la pelle durante l’addestramento era del 30%: ma secondo Arturo Z. esso era ancor maggiore.
Una volta in aria, fra una scivolata d’ala ed una maldestra cabrata, bene o male le cose andavano:
ma era al decollo e, soprattutto, al momento dell’atterraggio, che il pericolo era in agguato, allorchè i fragili trabiccoli di tela stentavano ad innalzarsi o, al momento di toccar terra, dopo aver saltellato disordinatamente, si cappottavano e prendevano fuoco o si distruggevano cozzando contro un hangar.
Ai bordi del campo d’aviazione, sempre presenti, e pronti ad intervenire, il Cappellano Militare e l’ambulanza.
La divisa intrisa di sangue gettata con noncuranza militaresca sul letto della camera che, al campo, divideva con un collega, gli annunciò un giorno, al rientro da una breve assenza, che l’amico era volato in cielo senza far ritorno alla base.
A lui era andata bene quando una perdita d’olio aveva imbrattato il parabrezza che lo riparava dal vento, impedendogli la visibilità, ed il motore perdeva colpi per cui occorreva affrontare un atterraggio di fortuna. Avvistato un campetto, riuscì a toccar terra manovrando la “cloche” stando mezzo in piedi per poterci vedere ad disopra del parabrezza, e l’apparecchio finì la corsa contro un fossatello mettendosi sull’”attenti”, che voleva dire il muso contro terra e la coda alta verso il cielo.
Nel settembre 1918 viene nominato comandante della 306ma squadriglia da caccia destinata alla difesa aerea di Terni per proteggere le famose acciaierie - che forgiavano i cannoni per il fronte - da possibili incursioni di aerei austriaci che, provenienti dalle loro basi in Jugoslavia, avessero attraversato l’Adriatico.
Al suo primo volo su Terni Arturo incappa in un imponente vuoto d’aria prodotto dalle ciminiere delle potenti fonderie ribollenti di fuoco, e rischia di precipitare: ma anche quella volta se la cava.
Fino al fatidico 4 novembre 1918 veglia sulla sicurezza della città pronto a spiccare, in ogni momento, con i suoi uomini, il volo: ma il nemico non arriva.
Forse perché sapeva che a sbarrargli la strada e pronti a fargliela pagare cara, c’era la 306ma squadriglia dell’Esercito Italiano con il suo comandante, Arturo Zannini, mio padre.
Giovanni Zannini
Fra questi vi fu anche un veneto nato nel territorio della nostra Diocesi, a Borso del Grappa, il 5 novembre 1887 e che ha poi risieduto per molti anni a Padova.
Quando il 24 maggio 1915 l’Italia entrò in guerra, Arturo Z. si trovava in Russia dal 13 settembre 1913 lavorando quale capo tecnico alle dipendenze della “Societè Cotonnière de Dedovo” (società franco-russa) alla costruzione, nelle vicinanze di Mosca, di un grande complesso industriale tessile: sintomo, questo, di una politica di modernizzazione dell’economia russa già in atto da parte dello Zar Nicola e che avrebbe potuto svilupparsi, secondo alcuni, anche se la rivoluzione non fosse avvenuta
Buon tecnico di tessitura, si vantava di aver messo in moto il primo telaio della nuova fabbrica e di aver trasformato i suoi dipendenti da contadini in abili operai: quelli stessi che, in corteo, accompagnarono il loro “maestro” alla stazione ove era in partenza per tornare in Italia a compiere il suo dovere di soldato, consegnandogli una commovente lettera, che lui tenne, preziosa, per tutta la vita, e che i suoi eredi gelosamente custodiscono.
Giunto in Italia, viene arruolato nel 1° Reggimento Granatieri di Sardegna e il 22 febbraio 1916 avviato in zona di guerra con il grado di aspirante ufficiale successivamente promosso sottotenente e poi tenente.
Combatte sull’Altopiano di Asiago agli ordini del mitico Gen.Pennella, e partecipa alla presa del S.Michele.
Nel giugno 1917, nell’offensiva sull’Hermada, comandante del 4° plotone della 16° compagnia, a seguito della morte del suo comandante e degli altri tre comandanti di plotone, assume il comando dell’intera compagnia fino a che, ferito al ginocchio da una granata, è costretto a lasciare il fronte e viene ricoverato all’Ospedale Militare di Milano.
Inizia la lunga serie di cure, e la convalescenza è lunga perché la ferita tarda a guarire, e Arturo morde il freno, vuole tornare al fronte con i suoi granatieri. Guarito, non viene però ritenuto idoneo alla dura vita del fante, e dopo accurati esami attitudinali viene destinato al nuovo Corpo Areonautico Militare dell’Esercito (la “Regia Aeronautica” come corpo autonomo nascerà solo il 28 .marzo 1923) che accoglie ufficiali provenienti da tutte le armi. Bersaglieri, cavalleggeri, artiglieri, alpini, genieri, marinai e così via, mantengono la loro divisa, unico segno distintivo, una piccola aquila sul braccio destro, e lui continua a fregiarsi fieramente dei “sacri alamari”, le bianche mostrine che cingono il collo del granatiere, ultimo residuo della divisa di quel corpo di soldati scelti creato da Vittorio Emanuele II di Savoia nel 1852.
Il 7 marzo 1918 viene inviato al Battaglione Scuola Aviatori presso il campo scuola di Busto Arsizio per iniziare il corso di pilotaggio, poi a Venaria Reale, quindi a Furbara per le prove di acrobazia e tiro: ed il 30 agosto gli viene rilasciato il brevetto di pilota.
Così, in soli sei mesi, dopo rischi e pericoli affrontati con coraggio e nervi saldi, il granatiere diventa aviatore.
Nel suo libro, Caffarena afferma che per gli allievi il rischio di lasciarci la pelle durante l’addestramento era del 30%: ma secondo Arturo Z. esso era ancor maggiore.
Una volta in aria, fra una scivolata d’ala ed una maldestra cabrata, bene o male le cose andavano:
ma era al decollo e, soprattutto, al momento dell’atterraggio, che il pericolo era in agguato, allorchè i fragili trabiccoli di tela stentavano ad innalzarsi o, al momento di toccar terra, dopo aver saltellato disordinatamente, si cappottavano e prendevano fuoco o si distruggevano cozzando contro un hangar.
Ai bordi del campo d’aviazione, sempre presenti, e pronti ad intervenire, il Cappellano Militare e l’ambulanza.
La divisa intrisa di sangue gettata con noncuranza militaresca sul letto della camera che, al campo, divideva con un collega, gli annunciò un giorno, al rientro da una breve assenza, che l’amico era volato in cielo senza far ritorno alla base.
A lui era andata bene quando una perdita d’olio aveva imbrattato il parabrezza che lo riparava dal vento, impedendogli la visibilità, ed il motore perdeva colpi per cui occorreva affrontare un atterraggio di fortuna. Avvistato un campetto, riuscì a toccar terra manovrando la “cloche” stando mezzo in piedi per poterci vedere ad disopra del parabrezza, e l’apparecchio finì la corsa contro un fossatello mettendosi sull’”attenti”, che voleva dire il muso contro terra e la coda alta verso il cielo.
Nel settembre 1918 viene nominato comandante della 306ma squadriglia da caccia destinata alla difesa aerea di Terni per proteggere le famose acciaierie - che forgiavano i cannoni per il fronte - da possibili incursioni di aerei austriaci che, provenienti dalle loro basi in Jugoslavia, avessero attraversato l’Adriatico.
Al suo primo volo su Terni Arturo incappa in un imponente vuoto d’aria prodotto dalle ciminiere delle potenti fonderie ribollenti di fuoco, e rischia di precipitare: ma anche quella volta se la cava.
Fino al fatidico 4 novembre 1918 veglia sulla sicurezza della città pronto a spiccare, in ogni momento, con i suoi uomini, il volo: ma il nemico non arriva.
Forse perché sapeva che a sbarrargli la strada e pronti a fargliela pagare cara, c’era la 306ma squadriglia dell’Esercito Italiano con il suo comandante, Arturo Zannini, mio padre.
Giovanni Zannini
mercoledì 9 novembre 2011
VINCERE!
L’esito delle votazioni alla Camera ed al Senato dovrebbero indurre capi e gregari delle contrapposte formazioni politiche ad una maggiore prudenza e cautela nel prevedere la propria vittoria tenuto conto di quanto accaduto in Italia alcuni lustri fa allorchè Benito Mussolini pronunciò la frase urlata nel suo famoso discorso:”Vincere! E vinceremo!”.
I più anziani ricordano la martellante campagna propagandistica scandita sui giornali, alla radio, nelle riunioni e nelle canzoni, famosa quella che il “Vincere!”, onde dargli maggior affidamento, lo proclamava per ben tre volte.
E , dal momento che il partito aveva ordinato “E’ abolita la stretta di mano: si saluta romanamente”, quando due s’incontravano, entrambi dovevano alzare il braccio nel saluto romano, poi uno (non è chiaro quale dei due dovesse farlo per primo) doveva proclamare “Vincere!” e l’altro rispondere con un convinto “Vinceremo!”.
Poi sappiamo com’è andata a finire, per cui suggerirei ai capi partito di astenersi nei proclami, nei discorsi, nei contradditori ed in ogni altra occasione di propaganda elettorale, da previsioni di vittoria certa ed assoluta, ed esprimere invece affermazioni più caute (tipo : “ Prevedo alte possibilità di successo”, “L’esito della campagna elettorale non dovrebbe riservarci sorprese”, “E’ assai probabile che taglieremo il traguardo per primi”, e simili) in modo da lasciar aperta la strada anche all’ipotesi che l’invocata vittoria non arrivi, ed evitare figure barbine.
Com’ è purtroppo accaduto a noi italiani allorchè, dopo aver imprudentemente cantato a squarciagola , nella succitata canzone, “O vincere o morire”, abbiamo poi, dopo la sconfitta, continuato a campare, riconoscendo che eravamo stati cattivi profeti.
Giovanni Zannini
I più anziani ricordano la martellante campagna propagandistica scandita sui giornali, alla radio, nelle riunioni e nelle canzoni, famosa quella che il “Vincere!”, onde dargli maggior affidamento, lo proclamava per ben tre volte.
E , dal momento che il partito aveva ordinato “E’ abolita la stretta di mano: si saluta romanamente”, quando due s’incontravano, entrambi dovevano alzare il braccio nel saluto romano, poi uno (non è chiaro quale dei due dovesse farlo per primo) doveva proclamare “Vincere!” e l’altro rispondere con un convinto “Vinceremo!”.
Poi sappiamo com’è andata a finire, per cui suggerirei ai capi partito di astenersi nei proclami, nei discorsi, nei contradditori ed in ogni altra occasione di propaganda elettorale, da previsioni di vittoria certa ed assoluta, ed esprimere invece affermazioni più caute (tipo : “ Prevedo alte possibilità di successo”, “L’esito della campagna elettorale non dovrebbe riservarci sorprese”, “E’ assai probabile che taglieremo il traguardo per primi”, e simili) in modo da lasciar aperta la strada anche all’ipotesi che l’invocata vittoria non arrivi, ed evitare figure barbine.
Com’ è purtroppo accaduto a noi italiani allorchè, dopo aver imprudentemente cantato a squarciagola , nella succitata canzone, “O vincere o morire”, abbiamo poi, dopo la sconfitta, continuato a campare, riconoscendo che eravamo stati cattivi profeti.
Giovanni Zannini
QUESTIONE DI "ESCORT"
Enrico Prendigrano, Assessore Comunale allo Sviluppo Edilizio, passeggia avanti e indietro, fumando una sigaretta dopo l’altra, dinanzi all’ingresso del condominio ove, al quinto piano, c’è il suo piccolo studio.
“Manca mezz’ora”, pensa, “ma è meglio star larghi. Magari arriva prima e, non trovando il nome, c’è il rischio che se ne vada.” Sulla pulsantiera, infatti, ci sono solo le sue iniziali, inutile far sapere alla gente i fatti propri.
L’appuntamento è per le cinque, ma alle quattro e mezza ecco avanzarsi un fior di ragazza che se ne vedono poche: “Vedi che ho fatto bene”pensa Enrico, compiacendosi per la sua previdenza, mentre si avvicina alla fata.
“Lei cerca me, vero, signorina” dice, sfoggiando il miglior sorriso e porgendole la mano. “Perchè no..…”, fa l’altra, con un sorriso incoraggiante. “Si, sono proprio io” prosegue, sicuro, l’uomo, prendendola confidenzialmente sottobraccio ed avviandosi verso l’ascensore, “venga, venga, saliamo, vedrà, è un posticino proprio carino”. La ragazza lo segue docilmente, ed eccoli nello studiolo. “E’ bello, qui, c’è una vista fantastica” si complimenta la ragazza che indossa un “tubino” in cima al quale spunta uno splendido “decolletè”. “E’ vero” gli fa eco Enrico, galante, con un sorriso, “ma sono certo che, quando ti sarai tolta il vestitino, il panorama che apparirà sarà ancor più bello”. L’altra non se lo fa ripetere e, dopo il “decolletè”, ecco, in tutto il suo splendore, il resto che l’uomo, estasiato, ammira poco dopo, nello “studiolo” ove, al posto della scrivania, c’è un grande letto.
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“E’ stato molto bello, complimenti” dice l’uomo alla donna che si sta riinfilando con qualche difficoltà, data l’abbondanza di curve, il tubino. “E’ vero”, risponde, “è piaciuto anche a me, ma ora parliamo di cose serie: fa duemila”. Enrico, ancora mollemente disteso sul lettone, la guarda con occhio interrogativo. E l’altra, come a giustificare l’entità dell’onorario,” E che ti credi!” fa, guardandolo freddamente,“ io sono una “escort” di pregio, e sulla tariffa non transigo”. A questo punto l’altro fa un zompo sul letto, e così, mezzo nudo com’è, le si pianta davanti guardandola con occhi spiritati:” Ma” balbetta “ il dottor Cementi mi ha detto che era tutto pagato!”.
“Il dottor Cementi? E chi è” replica l’altra. “Ma come chi è” insiste l’uomo, “Paolo Cementi, Amministratore Delegato della SpA “ Capannoni Sicuri”, l’ impresa di costruzioni che partecipa alla gara d’appalto per la creazione della zona industriale sud, il quale mi ha assicurato che mi avrebbe mandato in omaggio la Samanta”, dice d’un fiato il Prendigrano guardando minacciosamente la donna . “Prima di tutto”, risponde quella, “io non mi chiamo Samanta, ma Debora, e poi io questo signor Cementi non so proprio chi sia, per cui o mi cacci la grana o comincio a gridare”.
Solo allora l’uomo si rende conto dell’equivoco in cui è caduto avvicinando con eccessiva precipitazione una presunta Samantha che, era, invece, una Debora che col Cementi non ci aveva nulla a che fare.
Ma di fronte al pericolo dello scandalo che avrebbe compromesso una carriera politica già ben avviata e, soprattutto, redditizia, Enrico Prendigrano preferisce mollare, profferendo parole irriferibili, i duemila euro alla Debora che se ne va offesa, senza salutare, mentre lui se ne torna malinconicamente a letto per rifarsi delle recenti fatiche amorose e dell’arrabbiatura.
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Aveva preso sonno da una mezz’oretta quando è svegliato da una ripetuta scampanellata. Maledicendo i seccatori, si avvia alla porta e, apertala, si trova di fronte una bella ragazza sui diciott’anni questa volta in maglioncino e minigonna ascellare che, prima che lui possa profferir parola, gli getta le braccia al collo dicendogli: “Sono la Samanta e mi manda il Paolo della “Capannoni Sicuri”. Scusa il ritardo, ma ho forato ed ho perso un mucchio di tempo”, e poi si avvia, mentre si toglie il maglioncino, verso lo “studio”.
In un lampo, Enrico Prendigrano capisce, e gli vengono i sudori freddi. Fosse stato più giovane, avrebbe ringraziato la buona sorte se gli avesse fatto cadere fra le braccia un così succulento bocconcino, e gratis per giunta, ma alla sua età – siamo sulla sessantina - è un’altra cosa. I medici gli hanno raccomandato di starci attento , e di non esagerare mai: e due volte, in poco più di un’ora, può essere molto pericoloso. Ma come glielo dice alla ragazza?
Di fronte ai suoi tentennamenti – ho il mal di testa, ho dormito male, ho il diabete mellito, ho un appuntamento importante – quella non vuol sentir ragioni: è stata pagata per fornicare con Enrico Prendigrano, e ciò le impone di osservare l’impegno assunto (oltrettutto, con pagamento anticipato) con il Paolo Cementi che, se venisse a sapere della sua inosservanza, potrebbe revocarle la fiducia e compromettere così un brillante futuro di “escort”.
Fu così che nello “studiolo” del Prendigrano avvenne quella volta un inedito caso di violenza sessuale.
Da una parte, in veste di violentatore, la Samanta; dall’altra, vittima, un Assessore Comunale che alla fine, nonostante una disperata resistenza, fu costretto a cedere alle pressanti ed abili profferte amorose di una fanciulla - certamente di dubbia moralità, ma innegabilmente dotata di profonda coscienza professionale - ben determinata ad osservare gli impegni contrattualmente assunti, sia pure verbalmente, ma la parola è parola, con il Cementi.
Da allora il Prendigrano, sopravvissuto, pur malconcio, a quella “performance” amorosa, si fece più cauto e accolse le “escort” solo dopo averle sottoposte ad un prudente interrogatorio onde accertare con precisione non solo la loro identità, ma pure la ragione sociale delle ditte offerenti nonché nome, cognome e indirizzo dei loro amministratori delegati. Giovanni Zannini
“Manca mezz’ora”, pensa, “ma è meglio star larghi. Magari arriva prima e, non trovando il nome, c’è il rischio che se ne vada.” Sulla pulsantiera, infatti, ci sono solo le sue iniziali, inutile far sapere alla gente i fatti propri.
L’appuntamento è per le cinque, ma alle quattro e mezza ecco avanzarsi un fior di ragazza che se ne vedono poche: “Vedi che ho fatto bene”pensa Enrico, compiacendosi per la sua previdenza, mentre si avvicina alla fata.
“Lei cerca me, vero, signorina” dice, sfoggiando il miglior sorriso e porgendole la mano. “Perchè no..…”, fa l’altra, con un sorriso incoraggiante. “Si, sono proprio io” prosegue, sicuro, l’uomo, prendendola confidenzialmente sottobraccio ed avviandosi verso l’ascensore, “venga, venga, saliamo, vedrà, è un posticino proprio carino”. La ragazza lo segue docilmente, ed eccoli nello studiolo. “E’ bello, qui, c’è una vista fantastica” si complimenta la ragazza che indossa un “tubino” in cima al quale spunta uno splendido “decolletè”. “E’ vero” gli fa eco Enrico, galante, con un sorriso, “ma sono certo che, quando ti sarai tolta il vestitino, il panorama che apparirà sarà ancor più bello”. L’altra non se lo fa ripetere e, dopo il “decolletè”, ecco, in tutto il suo splendore, il resto che l’uomo, estasiato, ammira poco dopo, nello “studiolo” ove, al posto della scrivania, c’è un grande letto.
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“E’ stato molto bello, complimenti” dice l’uomo alla donna che si sta riinfilando con qualche difficoltà, data l’abbondanza di curve, il tubino. “E’ vero”, risponde, “è piaciuto anche a me, ma ora parliamo di cose serie: fa duemila”. Enrico, ancora mollemente disteso sul lettone, la guarda con occhio interrogativo. E l’altra, come a giustificare l’entità dell’onorario,” E che ti credi!” fa, guardandolo freddamente,“ io sono una “escort” di pregio, e sulla tariffa non transigo”. A questo punto l’altro fa un zompo sul letto, e così, mezzo nudo com’è, le si pianta davanti guardandola con occhi spiritati:” Ma” balbetta “ il dottor Cementi mi ha detto che era tutto pagato!”.
“Il dottor Cementi? E chi è” replica l’altra. “Ma come chi è” insiste l’uomo, “Paolo Cementi, Amministratore Delegato della SpA “ Capannoni Sicuri”, l’ impresa di costruzioni che partecipa alla gara d’appalto per la creazione della zona industriale sud, il quale mi ha assicurato che mi avrebbe mandato in omaggio la Samanta”, dice d’un fiato il Prendigrano guardando minacciosamente la donna . “Prima di tutto”, risponde quella, “io non mi chiamo Samanta, ma Debora, e poi io questo signor Cementi non so proprio chi sia, per cui o mi cacci la grana o comincio a gridare”.
Solo allora l’uomo si rende conto dell’equivoco in cui è caduto avvicinando con eccessiva precipitazione una presunta Samantha che, era, invece, una Debora che col Cementi non ci aveva nulla a che fare.
Ma di fronte al pericolo dello scandalo che avrebbe compromesso una carriera politica già ben avviata e, soprattutto, redditizia, Enrico Prendigrano preferisce mollare, profferendo parole irriferibili, i duemila euro alla Debora che se ne va offesa, senza salutare, mentre lui se ne torna malinconicamente a letto per rifarsi delle recenti fatiche amorose e dell’arrabbiatura.
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Aveva preso sonno da una mezz’oretta quando è svegliato da una ripetuta scampanellata. Maledicendo i seccatori, si avvia alla porta e, apertala, si trova di fronte una bella ragazza sui diciott’anni questa volta in maglioncino e minigonna ascellare che, prima che lui possa profferir parola, gli getta le braccia al collo dicendogli: “Sono la Samanta e mi manda il Paolo della “Capannoni Sicuri”. Scusa il ritardo, ma ho forato ed ho perso un mucchio di tempo”, e poi si avvia, mentre si toglie il maglioncino, verso lo “studio”.
In un lampo, Enrico Prendigrano capisce, e gli vengono i sudori freddi. Fosse stato più giovane, avrebbe ringraziato la buona sorte se gli avesse fatto cadere fra le braccia un così succulento bocconcino, e gratis per giunta, ma alla sua età – siamo sulla sessantina - è un’altra cosa. I medici gli hanno raccomandato di starci attento , e di non esagerare mai: e due volte, in poco più di un’ora, può essere molto pericoloso. Ma come glielo dice alla ragazza?
Di fronte ai suoi tentennamenti – ho il mal di testa, ho dormito male, ho il diabete mellito, ho un appuntamento importante – quella non vuol sentir ragioni: è stata pagata per fornicare con Enrico Prendigrano, e ciò le impone di osservare l’impegno assunto (oltrettutto, con pagamento anticipato) con il Paolo Cementi che, se venisse a sapere della sua inosservanza, potrebbe revocarle la fiducia e compromettere così un brillante futuro di “escort”.
Fu così che nello “studiolo” del Prendigrano avvenne quella volta un inedito caso di violenza sessuale.
Da una parte, in veste di violentatore, la Samanta; dall’altra, vittima, un Assessore Comunale che alla fine, nonostante una disperata resistenza, fu costretto a cedere alle pressanti ed abili profferte amorose di una fanciulla - certamente di dubbia moralità, ma innegabilmente dotata di profonda coscienza professionale - ben determinata ad osservare gli impegni contrattualmente assunti, sia pure verbalmente, ma la parola è parola, con il Cementi.
Da allora il Prendigrano, sopravvissuto, pur malconcio, a quella “performance” amorosa, si fece più cauto e accolse le “escort” solo dopo averle sottoposte ad un prudente interrogatorio onde accertare con precisione non solo la loro identità, ma pure la ragione sociale delle ditte offerenti nonché nome, cognome e indirizzo dei loro amministratori delegati. Giovanni Zannini
Luigi Caroli rivale in amore di Garibaldi - VITA E MORTE DEL "GIGIO"
Sono note le vicende dell’infelice matrimonio di Garibaldi con la marchesina Giuseppina Raimondi avvenuto a Fino Mornasco il 24 gennaio 1860.
Terminata, nella cappella della villa del padre, il marchese Giorgio Raimondi, a fino Mornasco, la cerimonia religiosa (anche il primo matrimonio, con Anita, era stato celebrato in chiesa; solo il terzo, poco prima di morire, con la Francesca Armosino, avvenne con rito civile), mentre gli sposi e gli ospiti si avviano al ricevimento, viene consegnato a Garibaldi uno scritto attestante che la diciottenne sposina è l’amante di tal Luigi Caroli, detto Gigio.
Chi l’abbia fatto pervenire al Generale, e cosa contenesse, è dubbio, e molte sono le ipotesi: di certo, però, la denuncia era vera.
Ma chi era questo Caroli?
“Alto, elegante – così lo descrivono Indro Montanelli e Marco Nozza nel loro “Garibaldi” – castano di capelli e di baffi, aveva (alla data dell’infortunio di Garibaldi – ndr) 25 anni e nessun bisogno di lavorare perchè avevano già lavorato per lui nonno, babbo e fratelli spintisi fino in Giappone per importare in quel di Bergamo bachi da seta.
Nato per spendere, anzi, per dilapidare, “Gigio” era andato in Ungheria e ne era tornato con un “tiro a quattro” e una legione di domestici transilvani in costume. A Monaco aveva perso una fortuna al tavolo da gioco. Dalla Spagna aveva dovuto fuggire per non essere costretto al matrimonio con una castigliana da lui sedotta...”
A Montecarlo si gioca 100.000 franchi; un’altra volta ne vince 1.600.000 e (bel gesto, non c’è che dire) regala 500.000 lire a un cassiere che aveva giocato e perso una somma non sua, e voleva suicidarsi; il “tiro a quattro” (ossia, lo dico per i più giovani, che non lo sanno, una carrozza tirata da 4 cavalli, una Ferrari dell’epoca) gli costa 80.000 franchi.
L’incontro con la marchesina era avvenuto nel 1959 a Milano, nel Caffè della Sincerità ove il Caroli si recava ogni giorno – sempre secondo i succitati autori - “facendosi accompagnare dai suoi stallieri in livrea bianca e bottoni d’oro”.
Bello lui, e pieno di soldi, oltretutto con indosso la brillante divisa di tenente dei Cavalleggeri di Saluzzo con i quali ha fatto la campagna del 1859 (non dunque, come qualcuno disse, un Garibaldino – e meno male, perché troppo grande sarebbe stato l’oltraggio se a metter le corna a Garibaldi fosse stato uno dei suoi!) bella lei, ed assai intraprendente - tanto da essere considerata un’antesignana delle femministe - nonostante i suoi 17 anni, il colpo di fulmine fu inevitabile.
La fuga degli amanti
Dopo l’infausto matrimonio (24.1.1860), e lo scandalo che ne seguì, il 29 gennaio il “Gigio” si mette in aspettativa dall’esercito, quindi con la Raimondi si rifugia prima a Friburgo vagolando poi per la Svizzera, su suggerimento del fratellastro di lui, Alessandro Carissimi che lo consiglia di cambiare aria perché qualche fedelissimo di Garibaldi voleva fargli la pelle per l’offesa arrecata al capo.
Consiglio che poi il Gigio rimprovererà al fratellastro perché, in tal modo, con la fuga, la tresca era divenuta evidente mentre resistendo sul posto essa si sarebbe potuta assestare in qualche modo.
La fuga in Svizzera dimostra che tra i due c’era, all’inizio, vero amore: ma dopo pochi mesi esso si andò raffreddando allorché l’uomo si rese conto che il suo legame con la donna, oltretutto in attesa di un figlio, attentava alla sua sfrenata libertà di movimento, e la rottura, nonostante i disperati appelli della donna, fu inevitabile.
Dopo di che, con una facciatosta degna di miglior causa, e con evidente disprezzo per la sorte della donna che aveva compromesso, il suo pensiero fisso diviene il desiderio di arruolarsi nella spedizione garibaldina in Sicilia, sicuro che il gran cuore del Generale avrebbe perdonato il torto arrecatogli.
E per essere ricompreso nei fatidici “1000” non esita ad offrire un contributo di ben 20.000 lire: ma invano perché il Generale, offeso, non vuol neppure sentirne parlare.
La completa rottura fra i due amanti avviene nel luglio 1860 e la Giuseppina Raimondi, rientrata in Italia, a fine agosto o ai primi di settembre partorisce un feto morto.
Anche se altri affermano che sarebbe invece nato un bambino che la Raimondi teneva con sé come figlio dopo averlo fraudolentemente fatto passare all’anagrafe come nipote della sua cameriera.
Inutile sottolineare quanto equivoca sarebbe stata tale situazione, ma commentano Montanelli e Nozza, “erano cose quasi normali nell’alta società di quel tempo cui la nostra fantasia ha imprestato spartani rigori”.
Il riferimento è ai cosiddetti bei tempi passati che, spesso, belli non lo erano proprio.
L’ultima avventura
Fallita la sua ansia di partecipare alla spedizione dei Mille, del Caroli si hanno notizie poche e vaghe: Montanelli/Nozza dicono che “lo scavezzacollo girò per tre anni l’Europa vincendo in amore e perdendo al gioco”.
Andò, o forse solo progettò, di andare nel Caucaso a fare non si sa cosa fino a che gli si offrì un’occasione che appagava il suo desiderio d’avventura e di gloria.
I patrioti polacchi il 23-1-1863 erano insorti contro i dominatori russi per conquistare la libertà ed i garibaldini, generosamente, come altre volte - in Grecia, a Creta, in Spagna, in Francia, senza dimenticare le lotte di Garibaldi in Sud-America per l’indipendenza della Repubblica del Rio Grande do Sul contro l’impero brasiliano – si erano messi in agitazione per organizzare una “Legione Italiana” in loro aiuto.
Comandante ne fu Francesco Nullo ricco, bello, anzi bellissimo pure lui (lo stesso Garibaldi lo definì “Il più bello dei garibaldini”), da sempre seguace del Generale, bergamasco, quindi compaesano del “Gigio” e – sempre secondo Montanelli e Nozza - “non meno scavezzacollo di lui”.
Il Caroli al quale, come si è visto, i quattrini non facevano difetto, contribuì alla spedizione: organizzò, armandolo di tutto punto, un manipolo di una ventina di volontari e con essi seguì la “Legione” in marcia per la lontana Polonia.
Ma le cose andarono male perché, nonostante un patetico appello di Garibadi ai soldati russi perché disertassero, nella battaglia di Krzykawka del 5 maggio 1863 i polacchi furono sconfitti, molti garibaldini, fra cui lo stesso Nullo, perirono in battaglia mentre il Caroli, fatto prigioniero con altri fu mandato a marcire nella gelida Siberia, nella tremenda prigione di Kadaya, in una baracca di legno costruita sulla nuda terra e le catene ai polsi ed ai piedi.
Vane saranno le sue invocazioni a parenti ed amici, anche altolocati, perché i russi liberassero lui e gli altri prigionieri italiani che imprudentemente si erano messi contro di loro: ma lo Zar fu irremovibile.
Come spesso accade nella disgrazia, le inumane condizioni di vita favorirono i ripensamenti, ed il ricordo della Giuseppina tornò, lancinante, alla mente del prigioniero.
Invoca da una sorella l’invio di un suo ritratto e se lo tiene stretto sul petto fino alla morte avvenuta a seguito di una rissa fra prigionieri durante una partita di carte: neppure le catene ed i ghiacci della Siberia erano riusciti a sopire la sua passione per il gioco.E la marchesina?
Dopo anni tormentati di ricordi, ammissioni, confessioni e smentite sulla turbolenta vicenda e dopo un inutile tentativo di riappacificazione con Garibaldi (che andò a trovare al forte di Varignano in quel di La Spezia ove il generale, ferito ad Aspromonte, era stato rinchiuso, ma non fu ricevuta), si sposò nel gennaio 1880 (subito dopo l’annullamento del matrimonio con Garibaldi) con il conte Ludovico Mancini e si spense a Birago (nei pressi di Lentate sul Seveso) nel 1918 all’età di 77 anni.
In conclusione, fu una grande sfortuna per Garibaldi l’incontro con due personaggi di assai discutibile moralità (per non dire altro) che con il loro comportamento attentarono alla sua fama e, diciamolo, suscitarono più di uno sghignazzo.
Anche se, occorre dire anche questo, l’infortunio del 24 gennaio 1860 non distolse l’Eroe dei Due Mondi dall’organizzare in tutti i suoi dettagli un’ impresa memorabile, come quella dei Mille, che prese il largo il 5 maggio dello stesso anno, solo un centinaio di giorni dopo il fattaccio.
Un’ulteriore prova che fra le sue tante virtù Garibaldi aveva anche quella di saper tener distinte, e padroneggiare, in questo, come in altri casi, le questioni di lotta da quelle di letto.
Giovanni Zannini
Terminata, nella cappella della villa del padre, il marchese Giorgio Raimondi, a fino Mornasco, la cerimonia religiosa (anche il primo matrimonio, con Anita, era stato celebrato in chiesa; solo il terzo, poco prima di morire, con la Francesca Armosino, avvenne con rito civile), mentre gli sposi e gli ospiti si avviano al ricevimento, viene consegnato a Garibaldi uno scritto attestante che la diciottenne sposina è l’amante di tal Luigi Caroli, detto Gigio.
Chi l’abbia fatto pervenire al Generale, e cosa contenesse, è dubbio, e molte sono le ipotesi: di certo, però, la denuncia era vera.
Ma chi era questo Caroli?
“Alto, elegante – così lo descrivono Indro Montanelli e Marco Nozza nel loro “Garibaldi” – castano di capelli e di baffi, aveva (alla data dell’infortunio di Garibaldi – ndr) 25 anni e nessun bisogno di lavorare perchè avevano già lavorato per lui nonno, babbo e fratelli spintisi fino in Giappone per importare in quel di Bergamo bachi da seta.
Nato per spendere, anzi, per dilapidare, “Gigio” era andato in Ungheria e ne era tornato con un “tiro a quattro” e una legione di domestici transilvani in costume. A Monaco aveva perso una fortuna al tavolo da gioco. Dalla Spagna aveva dovuto fuggire per non essere costretto al matrimonio con una castigliana da lui sedotta...”
A Montecarlo si gioca 100.000 franchi; un’altra volta ne vince 1.600.000 e (bel gesto, non c’è che dire) regala 500.000 lire a un cassiere che aveva giocato e perso una somma non sua, e voleva suicidarsi; il “tiro a quattro” (ossia, lo dico per i più giovani, che non lo sanno, una carrozza tirata da 4 cavalli, una Ferrari dell’epoca) gli costa 80.000 franchi.
L’incontro con la marchesina era avvenuto nel 1959 a Milano, nel Caffè della Sincerità ove il Caroli si recava ogni giorno – sempre secondo i succitati autori - “facendosi accompagnare dai suoi stallieri in livrea bianca e bottoni d’oro”.
Bello lui, e pieno di soldi, oltretutto con indosso la brillante divisa di tenente dei Cavalleggeri di Saluzzo con i quali ha fatto la campagna del 1859 (non dunque, come qualcuno disse, un Garibaldino – e meno male, perché troppo grande sarebbe stato l’oltraggio se a metter le corna a Garibaldi fosse stato uno dei suoi!) bella lei, ed assai intraprendente - tanto da essere considerata un’antesignana delle femministe - nonostante i suoi 17 anni, il colpo di fulmine fu inevitabile.
La fuga degli amanti
Dopo l’infausto matrimonio (24.1.1860), e lo scandalo che ne seguì, il 29 gennaio il “Gigio” si mette in aspettativa dall’esercito, quindi con la Raimondi si rifugia prima a Friburgo vagolando poi per la Svizzera, su suggerimento del fratellastro di lui, Alessandro Carissimi che lo consiglia di cambiare aria perché qualche fedelissimo di Garibaldi voleva fargli la pelle per l’offesa arrecata al capo.
Consiglio che poi il Gigio rimprovererà al fratellastro perché, in tal modo, con la fuga, la tresca era divenuta evidente mentre resistendo sul posto essa si sarebbe potuta assestare in qualche modo.
La fuga in Svizzera dimostra che tra i due c’era, all’inizio, vero amore: ma dopo pochi mesi esso si andò raffreddando allorché l’uomo si rese conto che il suo legame con la donna, oltretutto in attesa di un figlio, attentava alla sua sfrenata libertà di movimento, e la rottura, nonostante i disperati appelli della donna, fu inevitabile.
Dopo di che, con una facciatosta degna di miglior causa, e con evidente disprezzo per la sorte della donna che aveva compromesso, il suo pensiero fisso diviene il desiderio di arruolarsi nella spedizione garibaldina in Sicilia, sicuro che il gran cuore del Generale avrebbe perdonato il torto arrecatogli.
E per essere ricompreso nei fatidici “1000” non esita ad offrire un contributo di ben 20.000 lire: ma invano perché il Generale, offeso, non vuol neppure sentirne parlare.
La completa rottura fra i due amanti avviene nel luglio 1860 e la Giuseppina Raimondi, rientrata in Italia, a fine agosto o ai primi di settembre partorisce un feto morto.
Anche se altri affermano che sarebbe invece nato un bambino che la Raimondi teneva con sé come figlio dopo averlo fraudolentemente fatto passare all’anagrafe come nipote della sua cameriera.
Inutile sottolineare quanto equivoca sarebbe stata tale situazione, ma commentano Montanelli e Nozza, “erano cose quasi normali nell’alta società di quel tempo cui la nostra fantasia ha imprestato spartani rigori”.
Il riferimento è ai cosiddetti bei tempi passati che, spesso, belli non lo erano proprio.
L’ultima avventura
Fallita la sua ansia di partecipare alla spedizione dei Mille, del Caroli si hanno notizie poche e vaghe: Montanelli/Nozza dicono che “lo scavezzacollo girò per tre anni l’Europa vincendo in amore e perdendo al gioco”.
Andò, o forse solo progettò, di andare nel Caucaso a fare non si sa cosa fino a che gli si offrì un’occasione che appagava il suo desiderio d’avventura e di gloria.
I patrioti polacchi il 23-1-1863 erano insorti contro i dominatori russi per conquistare la libertà ed i garibaldini, generosamente, come altre volte - in Grecia, a Creta, in Spagna, in Francia, senza dimenticare le lotte di Garibaldi in Sud-America per l’indipendenza della Repubblica del Rio Grande do Sul contro l’impero brasiliano – si erano messi in agitazione per organizzare una “Legione Italiana” in loro aiuto.
Comandante ne fu Francesco Nullo ricco, bello, anzi bellissimo pure lui (lo stesso Garibaldi lo definì “Il più bello dei garibaldini”), da sempre seguace del Generale, bergamasco, quindi compaesano del “Gigio” e – sempre secondo Montanelli e Nozza - “non meno scavezzacollo di lui”.
Il Caroli al quale, come si è visto, i quattrini non facevano difetto, contribuì alla spedizione: organizzò, armandolo di tutto punto, un manipolo di una ventina di volontari e con essi seguì la “Legione” in marcia per la lontana Polonia.
Ma le cose andarono male perché, nonostante un patetico appello di Garibadi ai soldati russi perché disertassero, nella battaglia di Krzykawka del 5 maggio 1863 i polacchi furono sconfitti, molti garibaldini, fra cui lo stesso Nullo, perirono in battaglia mentre il Caroli, fatto prigioniero con altri fu mandato a marcire nella gelida Siberia, nella tremenda prigione di Kadaya, in una baracca di legno costruita sulla nuda terra e le catene ai polsi ed ai piedi.
Vane saranno le sue invocazioni a parenti ed amici, anche altolocati, perché i russi liberassero lui e gli altri prigionieri italiani che imprudentemente si erano messi contro di loro: ma lo Zar fu irremovibile.
Come spesso accade nella disgrazia, le inumane condizioni di vita favorirono i ripensamenti, ed il ricordo della Giuseppina tornò, lancinante, alla mente del prigioniero.
Invoca da una sorella l’invio di un suo ritratto e se lo tiene stretto sul petto fino alla morte avvenuta a seguito di una rissa fra prigionieri durante una partita di carte: neppure le catene ed i ghiacci della Siberia erano riusciti a sopire la sua passione per il gioco.E la marchesina?
Dopo anni tormentati di ricordi, ammissioni, confessioni e smentite sulla turbolenta vicenda e dopo un inutile tentativo di riappacificazione con Garibaldi (che andò a trovare al forte di Varignano in quel di La Spezia ove il generale, ferito ad Aspromonte, era stato rinchiuso, ma non fu ricevuta), si sposò nel gennaio 1880 (subito dopo l’annullamento del matrimonio con Garibaldi) con il conte Ludovico Mancini e si spense a Birago (nei pressi di Lentate sul Seveso) nel 1918 all’età di 77 anni.
In conclusione, fu una grande sfortuna per Garibaldi l’incontro con due personaggi di assai discutibile moralità (per non dire altro) che con il loro comportamento attentarono alla sua fama e, diciamolo, suscitarono più di uno sghignazzo.
Anche se, occorre dire anche questo, l’infortunio del 24 gennaio 1860 non distolse l’Eroe dei Due Mondi dall’organizzare in tutti i suoi dettagli un’ impresa memorabile, come quella dei Mille, che prese il largo il 5 maggio dello stesso anno, solo un centinaio di giorni dopo il fattaccio.
Un’ulteriore prova che fra le sue tante virtù Garibaldi aveva anche quella di saper tener distinte, e padroneggiare, in questo, come in altri casi, le questioni di lotta da quelle di letto.
Giovanni Zannini
PERMETTETE CHE MI PRESENTI
Sono un pubblicista iscritto dal 1990 all’Albo dei Giornalisti del Veneto. Andato in quiescenza da dirigente della compagnia di assicurazioni RAS (Riunione Adriatica di Sicurtà oggi “Allianz”) nel 1988, da tale data ho iniziato la collaborazione - tuttora in corso con reciproca soddisfazione - con il settimanale della Diocesi di Padova “La Difesa del Popolo”. Dal momento che non tutta la mia produzione può interessare la linea editoriale del settimanale predetto, l’ho dirottata anche verso altre testate fra cui il quotidiano “Avvenire”, ma ne permane tuttora a mie mani una parte inedita. Mi considero un “informatore” che intende esporre argomenti poco o nulla trattati dalla storia e dalla politica, ed ignoti ai più. Oltre a ciò sono autore di due libri:”Galileo Ferraris – Una grande mente, un grande cuore”, biografia del famoso scienziato italiano, e “Adamo Ferraris – Il medico di Garibaldi”, il fratello di Galileo che fu garibaldino e medic o di Garibaldi. Infine, sono autore di racconti anche umoristici pubblicati e premiati in alcuni concorsi letterari. Indico qui di seguito il titolo di alcuni recenti articoli di argomento storico ed un breve cenno sul loro contenuto:
OPERAZIONE JUBILEE – Il dimenticato sfortunato raid alleato anfibio del 19 agosto 1942 su Dieppe che ha preceduto la successiva operazione OVERLORD, lo sbarco degli alleati in Normandia del 6 giugno 1944
LA PREDA SFUMATA – La mancata conquista alleata del Dodecanneso dopo l’8 settembre 1943
LA BRIGATA EBRAICA – DA VITTIME A CARNEFICI = Le tremende vendette dei militari della Brigata Ebraica inquadrata nelle forze alleate nella 2° guerra mondiale
SOMMERGIBILI PORTAEREI GIAPPONESI – Una pericolosa arma che i giapponesi non seppero sfruttare nella 2° guerra mondiale
LA GUERRA SOTTOMARINA NELLA SECONDA GUERRA MONDIALE – Lupi tedeschi e garibaldini italiani: due diverse tecniche di combattimento dei sommergibilisti tedeschi e di quelli italiani
I SOMMERGIBILI “CARGO” NELLA SECONDA GUERRA MONDIALE - Un singolare mezzo di trasporto navale nella 2° guerra mondiale
SOMMERGIBILISTI ITALIANI PRIGIONIERI DEI GIAPPONESI NELLA SECONDA GUERRA MONDIALE – L’avventura del Guardiamarina veneziano Fabio Fabbrani imbarcato sul sommergibile-cargo “Cappellini”
QUANDO MUSSOLINI SI COSTRUI’ L’OPPOSIZIONE – La mutata opinione di Mussolini sull’opposizione in politica
LA FARSA DEL “NON INTERVENTO” NELLA GUERRA CIVILE SPAGNOLA – L’inutile tentativo della “Società delle Nazioni” di por fine alla guerra civile spagnola.
I MARTIRI DELLA “EUSKAL HERRIA” - 14 SACERDOTI BASCHI FATTI FUCILARE DA FRANCISCO FRANCO – Il perché di un episodio sconcertante
ARMI SI, MA PAGAMENTO SULL’UNGHIA E ANTICIPATO = Le forniture militari dell’URSS ai compagni comunisti spagnoli nella guerra civile
FRANCISCO FRANCO E D IL PRIMO PONTE AEREO DELLA STORIA = Il passaggio dello Stretto di Gibilterra da parte dell’esercito di Franco nella guerra civile spagnola
ALBERTO CAVALLETTO GARIBALDINO PADOVANO LEGITTIMISTA – Un personaggio che alla fine dissentì da Garibaldi
LA STRAGE DI THIENE – La vendetta dei partigiani comunisti contro la “Brigata Nera Capanni” - comandata da Giulio Bedeschi, autore del “best-seller” “Centomila gavette di ghiaccio” - che negli ultimi mesi della guerra si era trasferita da Forlì a Thiene.
NASCE DAI MOSCHETTI DEI CARRISTI LA RESISTENZA SUL GRAPPA – Un’inedita ricostruzione della guerra partigiana in Veneto
IL GRANATIERE VOLANTE – La storia del tenente dei granatieri Arturo Zannini, nato a Borso del Grappa (e mio padre), che dopo aver combattuto sul Carso entrò a far parte della nascente Arma Aeronautica italiana
UN SINGOLARE ELOGIO DI ADOLF HITLER SUL CELIBATO DEI PRETI E SULLE VIRTU’ RIPRODUTTIVE DEI NEGRI – Una sensazionale scoperta leggendo il “Mein Kampf”
- -------------- -
Indico anche un parziale elenco di articoli apparsi sulla Rivista CAMICIA ROSSA (organo della “Ass.ne Naz.le Veterani e Reduci Garibaldini”) che potranno eventualmente essere rilanciati in questo periodo di rievocazioni risorgimentali.
I SAVOIA CONTRO GARIBALDI – LA RITIRATA DI GARIBALDI IN FRANCIA – GARIBALDI PRIGIONIERO INQUIETO – GUERRA E AMORE DI GARIBALDI IN SUDAMERICA – PRETI GARIBALDINI – L’APPPRENDISTATO MILITARE DI GARIBALDI IN SUDAMERICA – LA RELIGIOSITA’ DI GARIBALDI – GARIBALDI, GARIBALDINI E DUELLI – IL “NO” DI GARIBALDI A LINCOLN – VOLONTARI GARIBALDINI NELLA “CAMPAGNA DELL’AGRO ROMANO” DEL 1867.
Dr. Giovanni Zannini – Via Ferri n.6 – 35126 – Padova – TLFAX 049/757890 – E.Mail: g.zannini_@libero.it
OPERAZIONE JUBILEE – Il dimenticato sfortunato raid alleato anfibio del 19 agosto 1942 su Dieppe che ha preceduto la successiva operazione OVERLORD, lo sbarco degli alleati in Normandia del 6 giugno 1944
LA PREDA SFUMATA – La mancata conquista alleata del Dodecanneso dopo l’8 settembre 1943
LA BRIGATA EBRAICA – DA VITTIME A CARNEFICI = Le tremende vendette dei militari della Brigata Ebraica inquadrata nelle forze alleate nella 2° guerra mondiale
SOMMERGIBILI PORTAEREI GIAPPONESI – Una pericolosa arma che i giapponesi non seppero sfruttare nella 2° guerra mondiale
LA GUERRA SOTTOMARINA NELLA SECONDA GUERRA MONDIALE – Lupi tedeschi e garibaldini italiani: due diverse tecniche di combattimento dei sommergibilisti tedeschi e di quelli italiani
I SOMMERGIBILI “CARGO” NELLA SECONDA GUERRA MONDIALE - Un singolare mezzo di trasporto navale nella 2° guerra mondiale
SOMMERGIBILISTI ITALIANI PRIGIONIERI DEI GIAPPONESI NELLA SECONDA GUERRA MONDIALE – L’avventura del Guardiamarina veneziano Fabio Fabbrani imbarcato sul sommergibile-cargo “Cappellini”
QUANDO MUSSOLINI SI COSTRUI’ L’OPPOSIZIONE – La mutata opinione di Mussolini sull’opposizione in politica
LA FARSA DEL “NON INTERVENTO” NELLA GUERRA CIVILE SPAGNOLA – L’inutile tentativo della “Società delle Nazioni” di por fine alla guerra civile spagnola.
I MARTIRI DELLA “EUSKAL HERRIA” - 14 SACERDOTI BASCHI FATTI FUCILARE DA FRANCISCO FRANCO – Il perché di un episodio sconcertante
ARMI SI, MA PAGAMENTO SULL’UNGHIA E ANTICIPATO = Le forniture militari dell’URSS ai compagni comunisti spagnoli nella guerra civile
FRANCISCO FRANCO E D IL PRIMO PONTE AEREO DELLA STORIA = Il passaggio dello Stretto di Gibilterra da parte dell’esercito di Franco nella guerra civile spagnola
ALBERTO CAVALLETTO GARIBALDINO PADOVANO LEGITTIMISTA – Un personaggio che alla fine dissentì da Garibaldi
LA STRAGE DI THIENE – La vendetta dei partigiani comunisti contro la “Brigata Nera Capanni” - comandata da Giulio Bedeschi, autore del “best-seller” “Centomila gavette di ghiaccio” - che negli ultimi mesi della guerra si era trasferita da Forlì a Thiene.
NASCE DAI MOSCHETTI DEI CARRISTI LA RESISTENZA SUL GRAPPA – Un’inedita ricostruzione della guerra partigiana in Veneto
IL GRANATIERE VOLANTE – La storia del tenente dei granatieri Arturo Zannini, nato a Borso del Grappa (e mio padre), che dopo aver combattuto sul Carso entrò a far parte della nascente Arma Aeronautica italiana
UN SINGOLARE ELOGIO DI ADOLF HITLER SUL CELIBATO DEI PRETI E SULLE VIRTU’ RIPRODUTTIVE DEI NEGRI – Una sensazionale scoperta leggendo il “Mein Kampf”
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Indico anche un parziale elenco di articoli apparsi sulla Rivista CAMICIA ROSSA (organo della “Ass.ne Naz.le Veterani e Reduci Garibaldini”) che potranno eventualmente essere rilanciati in questo periodo di rievocazioni risorgimentali.
I SAVOIA CONTRO GARIBALDI – LA RITIRATA DI GARIBALDI IN FRANCIA – GARIBALDI PRIGIONIERO INQUIETO – GUERRA E AMORE DI GARIBALDI IN SUDAMERICA – PRETI GARIBALDINI – L’APPPRENDISTATO MILITARE DI GARIBALDI IN SUDAMERICA – LA RELIGIOSITA’ DI GARIBALDI – GARIBALDI, GARIBALDINI E DUELLI – IL “NO” DI GARIBALDI A LINCOLN – VOLONTARI GARIBALDINI NELLA “CAMPAGNA DELL’AGRO ROMANO” DEL 1867.
Dr. Giovanni Zannini – Via Ferri n.6 – 35126 – Padova – TLFAX 049/757890 – E.Mail: g.zannini_@libero.it
IL PROCESSO REPUBBLICHINO DI VERONA OBBROBRIO GIURIDICO
Si ritiene generalmente che la sentenza di condanna emessa il 10 gennaio 1944 dal Tribunale Speciale Straordinario istituito il 13 ottobre 1943 dal governo della neonata Repubblica Sociale Italiana, contro i 19 membri del Gran Consiglio del Fascismo che parteciparono alla storica seduta del 24-25 luglio 1943, sia stata motivata dall'aver essi votato l'ordine del giorno Grandi che, in pratica, sfiduciava Benito Mussolini: ma tale convinzione non regge ad una più attenta lettura della sentenza.
Pur animati da spirito di vendetta e scevri da ogni scrupolo di natura giuridica, i fascisti della nuova Repubblica Sociale Italiana si resero infatti conto che nessuna imputazione poteva essere elevata a carico degli imputati per aver votato quell’ordine del giorno dal momento che il Regolamento interno del Gran Consiglio del Fascismo dallo stesso approvato all’unanimità nella II riunione della XXX sessione del 9 aprile 1929, segretato, così come lo erano le sue sedute ( e portato alla luce, anche su mio interessamento, da una ricerca del dott. Federico Pommier Vincelli del settore Informazioni Bibliografiche della biblioteca del Senato della Repubblica) regolava diffusamente il diritto di voto dei consiglieri.
Dalla lettura di questo documento emerge che all’interno del massimo consesso del regime fascista sopravviveva un cascame di democrazia sia pure potenzialmente invalidata dall’art.2 del Regolamento stesso che riservava al duce un vero e proprio diritto di veto perchè “ Il Capo del Governo Presidente del Gran Consiglio ha facoltà d’interrompere in ogni momento la discussione su qualsiasi questione e di sospendere la esecuzione delle deliberazioni del Gran Consiglio”.
Le altre norme sulle votazioni sono contenute nel paragrafo “Delle adunanze” ove all’art.14 si legge che “Spetta al Capo del Governo Presidente dichiarare chiusa la discussione, proporre l’Ordine del Giorno e metterlo ai voti”.
L’art.15 afferma che “Il Gran Consiglio delibera per alzata e seduta, per appello nominale e per scrutinio segreto”.
L’art.16 prevede una procedura originale:” Per il voto per appello nominale il Capo del Governo Presidente indica il significato del “si” e del “no” e designa il membro del Gran Consiglio dal quale l’appello nominale deve cominciare. L’appello viene continuato dal membro designato dal Presidente fino all’ultimo nome dell’alfabeto e ripreso con la prima lettera del medesimo fino al nome del membro designato dal Presidente”, concludendo che “Il segretario tiene nota dei voti; il Presidente ne proclama il risultato”.
Per lo scrutinio segreto l’art.17 prescrive che “il voto avvenga mediante il sistema delle due palle, una bianca ed una nera da deporsi nelle urne dopo che il Presidente abbia avvertito sul significato del voto”.
Non è chi non veda, a questo punto, l’impossibilità, anche per il fascista più scalmanato, di considerare colpa l’aver espresso il proprio voto su di un ordine del giorno che il 23 luglio era stato sottoposto a Mussolini il quale, pur criticandolo, lo aveva posto in votazione il giorno dopo.
Fu allora giocoforza “inventare” un nuovo reato che potesse dare una qualche giustificazione per punire i 19 votanti a favore dell’Ordine del Giorno Grandi: ed ecco che con Decreto 11 novembre 1943-XXII si istituiva il “Tribunale Speciale Straordinario” avente l’unico scopo di “…giudicare i fascisti che nella seduta del Gran Consiglio del 24 luglio 1943 tradirono l’idea rivoluzionaria…e con il voto del Gran Consiglio offrirono al re il pretesto per il colpo di stato”.
Ecco dunque scovato, dalle disinvolte menti dei giuristi saloini il reato giusto per l’occasione (per non dire “d’occasione”): IL TRADIMENTO DELL’IDEA.
Gli imputati furono dunque condannati non per aver votato l’O.d.G. Grandi, ma per aver tradito l’idea: il voto era stato solo l’arma con cui il tradimento era stato consumato.
E la sentenza di condanna 10 gennaio 1944 fa riferimento agli articoli 1 lett.A, 4 e 7 del Decreto 11 novembre 1943 che introduceva quel reato nuovo di zecca: appunto, il “tradimento dell’idea”.
Un presunto reato che non esisteva al momento in cui sarebbe stato commesso e, in più, con effetto retroattivo.
Le pagine da 172 a 207 del libro “Il processo di Verona” di Gian Franco Venè (Arnoldo Mondadori Editore - I edizione aprile 1963) che riportano il testo della lunga sentenza emessa dal Tribunale Speciale Straordinario per motivare la condanna emessa “nella causa penale di rito sommario”, attestano l’aperta violazione della civiltà giuridica italiana consumata dai suoi 9 membri, tutti di provata fede fascista.
A conferma, una citazione : fra le colpe degli imputati, anche quella di aver diffuso “la malsana aspirazione alla pace”.
Un’affermazione che, da sola, merita, quella si, condanna e sdegno.
Giovanni Zannini
Pur animati da spirito di vendetta e scevri da ogni scrupolo di natura giuridica, i fascisti della nuova Repubblica Sociale Italiana si resero infatti conto che nessuna imputazione poteva essere elevata a carico degli imputati per aver votato quell’ordine del giorno dal momento che il Regolamento interno del Gran Consiglio del Fascismo dallo stesso approvato all’unanimità nella II riunione della XXX sessione del 9 aprile 1929, segretato, così come lo erano le sue sedute ( e portato alla luce, anche su mio interessamento, da una ricerca del dott. Federico Pommier Vincelli del settore Informazioni Bibliografiche della biblioteca del Senato della Repubblica) regolava diffusamente il diritto di voto dei consiglieri.
Dalla lettura di questo documento emerge che all’interno del massimo consesso del regime fascista sopravviveva un cascame di democrazia sia pure potenzialmente invalidata dall’art.2 del Regolamento stesso che riservava al duce un vero e proprio diritto di veto perchè “ Il Capo del Governo Presidente del Gran Consiglio ha facoltà d’interrompere in ogni momento la discussione su qualsiasi questione e di sospendere la esecuzione delle deliberazioni del Gran Consiglio”.
Le altre norme sulle votazioni sono contenute nel paragrafo “Delle adunanze” ove all’art.14 si legge che “Spetta al Capo del Governo Presidente dichiarare chiusa la discussione, proporre l’Ordine del Giorno e metterlo ai voti”.
L’art.15 afferma che “Il Gran Consiglio delibera per alzata e seduta, per appello nominale e per scrutinio segreto”.
L’art.16 prevede una procedura originale:” Per il voto per appello nominale il Capo del Governo Presidente indica il significato del “si” e del “no” e designa il membro del Gran Consiglio dal quale l’appello nominale deve cominciare. L’appello viene continuato dal membro designato dal Presidente fino all’ultimo nome dell’alfabeto e ripreso con la prima lettera del medesimo fino al nome del membro designato dal Presidente”, concludendo che “Il segretario tiene nota dei voti; il Presidente ne proclama il risultato”.
Per lo scrutinio segreto l’art.17 prescrive che “il voto avvenga mediante il sistema delle due palle, una bianca ed una nera da deporsi nelle urne dopo che il Presidente abbia avvertito sul significato del voto”.
Non è chi non veda, a questo punto, l’impossibilità, anche per il fascista più scalmanato, di considerare colpa l’aver espresso il proprio voto su di un ordine del giorno che il 23 luglio era stato sottoposto a Mussolini il quale, pur criticandolo, lo aveva posto in votazione il giorno dopo.
Fu allora giocoforza “inventare” un nuovo reato che potesse dare una qualche giustificazione per punire i 19 votanti a favore dell’Ordine del Giorno Grandi: ed ecco che con Decreto 11 novembre 1943-XXII si istituiva il “Tribunale Speciale Straordinario” avente l’unico scopo di “…giudicare i fascisti che nella seduta del Gran Consiglio del 24 luglio 1943 tradirono l’idea rivoluzionaria…e con il voto del Gran Consiglio offrirono al re il pretesto per il colpo di stato”.
Ecco dunque scovato, dalle disinvolte menti dei giuristi saloini il reato giusto per l’occasione (per non dire “d’occasione”): IL TRADIMENTO DELL’IDEA.
Gli imputati furono dunque condannati non per aver votato l’O.d.G. Grandi, ma per aver tradito l’idea: il voto era stato solo l’arma con cui il tradimento era stato consumato.
E la sentenza di condanna 10 gennaio 1944 fa riferimento agli articoli 1 lett.A, 4 e 7 del Decreto 11 novembre 1943 che introduceva quel reato nuovo di zecca: appunto, il “tradimento dell’idea”.
Un presunto reato che non esisteva al momento in cui sarebbe stato commesso e, in più, con effetto retroattivo.
Le pagine da 172 a 207 del libro “Il processo di Verona” di Gian Franco Venè (Arnoldo Mondadori Editore - I edizione aprile 1963) che riportano il testo della lunga sentenza emessa dal Tribunale Speciale Straordinario per motivare la condanna emessa “nella causa penale di rito sommario”, attestano l’aperta violazione della civiltà giuridica italiana consumata dai suoi 9 membri, tutti di provata fede fascista.
A conferma, una citazione : fra le colpe degli imputati, anche quella di aver diffuso “la malsana aspirazione alla pace”.
Un’affermazione che, da sola, merita, quella si, condanna e sdegno.
Giovanni Zannini
giovedì 3 novembre 2011
Preti baschi fucilati da Francisco Franco - I MARTIRI DELLA "EUSKAL HERRIA"
Nella storia della guerra civile spagnola iniziata nel luglio 1936
della quale si commemora dunque quest’anno il 70° anniversario, crea sconcerto e scandalo la fucilazione di 14 sacerdoti avvenuta a Vitoria, capitale dei Paesi Baschi, alla fine dell’ ottobre 1937 da parte dei nazionalisti del generale Francisco Franco.
Per comprendere le cause che portarono a tale sconcertante episodio occorre brevemente esaminare le vicende politiche spagnole dal 1931 al 1936 contrassegnate da un singolare “pendolo” che vide, in quegli anni turbolenti, la sinistra e la destra conquistare alternativamente il potere in Spagna.
Le elezioni del 1931 avevano visto la vittoria della sinistra (socialisti e repubblicani) e la nascita - nell’aprile dello stesso anno, dopo il volontario esilio del regnante Alfonso XIII - della 2a Repubblica Spagnola (la 1°, proclamata l’11 febbraio 1873 subito dopo l’abdicazione del re Amedeo di Savoia duca d’Aosta ebbe una vita effimera che si concluse con il ritorno sul trono spagnolo, nel 1874, di Alfonso XII, padre di Alfonso XIII).
Il programma della coalizione vincente prevedeva, accanto a quelle di natura sociale a favore delle classi più povere, anche riforme costituzionali con la concessione di autonomie alle regioni che da tempo le rivendicavano: per cui la nuova costituzione repubblicana approvata il 9 dicembre 1931 concesse ampi poteri amministrativi alla Catalogna, ai Paesi Baschi ed alla Galizia ottenendo in tal modo il favore di tali popolazioni, clero compreso, verso la sinistra.
Ma tale riforma venne aspramente criticata dagli ambienti conservatori e, soprattutto, militari, che vi vedevano un pericoloso attacco alla sacra unità della patria spagnola ed all’autorità dello stato centrale, argomenti, questi, cavalcati con enfasi dalla destra.
Cosicché quando tornò al potere con le elezioni del 1933 essa, per combattere l’asserita “ribellione separatista” si affrettò a smantellare le predette riforme, attirandosi in tal modo l’ostilità ed il profondo risentimento delle regioni beneficiate dalla sinistra che insorsero contro il nuovo governo centrale di destra.
Lluis Companys capo degli autonomisti catalani proclamò, da Barcellona, l’indipendenza dello “Stato della Catalogna” entro l’auspicata Repubblica Federale di Spagna; e solo un graduale rientro nei ranghi dello stesso Companys resosi conto dell’imminente pericolo, evitò il verificarsi di una carneficina che il generale Franco, braccio armato del governo centrale, non avrebbe, in caso contrario, esitato a compiere.
Nei Paesi Baschi il popolo insorse spontaneamente ma alla fine, armato solo della dinamite delle miniere asturiane, dovette soccombere di fronte alla crudele reazione dello stesso generale Franco che con le sue truppe marocchine – i feroci “moros” – ed i legionari della Legione Straniera - il “Tercio de Extranjeros” – commise atrocità nefande.
Da quanto sopra emerge chiaramente - circostanza non sempre ben esplicitata – che l’insurrezione di Franco contro il legittimo governo uscito dalle urne del febbraio 1936 ebbe lo scopo di combattere non solo il comunismo rivoluzionario, ma pure il “separatismo” regionale considerato dai monarchici e dai militari un gravissimo attentato all’unità della patria spagnola.
Grave fu il rifiuto di Franco – “Nulla va concesso al nemico” - al consiglio di trovare una qualche intesa con i baschi pervenutogli, su ispirazione del Vaticano, dal Cardinale Isidro Gomà, Primate di Spagna.
E sua fu dunque la responsabilità di aver gettato Catalogna, Paesi Baschi e Galizia, regioni benestanti - rispetto al resto della Spagna - e cattoliche, nelle braccia della sinistra rivoluzionaria ed anticlericale.
Le rivolte autonomistiche ed i disordini che montavano in tutto il paese, furono i motivi che indussero il governo di destra ad indire nuove elezioni nel febbraio 1936 sperando – ma le speranze andarono, come si vedrà, deluse - in un esito elettorale che ne rafforzasse il potere.
Ancora una volta il pendolo elettorale oscillò e dalle urne emerse vittorioso il “Fronte popolare della sinistra unita” che restituì a Catalogna, Paesi Baschi e Galizia le autonomie soppresse dal precedente governo, ma che non riuscì a contrastare ripetute, gravissime violenze ed atti vandalici come reazione alla destra che aveva governato nei due anni precedenti definiti dai vincitori il “bienio negro”.
Il generale Francisco Franco trovò una giustificazione al suo ”alzamiento” del 17/18 luglio 1936 nell’incapacità del legittimo governo della sinistra di contrastare le spinte anarcoidi ed il caos provocato dalle sue frange estreme, perdendo così l’occasione storica di governare il paese con criteri di giustizia sociale in un ordinato regime di libertà.
Nella guerra civile che ne seguì si verificò una situazione analoga a quella di liberazione italiana del 43/45 allorchè molti partigiani cattolici – pur non condividendo la loro ideologia – si trovarono a combattere assieme ai comunisti uniti nella lotta per liberare l’Italia dai nazifascisti.
Allo stesso modo i baschi, con l’appoggio di molti loro sacerdoti, si trovarono a combattere fianco a fianco con comunisti ed anarchici contro Franco ma con un fine diverso: la strenua difesa dell’autonomia regionale basca, non già la vittoria del comunismo in Spagna.
A conferma, il favore del clero basco per la lotta autonomista contro il generale Franco è dimostrata dal fatto che proprio un sacerdote - padre Alberto de Onaindìa - ebbe durante la guerra civile spagnola l’incarico di agente diplomatico delle province basche a Parigi.
Inoltre, gli unici a non firmare una lettera collettiva con cui la gerarchia cattolica plaudeva all’”alziamento” di Franco, furono proprio il cardinale Francisco Vidal y Barraquer arcivescovo di Tarragona in Catalogna, e mons. Mateo Magica, vescovo di Vitoria, capitale delle Province Basche.
Del resto, ancor oggi molta parte del clero basco appoggia le istanze indipendentiste della regione: ed il fermo, avvenuto tempo fa da parte della polizia di due monaci benedettini con l’accusa, infondata, di essere favorevoli all’organizzazione terroristica dell’ETA (in realtà essi appoggiavano le istanze dell’ETA alle istituzioni europee affinché premano sul governo spagnolo per un’uscita negoziale dal conflitto) ne è un sintomo evidente.
Fu dunque la profonda ostilità contro il regionalismo basco a prevalere sul sentimento religioso del generale Franco che non esitò, in nome del mito dell’unità della patria spagnola, ad ordinare, dopo la caduta di Bilbao in mano nazionalista la fucilazione di 14 sacerdoti baschi rei non già di essere comunisti, ma di appoggiare la propria gente nella realizzazione di un sogno antico: l’autonomia della “Euskal Herria”, la patria basca.
Ma singolare - e triste – è il destino di quei 14 sacerdoti.
Mentre Giovanni Paolo II ha proclamato beati 250 martiri della guerra civile spagnola che hanno dato la vita a causa dell’odio dei repubblicani verso la religione cattolica – e altri processi di beatificazione sono ancora aperti – difficilmente pari onore toccherà ai 14 fucilati da Franco perché essi non si sacrificarono per la loro fede, ma per la militanza attiva nel movimento indipendentista basco ferocemente osteggiato dai nazionalisti spagnoli del generale Franco.
“Martiri” della patria basca, dunque, non “Martiri” della Chiesa Cattolica, per cui molto difficilmente coloro che ne esaltano il sacrificio saranno in grado di farli ascendere alla gloria degli altari.
Giovanni Zannini
della quale si commemora dunque quest’anno il 70° anniversario, crea sconcerto e scandalo la fucilazione di 14 sacerdoti avvenuta a Vitoria, capitale dei Paesi Baschi, alla fine dell’ ottobre 1937 da parte dei nazionalisti del generale Francisco Franco.
Per comprendere le cause che portarono a tale sconcertante episodio occorre brevemente esaminare le vicende politiche spagnole dal 1931 al 1936 contrassegnate da un singolare “pendolo” che vide, in quegli anni turbolenti, la sinistra e la destra conquistare alternativamente il potere in Spagna.
Le elezioni del 1931 avevano visto la vittoria della sinistra (socialisti e repubblicani) e la nascita - nell’aprile dello stesso anno, dopo il volontario esilio del regnante Alfonso XIII - della 2a Repubblica Spagnola (la 1°, proclamata l’11 febbraio 1873 subito dopo l’abdicazione del re Amedeo di Savoia duca d’Aosta ebbe una vita effimera che si concluse con il ritorno sul trono spagnolo, nel 1874, di Alfonso XII, padre di Alfonso XIII).
Il programma della coalizione vincente prevedeva, accanto a quelle di natura sociale a favore delle classi più povere, anche riforme costituzionali con la concessione di autonomie alle regioni che da tempo le rivendicavano: per cui la nuova costituzione repubblicana approvata il 9 dicembre 1931 concesse ampi poteri amministrativi alla Catalogna, ai Paesi Baschi ed alla Galizia ottenendo in tal modo il favore di tali popolazioni, clero compreso, verso la sinistra.
Ma tale riforma venne aspramente criticata dagli ambienti conservatori e, soprattutto, militari, che vi vedevano un pericoloso attacco alla sacra unità della patria spagnola ed all’autorità dello stato centrale, argomenti, questi, cavalcati con enfasi dalla destra.
Cosicché quando tornò al potere con le elezioni del 1933 essa, per combattere l’asserita “ribellione separatista” si affrettò a smantellare le predette riforme, attirandosi in tal modo l’ostilità ed il profondo risentimento delle regioni beneficiate dalla sinistra che insorsero contro il nuovo governo centrale di destra.
Lluis Companys capo degli autonomisti catalani proclamò, da Barcellona, l’indipendenza dello “Stato della Catalogna” entro l’auspicata Repubblica Federale di Spagna; e solo un graduale rientro nei ranghi dello stesso Companys resosi conto dell’imminente pericolo, evitò il verificarsi di una carneficina che il generale Franco, braccio armato del governo centrale, non avrebbe, in caso contrario, esitato a compiere.
Nei Paesi Baschi il popolo insorse spontaneamente ma alla fine, armato solo della dinamite delle miniere asturiane, dovette soccombere di fronte alla crudele reazione dello stesso generale Franco che con le sue truppe marocchine – i feroci “moros” – ed i legionari della Legione Straniera - il “Tercio de Extranjeros” – commise atrocità nefande.
Da quanto sopra emerge chiaramente - circostanza non sempre ben esplicitata – che l’insurrezione di Franco contro il legittimo governo uscito dalle urne del febbraio 1936 ebbe lo scopo di combattere non solo il comunismo rivoluzionario, ma pure il “separatismo” regionale considerato dai monarchici e dai militari un gravissimo attentato all’unità della patria spagnola.
Grave fu il rifiuto di Franco – “Nulla va concesso al nemico” - al consiglio di trovare una qualche intesa con i baschi pervenutogli, su ispirazione del Vaticano, dal Cardinale Isidro Gomà, Primate di Spagna.
E sua fu dunque la responsabilità di aver gettato Catalogna, Paesi Baschi e Galizia, regioni benestanti - rispetto al resto della Spagna - e cattoliche, nelle braccia della sinistra rivoluzionaria ed anticlericale.
Le rivolte autonomistiche ed i disordini che montavano in tutto il paese, furono i motivi che indussero il governo di destra ad indire nuove elezioni nel febbraio 1936 sperando – ma le speranze andarono, come si vedrà, deluse - in un esito elettorale che ne rafforzasse il potere.
Ancora una volta il pendolo elettorale oscillò e dalle urne emerse vittorioso il “Fronte popolare della sinistra unita” che restituì a Catalogna, Paesi Baschi e Galizia le autonomie soppresse dal precedente governo, ma che non riuscì a contrastare ripetute, gravissime violenze ed atti vandalici come reazione alla destra che aveva governato nei due anni precedenti definiti dai vincitori il “bienio negro”.
Il generale Francisco Franco trovò una giustificazione al suo ”alzamiento” del 17/18 luglio 1936 nell’incapacità del legittimo governo della sinistra di contrastare le spinte anarcoidi ed il caos provocato dalle sue frange estreme, perdendo così l’occasione storica di governare il paese con criteri di giustizia sociale in un ordinato regime di libertà.
Nella guerra civile che ne seguì si verificò una situazione analoga a quella di liberazione italiana del 43/45 allorchè molti partigiani cattolici – pur non condividendo la loro ideologia – si trovarono a combattere assieme ai comunisti uniti nella lotta per liberare l’Italia dai nazifascisti.
Allo stesso modo i baschi, con l’appoggio di molti loro sacerdoti, si trovarono a combattere fianco a fianco con comunisti ed anarchici contro Franco ma con un fine diverso: la strenua difesa dell’autonomia regionale basca, non già la vittoria del comunismo in Spagna.
A conferma, il favore del clero basco per la lotta autonomista contro il generale Franco è dimostrata dal fatto che proprio un sacerdote - padre Alberto de Onaindìa - ebbe durante la guerra civile spagnola l’incarico di agente diplomatico delle province basche a Parigi.
Inoltre, gli unici a non firmare una lettera collettiva con cui la gerarchia cattolica plaudeva all’”alziamento” di Franco, furono proprio il cardinale Francisco Vidal y Barraquer arcivescovo di Tarragona in Catalogna, e mons. Mateo Magica, vescovo di Vitoria, capitale delle Province Basche.
Del resto, ancor oggi molta parte del clero basco appoggia le istanze indipendentiste della regione: ed il fermo, avvenuto tempo fa da parte della polizia di due monaci benedettini con l’accusa, infondata, di essere favorevoli all’organizzazione terroristica dell’ETA (in realtà essi appoggiavano le istanze dell’ETA alle istituzioni europee affinché premano sul governo spagnolo per un’uscita negoziale dal conflitto) ne è un sintomo evidente.
Fu dunque la profonda ostilità contro il regionalismo basco a prevalere sul sentimento religioso del generale Franco che non esitò, in nome del mito dell’unità della patria spagnola, ad ordinare, dopo la caduta di Bilbao in mano nazionalista la fucilazione di 14 sacerdoti baschi rei non già di essere comunisti, ma di appoggiare la propria gente nella realizzazione di un sogno antico: l’autonomia della “Euskal Herria”, la patria basca.
Ma singolare - e triste – è il destino di quei 14 sacerdoti.
Mentre Giovanni Paolo II ha proclamato beati 250 martiri della guerra civile spagnola che hanno dato la vita a causa dell’odio dei repubblicani verso la religione cattolica – e altri processi di beatificazione sono ancora aperti – difficilmente pari onore toccherà ai 14 fucilati da Franco perché essi non si sacrificarono per la loro fede, ma per la militanza attiva nel movimento indipendentista basco ferocemente osteggiato dai nazionalisti spagnoli del generale Franco.
“Martiri” della patria basca, dunque, non “Martiri” della Chiesa Cattolica, per cui molto difficilmente coloro che ne esaltano il sacrificio saranno in grado di farli ascendere alla gloria degli altari.
Giovanni Zannini