Pubblicato su "INFORMAZIONI DELLA DIFESA" - Periodico dello Stato Maggiore della Difesa n.2/2011
La “mappa” della prigionia italiana nella 2° guerra mondiale è, purtroppo, assai variegata e tocca molte nazioni fra cui principalmente la Germania, la Russia, gli Stati Uniti, l’India, il Canada, l’Australia ed il Kenia.
Pochi, però, ricordano che vi furono anche militari italiani prigionieri dei giapponesi, racchiusi in campi di concentramento in condizioni penosissime.
Il Guardiamarina Fabio Fabbrani, avvocato veneziano, ufficiale sommergibilista della Marina Militare Italiana, deceduto pochi anni fa, fu testimone di quella drammatica esperienza documentata dalle carte gelosamente custodite dal figlio Avv. Michele.
Imbarcato sul sottomarino “Giuliani” come ufficiale di rotta era giunto in estremo oriente nell’ambito del programma studiato da italiani, tedeschi e giapponesi per consentire - nell’ambito della triplice alleanza Roma-Berlino-Tokio – i collegamenti fra Europa e Giappone per via subacquea data la pratica difficoltà di effettuarli con naviglio di superfice o per via aerea.
A tal fine furono utilizzati alcuni sommergibili da combattimento italiani - fra cui il “Giuliani” - di stanza nella base “Betasom” di Bordeaux, giudicati dai tedeschi poco idonei alla guerra sottomarina in Atlantico e che vennero, per questo, trasformati in originali mezzi subacquei da trasporto, circostanza, questa, poco nota ai più.
Il “Giuliani”, giunto da Bordeaux nella base giapponese di Danang presso Singapore nei primi giorni di settembre 1943 fu accolto con grandi manifestazioni d’amicizia da parte degli alleati nipponici ammirati per l’impresa portata a termine in due mesi dopo una difficilissima navigazione di oltre 13.000 miglia attraverso due Oceani, l’Atlantico e l’Indiano, sfuggendo ad un nemico forte ed agguerrito.
Il banchetto (nella foto Fabbrani è il terzo da destra, di profilo) in loro onore nella sede del circolo ufficiali giapponese pavesato col tricolore (con stemma sabaudo), la bandiera del Sol Levante e quella nazista con svastica, alla presenza di alti gradi della marina militare nipponica, e allietato da un’orchestrina, fu sontuoso con numerosi e brillanti reciproci brindisi inneggianti alla vittoria dell’alleanza fra Roma, Berlino e Tokio.
Ma dopo pochi giorni, all’indomani dell’armistizio firmato l’8 settembre 1943 fra l’Italia e gli Alleati, l’intero equipaggio del “Giuliani” , tacciato di tradimento, venne rinchiuso senza alcun riguardo e sottoposto ad un duro trattamento in un campo di prigionia ove già si trovava, con il suo comandante Walter Auconi, l’equipaggio del “Cappellini” (pur esso trasformato in “cargo”) arrivato a Singapore nel mese di luglio.
Analoga sorte toccò al comandante ed all’equipaggio di un altro sommergibile da trasporto italiano, il “Torelli”, che aveva raggiunto Singapore poco prima del fatidico armistizio.
Il Guardiamarina Fabbrani, a seguito della lunga prigionia e degli stenti conseguenti fu ridotto in fin di vita e solo le cure prestategli in un ospedale militare americano dopo la sconfitta giapponese gli consentirono di recuperare la salute e di rientrare a Venezia ove esercitò brillantemente per molti anni la professione forense.
Ma vediano come il Comandante Auconi rievoca, nel bel libro di Giulio Raiola “Timoni a salire” (Ed.Mursia 1978) la sua prigionia:”…Cercavo di tener su il morale dei ragazzi, facevo far ginnastica, esercitazioni professionali ecc..Ci organizzammo per procurarci dei viveri perché i giapponesi si erano semplicemente dimenticati di portarci da mangiare: la prima settimana, niente; la seconda un sacchetto di riso, e con l’appetito che c’era… Credevamo che il re fosse ancora pienamente in sella, che avesse in pugno una qualche soluzione, qualcuno diceva che era andato in Sardegna e che da lì ancora si combattesse contro i tedeschi…Ogni mattina facevamo l’alzabandiera, la preghiera del marinaio ed il regolare “Viva il re” prima di rompere i ranghi…”.
Come si vede, i prigionieri non erano al corrente degli avvenimenti succedutisi in Italia dopo l’8 settembre con la nascita della RSI, e non risulta, almeno in questo caso, che i giapponesi facessero pressioni per farli aderire: si trattava, probabilmente, di una questione che non li interessava perché riguardante soprattutto i rapporti italo-tedeschi. Gli italiani erano traditori, e basta.
Auconi ricorda altresì un episodio che, pur nella drammaticità della situazione, ha aspetti decisamente umoristici allorchè, poco dopo il suo arrivo nel campo, viene convocato dal generale comandante.
Questi, indossando il tradizionale chimono, lo riceve molto cerimoniosamente con ripetuti inchini e, certo d’interpretare lo stato di grande abbattimento dell’ufficiale italiano di fronte alla sconfitta, gli illustra il comportamento dei militari giapponesi allorchè ritengano di essere disonorati: harakiri!
E si esibisce in una dotta illustrazione, accompagnata da urli e strepiti rituali, simulando, sciabola da samurai alla mano, i tre tipi di harakiri praticati in Giappone.
Il primo, il più comune, è realizzato da coloro che ritengono di aver perso l’onore: un bel taglio sul basso ventre, lungo e profondo, ed ecco fatto; il secondo, vanto di pochi grandi samurai, prevede che, dopo essersi infilata la sciabola nell’addome, l’uomo la estragga e la infili di nuovo nello squarcio; mentre il terzo, difficilissimo, e fatto fino ad allora solamente da tre grandi valorosi soldati, la suddetta manovra di immersione della sciabola nel ventre, e successiva estrazione, viene effettuata ripetutamente, a ripetizione, cosicchè alla fine dello sbudellamento i visceri sono tutti in bella vista sul pavimento.
Terminata la lezione, l’ufficiale italiano viene congedato ed a sera gli viene recapitata una bellissima sciabola del “Savoia Cavalleria” – capitata chi sa come da quelle parti - , chiaro invito del generale comandante all’ufficiale italiano ad usarla secondo le regole illustrate durante l’interessante dimostrazione del mattino.
Ma Auconi, convinto che non fosse il harakiri il metodo migliore per lasciarci la pelle, e desideroso di tenersela addosso ancora un po’, finse di non capire, ringraziò per l’omaggio ed appese la gloriosa sciabola alla parete della sua baracca accanto alla bandiera del “Cappellini” ed al ritratto del re.
Singolare la fine della prigionia di Auconi e del suo equipaggio imbarcato a forza sulla nave tedesca “Burgenland” camuffata da nave americana con il nome di “Floridian” per essere trasferiti in Europa.
La nave - che doveva ripercorrere la rotta praticata da Auconi all’andata – partita da Singapore il 17 novembre 1943 riuscì, grazie al suo camuffamento, a superare indenne l’Oceano Indiano pullulante di naviglio alleato, a raggiungere il Capo di Buona Speranza, aggirarlo, ed immettersi nell’Oceano Atlantico navigando verso nord per raggiungere la base di Bordeaux. Ma giunta, a Natale, poco lungi dall’isola di Ascensione, venne riconosciuta da un incrociatore nemico ed affondata.
Comincia qui la nuova odissea dei sopravvissuti al naufragio, 24 marinai tedeschi (compreso il comandante della “Burgenland”) e 8 italiani, ex carcerieri ed ex prigionieri accomunati da un comune destino.
A bordo di una scialuppa di salvataggio agli ordini di Auconi che, come ufficiale più anziano, ne ha assunto il comando, i naufraghi, dopo aver percorso a vela ed a remi in 9 giorni le 700 miglia dal punto dell’affondamento, raggiungono in Brasile la base americana di Pernambuco ove vengono internati.
Questa la sorte dei marinai italiani del “Cappellini”, del “Torelli” e del “Giuliani”, i tre sommergibili-cargo che erano riusciti nella memorabile impresa di collegare Bordeaux con Singapore.
Trecento uomini all’incirca che nei campi di prigionia dell’estremo oriente, ignari della sconfitta, avevano continuato a cantare la “Canzone dei sommergibilisti” destinati a “colpir e seppellir ogni nemico che s’incontra sul cammino” e che invece, nonostante il loro eroismo, erano stati mandati ad arenarsi nel mare verde della lontana giungla di Singapore. Giovanni Zannini
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