Nella storia della guerra civile spagnola iniziata nel luglio 1936
della quale si commemora dunque quest’anno il 70° anniversario, crea sconcerto e scandalo la fucilazione di 14 sacerdoti avvenuta a Vitoria, capitale dei Paesi Baschi, alla fine dell’ ottobre 1937 da parte dei nazionalisti del generale Francisco Franco.
Per comprendere le cause che portarono a tale sconcertante episodio occorre brevemente esaminare le vicende politiche spagnole dal 1931 al 1936 contrassegnate da un singolare “pendolo” che vide, in quegli anni turbolenti, la sinistra e la destra conquistare alternativamente il potere in Spagna.
Le elezioni del 1931 avevano visto la vittoria della sinistra (socialisti e repubblicani) e la nascita - nell’aprile dello stesso anno, dopo il volontario esilio del regnante Alfonso XIII - della 2a Repubblica Spagnola (la 1°, proclamata l’11 febbraio 1873 subito dopo l’abdicazione del re Amedeo di Savoia duca d’Aosta ebbe una vita effimera che si concluse con il ritorno sul trono spagnolo, nel 1874, di Alfonso XII, padre di Alfonso XIII).
Il programma della coalizione vincente prevedeva, accanto a quelle di natura sociale a favore delle classi più povere, anche riforme costituzionali con la concessione di autonomie alle regioni che da tempo le rivendicavano: per cui la nuova costituzione repubblicana approvata il 9 dicembre 1931 concesse ampi poteri amministrativi alla Catalogna, ai Paesi Baschi ed alla Galizia ottenendo in tal modo il favore di tali popolazioni, clero compreso, verso la sinistra.
Ma tale riforma venne aspramente criticata dagli ambienti conservatori e, soprattutto, militari, che vi vedevano un pericoloso attacco alla sacra unità della patria spagnola ed all’autorità dello stato centrale, argomenti, questi, cavalcati con enfasi dalla destra.
Cosicché quando tornò al potere con le elezioni del 1933 essa, per combattere l’asserita “ribellione separatista” si affrettò a smantellare le predette riforme, attirandosi in tal modo l’ostilità ed il profondo risentimento delle regioni beneficiate dalla sinistra che insorsero contro il nuovo governo centrale di destra.
Lluis Companys capo degli autonomisti catalani proclamò, da Barcellona, l’indipendenza dello “Stato della Catalogna” entro l’auspicata Repubblica Federale di Spagna; e solo un graduale rientro nei ranghi dello stesso Companys resosi conto dell’imminente pericolo, evitò il verificarsi di una carneficina che il generale Franco, braccio armato del governo centrale, non avrebbe, in caso contrario, esitato a compiere.
Nei Paesi Baschi il popolo insorse spontaneamente ma alla fine, armato solo della dinamite delle miniere asturiane, dovette soccombere di fronte alla crudele reazione dello stesso generale Franco che con le sue truppe marocchine – i feroci “moros” – ed i legionari della Legione Straniera - il “Tercio de Extranjeros” – commise atrocità nefande.
Da quanto sopra emerge chiaramente - circostanza non sempre ben esplicitata – che l’insurrezione di Franco contro il legittimo governo uscito dalle urne del febbraio 1936 ebbe lo scopo di combattere non solo il comunismo rivoluzionario, ma pure il “separatismo” regionale considerato dai monarchici e dai militari un gravissimo attentato all’unità della patria spagnola.
Grave fu il rifiuto di Franco – “Nulla va concesso al nemico” - al consiglio di trovare una qualche intesa con i baschi pervenutogli, su ispirazione del Vaticano, dal Cardinale Isidro Gomà, Primate di Spagna.
E sua fu dunque la responsabilità di aver gettato Catalogna, Paesi Baschi e Galizia, regioni benestanti - rispetto al resto della Spagna - e cattoliche, nelle braccia della sinistra rivoluzionaria ed anticlericale.
Le rivolte autonomistiche ed i disordini che montavano in tutto il paese, furono i motivi che indussero il governo di destra ad indire nuove elezioni nel febbraio 1936 sperando – ma le speranze andarono, come si vedrà, deluse - in un esito elettorale che ne rafforzasse il potere.
Ancora una volta il pendolo elettorale oscillò e dalle urne emerse vittorioso il “Fronte popolare della sinistra unita” che restituì a Catalogna, Paesi Baschi e Galizia le autonomie soppresse dal precedente governo, ma che non riuscì a contrastare ripetute, gravissime violenze ed atti vandalici come reazione alla destra che aveva governato nei due anni precedenti definiti dai vincitori il “bienio negro”.
Il generale Francisco Franco trovò una giustificazione al suo ”alzamiento” del 17/18 luglio 1936 nell’incapacità del legittimo governo della sinistra di contrastare le spinte anarcoidi ed il caos provocato dalle sue frange estreme, perdendo così l’occasione storica di governare il paese con criteri di giustizia sociale in un ordinato regime di libertà.
Nella guerra civile che ne seguì si verificò una situazione analoga a quella di liberazione italiana del 43/45 allorchè molti partigiani cattolici – pur non condividendo la loro ideologia – si trovarono a combattere assieme ai comunisti uniti nella lotta per liberare l’Italia dai nazifascisti.
Allo stesso modo i baschi, con l’appoggio di molti loro sacerdoti, si trovarono a combattere fianco a fianco con comunisti ed anarchici contro Franco ma con un fine diverso: la strenua difesa dell’autonomia regionale basca, non già la vittoria del comunismo in Spagna.
A conferma, il favore del clero basco per la lotta autonomista contro il generale Franco è dimostrata dal fatto che proprio un sacerdote - padre Alberto de Onaindìa - ebbe durante la guerra civile spagnola l’incarico di agente diplomatico delle province basche a Parigi.
Inoltre, gli unici a non firmare una lettera collettiva con cui la gerarchia cattolica plaudeva all’”alziamento” di Franco, furono proprio il cardinale Francisco Vidal y Barraquer arcivescovo di Tarragona in Catalogna, e mons. Mateo Magica, vescovo di Vitoria, capitale delle Province Basche.
Del resto, ancor oggi molta parte del clero basco appoggia le istanze indipendentiste della regione: ed il fermo, avvenuto tempo fa da parte della polizia di due monaci benedettini con l’accusa, infondata, di essere favorevoli all’organizzazione terroristica dell’ETA (in realtà essi appoggiavano le istanze dell’ETA alle istituzioni europee affinché premano sul governo spagnolo per un’uscita negoziale dal conflitto) ne è un sintomo evidente.
Fu dunque la profonda ostilità contro il regionalismo basco a prevalere sul sentimento religioso del generale Franco che non esitò, in nome del mito dell’unità della patria spagnola, ad ordinare, dopo la caduta di Bilbao in mano nazionalista la fucilazione di 14 sacerdoti baschi rei non già di essere comunisti, ma di appoggiare la propria gente nella realizzazione di un sogno antico: l’autonomia della “Euskal Herria”, la patria basca.
Ma singolare - e triste – è il destino di quei 14 sacerdoti.
Mentre Giovanni Paolo II ha proclamato beati 250 martiri della guerra civile spagnola che hanno dato la vita a causa dell’odio dei repubblicani verso la religione cattolica – e altri processi di beatificazione sono ancora aperti – difficilmente pari onore toccherà ai 14 fucilati da Franco perché essi non si sacrificarono per la loro fede, ma per la militanza attiva nel movimento indipendentista basco ferocemente osteggiato dai nazionalisti spagnoli del generale Franco.
“Martiri” della patria basca, dunque, non “Martiri” della Chiesa Cattolica, per cui molto difficilmente coloro che ne esaltano il sacrificio saranno in grado di farli ascendere alla gloria degli altari.
Giovanni Zannini
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