Se è a tutti noto il tonante
“Obbedisco” di Garibaldi nella III Guerra d'Indipendenza del
1866, meno nota è la sua disobbedienza del 1867 all'ordine del Re di
fermare la sua corsa verso Roma.
Terminata la guerra d'indipendenza del
1866 il governo Rattazzi, sospettando che Garibaldi mettesse in atto
un altro tentativo di liberare Roma dal Papa per farne la capitale
del regno d'Italia creando gravi complicazioni internazionali, lo
confinò, prudenzialmente, sotto stretta sorveglianza, a Caprera.
Ma fin dall'ottobre 1867 molti patrioti
italiani fra i quali gli stessi figli di Garibaldi Ricciotti e Men
otti, si erano concentrati a Terni, con l'intento di organizzarsi in
attesa di oltrepassare il vicino confine con il Lazio, di invadere
“Il Patrimonio” (così erano denominate le terre dello Stato
Pontificio), e puntare su Roma.
Equivoco, nei loro confronti, il
comportamento del governo Italiano che aveva stipulato nel 1864 con
quello francese la cosiddetta “Convenzione di settembre” con la
quale si impegnava a difendere la libertà dello Stato Pontificio in
vece della Francia che aveva ritirato da Roma le proprie truppe fino
ad allora garanti della sovranità del Papa.
Ma sottobanco, pur a conoscenza degli
intenti dei volontari, il governo Rattazzi aveva deciso di chiudere,
come si dice, un occhio ritenendo che, alla fine, avrebbe fatto
comodo all'Italia se il loro tentativo avesse avuto buon esito.
Intanto Menotti, rotti gli indugi, alla
testa di una colonna di quasi 3000 uomini, aveva attraversato il 21
ottobre il fiume Farfa che segnava il confine con il “Patrimonio”
a Passo Corese (frazione del comune di Fara Sabina), inseguito da
molti altri volontari che individualmente o a piccoli gruppi, a
proprie spese, malamente vestiti e peggio armati, provenienti da
diverse parti d'Italia, volevano partecipare con lui all'impresa.
L'entusiasmo dei volontari è massimo
allorchè Garibaldi, partito da Caprera il 18 ottobre, dopo un
viaggio avventuroso raggiunge il giorno 23 Menotti ed i suoi uomini
ed assume il comando della spedizione.
Il giorno seguente, lasciato Passo
Corese, punta su Monterotondo e sconfitti, dopo un dura battaglia,
i papalini, s' insedia nel paese.
A questo punto, di fronte alla decisa
reazione della Francia che imputa all'Italia di essere collusa con
Garibaldi in violazione della “Convenzione di settembre”, il
governo italiano presieduto da Menabrea succeduto il 27 ottobre a
Rattazzi, effettua un brusco voltafaccia.
Così, lo stesso giorno
dell'insediamento di Menabrea, il Re Vittorio Emanuele emette da
Firenze, ove aveva spostato la capitale del Regno, un proclama con il
quale, senza nominare Garibaldi, denuncia il comportamento di
“schiere di volontari eccitati e sedotti dall'opera di un partito
senza autorizzazione mia né del mio governo” e confida che “i
cittadini italiani che violarono quel diritto si porranno prontamente
dietro le linee delle nostre truppe”, ovvero rientreranno nei
confini nazionali ponendo fine all'impresa.
E Vittorio Emanuele sarebbe stato
pronto, in caso contrario, ad usare di nuovo la forza come in
Aspromonte, se Napoleone, per evitare questa nuova tragedia, non lo
avesse esentato affermando che avrebbe lui solo provveduto alla
bisogna.
Sia qui consentito, a titolo di
curiosità, aprire una piccola parentesi per segnalare un notevole
errore nel quale, nel suddetto proclama, il re, o chi per lui, era
incappato. Esso, infatti, si concludeva con una frase sgrammaticata
con la quale il re confermava l'affetto ”per questa nostra grande
patria la quale mercè i comuni sacrifici tornammo finalmente nel
numero delle grandi nazioni”.
Ma lasciamo questo reale svarione, e
riandiamo a Garibaldi.
Dunque, il proclama viene emesso il 27
ottobre allorchè egli, dopo una cruenta battaglia era riuscito a
conquistare Monterotondo ove si era insediato e donde, preoccupato
e turbato, “dall'alto della torre del palazzo Piombino trascorrevo
la maggior parte della giornata a guardare Roma e ad osservare gli
esercizi dei nostri giovani soldati” nonché, purtroppo, anche “le
continue diserzioni provocate dai mazziniani”: grave affermazione
peraltro smentita da Mazzini.
Il proclama reale provoca nei
volontari una violenta protesta: si urla, si grida al tradimento,
mentre frate Pantaleo (che aveva la funzione di cappellano dei
garibaldini), infuocato, invoca l'Anticristo.
E Garibaldi? Non vi è alcuna traccia
della sua reazione all'ultimatum, neppure nelle sue memorie,
ove di esso non si fa parola alcuna. Un
anno prima, in Trentino, aveva risposto con il famoso “Obbedisco”.
Qui, benchè offeso, tace. Cupo, non parla, non fa gesti clamorosi:
lo ignora, e tira dritto.
Sconfortato, prende una decisione:”
...A causa dello stato morale della gente appena descritto, e
trovandoci noi chiusi a nord dai corpi dell'esercito italiano che ci
impedivano con la loro presenza di procurarci ciò che ci
necessitava, dovevamo assolutamente cercarci un altro posto dove fare
l'accampamento dove avremmo aspettato gli eventi per poi decidere il
da farsi. Perciò, lasciato Monterotondo, marciammo verso Tivoli per
lasciare alle spalle i monti dell'Appennino e qui avvicinarsi alle
province meridionali. Venne deciso di incominciare la marcia
il 3 novembre al mattino”. E qui un
desolante particolare: “Ma non tutti avevano le scarpe, e perdemmo
tempo nella distribuzione per cui ci muovemmo soltanto verso
mezzogiorno”.
Ed inizia la tragedia.
Tutto il corpo dei volontari, lasciato
Monterotondo, imbocca la Nomentana diretto verso Tivoli, ma appena
superato il paese di Mentana si trova di fronte un forte contingente
di papalini usciti da Roma per affrontarli. I garibaldini sono
inizialmente costretti ad arretrare su Mentana dove però la
battaglia volge a loro favore e gli avversari sono messi in fuga. Ma
ecco sopraggiungono in loro soccorso i francesi appena arrivati a
Roma inviativi in gran fretta da Napoleone III. Di fronte ai loro
micidiali “Chassepot”, i nuovi fucili ad ago che sparavano 12
colpi al minuto (gran belle armi, anche se forse troppo magnificate
dal momento che in nota ad un libro sulle memorie di Garibaldi si
legge che esse, usate per la prima volta a Mentana “s'inceppavano e
si scaldavano troppo per essere impugnate, tanto che in gran parte
sia era dovuto sostituirle”) ogni resistenza è vana. I
garibaldini sono costretti a lasciare Mentana, a ripiegare su
Monterotondo e quindi arretrare fino a Passo Corese ove, dopo aver
deposto le armi sul ponte che attraversa il Farfa, varcano il confine
e rientrano in territorio italiano.
Garibaldi, accompagnato da Francesco
Crispi, viene accolto cordialmente, nonostante gli ordini
governativi in contrario, dal colonnello Caravà che era stato ai
suoi ordini in campagne precedenti e che lo imbarca su di un treno
diretto al nord. Ma a Perugia, vane le sue energiche proteste, è
arrestato, ed inviato in Liguria alle carceri di Varignano donde
verrà rilasciasto dopo 22 giorni dietro sua formale promessa di non
allontanarsene per almeno sei mesi.
Ma vi resterà quasi tre anni allorchè
ai primi di ottobre del 1870, pur stanco e malato, oramai dimentico
di Mentana, si recherà in Francia per mettere le sue residue forze
al servizio della Repubblica francese sorta sulle ceneri dell' impero
dell'odiato Napoleone III.
Padova 10-3-2017
Giovanni Zannini
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